FRODE FISCALE REATO AVVOCATO PENALISTA

FRODE FISCALE REATO AVVOCATO PENALISTA

FRODE FISCALE REATO AVVOCATO PENALISTA

FRODE FISCALE REATO AVVOCATO PENALISTA

Emissione di fatture false

Condotta: emissione di fatture o ricevute per operazioni inesistenti al fine di consentire a terzi l’evasione dell’imposta sui redditi o dell’Iva, a prescindere dall’utilizzazione o meno dei documenti falsi da parte del soggetto ricevente e dall’importo (prima la soglia di punibilità era di 196 mila euro).

Sanzioni: da 1 anno e 6 mesi a 6 anni.

Dichiarazione fraudolenta

REATI TRIBUTARI

 

AVVOCATO DIFENSORE

PROCESSO REATI TRIBUTARI CORTE APPELLO BOLOGNA

PROCESSO REATI TRIBUTARI CORTE APPELLO MILANO

PROCESSO REATI TRIBUTARI CORTE APPELLO TORINO

PROCESSO REATI TRIBUTARI CORTE APPELLO VENEZIA

PROCESSO REATI TRIBUTARI CORTE APPELLO BRESCIA

PROCESSO REATI TRIBUTARI RAVENNA

PROCESSO REATI TRIBUTARI VICENZA

PROCESSO REATI TRIBUTARI RIMINI

PROCESSO REATI TRIBUTARI FORLI

 

 

 

 

1. La fattispecie di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, a norma dell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000, è costituita dalla condotta, di chi, «al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi». A norma del comma 1, lett. a) del d.lgs. cit., «per “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi». 3.2. Nel caso di specie, il fatto materiale risulta puntualmente ricostruito dalla sentenza impugnata e non vi sono contestazioni del ricorrente in proposito. Precisamente, il fatto è stato commesso mediante l’annotazione nelle scritture contabili della “FA.BIT. s.r.l.” di una fattura recante l’importo di 22,41 euro ed I.V.A. pari a 4,48 euro, aggiungendovi del tutto arbitrariamente gli importi di 1,00 euro di imponibile e di 1.702.514,00 euro di I.V.A. detraibile, e, poi, mediante il riporto di tale annotazione alla voce “variazioni e arrotondamenti d’imposta” del modello unico 2009 relativo all’anno d’imposta 2008 dell’impresa, al fine di indurre l’Amministrazione finanziaria in errore circa l’effettiva entità dell’I.V.A. detraibile e, così, di procurare all’ente l’indicata somma di 1.702.514,00 euro. La Corte d’appello aggiunge che la società «attraverso l’artificio sopra descritto» – siccome l’art. 38-bis d.P.R. n. 633 del 1972 consente il rimborso, in pendenza dell’accertamento fiscale, previa presentazione di idonea garanzia – «ha perseguito lo scopo di ottenere immediata liquidità […] per il solo effetto dell’esposizione del credito I.V.A. e della prestazione di una garanzia, 3 Corte di Cassazione – copia non ufficiale indipendentemente dall’accertamento fiscale che avrebbe potuto verificare che il rimborso era indebito a distanza di anni». 3.3. La condotta così ricostruita deve ritenersi sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000. Innanzitutto, la condotta, nella specie, è integrata dall’annotazione mendace su di una fattura dell’importo di 1.702.514,00 euro quale I.V.A. versata, e poi dal riporto di tale annotazione nella dichiarazione fiscale. In questo modo, la fattura in questione «indica[…] l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale» e, quindi, a norma dell’art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 74 del 2000, è da classificare tra le «fatture o altri documenti per operazioni inesistenti». La stessa, inoltre, in quanto riportata nel suo contenuto mendace nella dichiarazione fiscale, è utilizzata per indicare in quest’ultima «elementi passivi fittizi» Il fine di evasione dell’I.V.A., poi, si evince dal fatto che l’esposizione dell’annotazione mendace costituisce la premessa per ottenere il rimborso della somma di 1.702.514,00 euro, indicata come fittiziamente versata. Né la conclusione appena indicata può essere messa in dubbio perché, come osserva la sentenza impugnata, il fine della società era quello di ottenere immediata liquidità. Invero, a norma dell’art. 1, comma 1, lett. d), il fine di evadere le imposte si intende comprensivo «anche del fine di conseguire un indebito rimborso o il riconoscimento di un inesistente credito di imposta». E la liquidità cui mirava la società – meglio: il suo legale rappresentante – attraverso la condotta fraudolenta era perseguita proprio mediante il conseguimento di un indebito rimborso. Quindi, se la società (meglio: il suo legale rappresentante) aveva lo scopo di procurarsi liquidità attraverso un indebito rimborso, il fine perseguito era necessariamente quello di «conseguire un indebito rimborso o il riconoscimento di un inesistente credito di imposta». Del resto, può aggiungersi, nell’esperienza empirica, il fine di conseguire un indebito rimborso è indefettibilmente funzionale all’esigenza di reperire liquidità o comunque disponibilità monetarie. 4. Posto che la condotta ritenuta sussistente dalla sentenza impugnata è sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, deve escludersi l’applicabilità della disposizione di tentata truffa, come invece ritenuto dalla Corte d’appello, in ragione del principio di specialità tra le due previsioni incriminatrici. Invero, secondo un principio enunciato dalle Sezioni Unite, e dal quale non vi sono ragioni per dissentire, è configurabile un rapporto di specialità tra le fattispecie penali tributarie in materia di frode fiscale (artt. 2 ed 8 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74) ed il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640, secondo comma, n. 1, cod. pen.), in quanto qualsiasi condotta fraudolenta diretta alla 4 Corte di Cassazione – copia non ufficiale evasione fiscale esaurisce il proprio disvalore penale all’interno del quadro delineato dalla normativa speciale, salvo che dalla condotta derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto all’evasione fiscale, quale l’ottenimento di pubbliche erogazioni (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248865- 01). 5. Non essendo configurabile il reato di tentata truffa, bensì quello di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000, deve escludersi che, nella specie, ricorra un reato idoneo, secondo la disciplina vigente all’epoca del fatto, ossia nel 2009, a costituire presupposto per la responsabilità amministrativa a norma del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. Invero, a norma dell’art. 2 d.lgs. n. 231 del 2001, l’ente non può essere ritenuto responsabile per un fato costituente reato se la sua responsabilità amministrativa in relazione a quel reato e le relative sanzioni non sono espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della commissione del fatto. Ora, la responsabilità dell’ente per un fatto costituente reato a norma dell’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000 è stata prevista solo in epoca di molto successiva al fatto in contestazione, e precisamente per effetto dell’art. 39, comma 2, d.l. 26 ottobre 2019, n. 124, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 dicembre 2019, n. 157

Condotta: falsificazione delle dichiarazioni dei redditi o Iva inserendo elementi passivi fittizi (falsa fatturazione) o alterando le scritture contabili (per i soggetti obbligati). Il reato sussiste se:
– l’imposta evasa è superiore a 30mila euro con riferimento a ciascuna delle singole imposte (prima era 77.468,53), e
– i redditi non dichiarati superano il 5% del totale o comunque 1,5 milioni di euro (prima era 1 milione)

Sanzione: reclusione da 1 anno e 6 mesi a 6 anni.

A differenza dell’evasione fiscale, la frode fiscale scatta quando il contribuente non si limita a «non pagare le imposte» ma pone un «comportamento attivo», ossia degli artifici e raggiri volti a occultare i propri redditi e a pagare meno tasse.

Qui siamo sempre nell’ambito del penale. Non ci sono quindi soglie di punibilità sotto le quali si rischiano solo sanzioni amministrative. In pratica, la frode fiscale è sempre un reato.

Esistono due tipi di dichiarazione fraudolenta (o frode fiscale):

  • dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti;
  • dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici.
FRODE FISCALE REATO AVVOCATO PENALISTA

 Si configura il reato di frode fiscale qualora taluno, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto ed avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indichi in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi passivi fittizi. È, altresì, sanzionata la condotta di chi emette fatture o documenti per operazioni inesistenti al fine di consentire a terzi l’ evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto. 

La Corte di Cassazione ha evidenziato la specialità del reato di frode fiscale rispetto a quello di truffa aggravata ai danni dello Stato. Gli elementi comuni delle due fattispecie sono ravvisabili nella induzione in errore perpetrata mediante artifici e raggiri, mentre l’elemento qualificante la frode fiscale si individua nella specifica modalità realizzativa e, dunque, nello specifico artificio posto in essere consistente nell’emissione di fatture o altri documenti relativi ad operazioni inesistenti ai fini di evasione propria od altrui. Sebbene nella configurazione della frode fiscale non rilevi il conseguimento del profitto, esso emerge sempre quale scopo della condotta tipica sorretta dal dolo specifico.

in tema di reati tributari, ai fini della integrazione del reato di cui alli art. 5 D.Igs. n. 74 del 2000, per “imposta evasa” deve intendersi l’intera imposta dovuta, da determinarsi sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi d’esercizio fiscalmente detraibili, in una prospettiva di prevalenza del dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento tributario (Sez.3, n.21213 del 26/02/2008, Rv.239983; Sez.3, n.38684 del 04/06/2014, Rv.260389; Sez.3, n.15899 del 02/03/2016, Rv.266817). E’ rimesso, quindi, al giudice penale il compito di accertare l’ammontare dell’imposta evasa, da determinarsi sulla base della contrapposizione tra ricavi e costi d’esercizio detraibili, mediante una verifica che, privilegiando il dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento fiscale, può sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario ( Sez.3,n.38684 del 04/06/2014, Rv.260389). In tema di reati tributari, ai fini del superamento della soglia di punibilità di cui all’art. 5 del D.Igs. n. 74 del 2000, il giudice può legittimamente avvalersi dell’accertamento induttivo dell’imponibile compiuto dagli uffici finanziari (Sez. 3, n. 24811 del 28/04/2011, Rv. 250647; Sez. 3, n. 40992 del 14/05/2013, Rv. 257619) E’ stato affermato, da un lato, che in tema di reati tributari, ai fini della prova del reato di dichiarazione infedele, il giudice può fare legittimamente ricorso ai verbali di constatazione redatti dalla Guardia di Finanza ai fini della determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, nonché ricorrere all’accertamento induttivo dell’imponibile quando le scritture contabili imposte dalla legge siano state irregolarmente tenute (Sez. 3, n. 5786 del 18/12/2007 – dep. 06/02/2008, D’Amico, Rv. 238825) e, dall’altro, che il giudice può legittimamente fondare il proprio convincimento, in tema di responsabilità dell’imputato per omessa annotazione di ricavi, sia sull’informativa della G.d F. che abbia fatto riferimento a percentuali di ricarico attraverso una indagine sui dati mercato, che sull’accertamento induttivo dell’imponibile operato dall’ufficio finanziario quando la contabilità imposta dalla legge non sia stata tenuta regolarmente. Ciò a condizione che il giudice non si limiti a constatarne l’esistenza e non faccia apodittico richiamo agli elementi in esso evidenziati, ma proceda a specifica, autonoma valutazione degli elementi nello stesso descritti comparandoli con quelli eventualmente acquisiti aliunde (Sez. 3, n. 1904 del 21/12/1999 – dep. 21/02/2000, Zarbo E, Rv. 215694).

La Corte ha avuto modo di esaminare in plurime occasioni le questioni che concernono l’applicabilità del citato art.70 d.P.R. n.633 del 1972 alle operazioni commerciali poste in essere con Paesi che hanno stipulato specifica convenzione con le istituzioni comunitarie (ora dell’Unione europea), e segnatamente con la Confederazione Elvetica e la Repubblica di San Marino.

Può essere pertanto richiamata in questa sede la giurisprudenza con cui la Corte di cassazione ha ritenuto che le operazioni di importazione da quei Paesi non sono soggette al regime doganale, ma possono costituire oggetto di violazione dell’assoggettamento a tributo “interno” ai sensi del citato art.70, con l’unico limite del divieto di doppia imposizione; sul punto si richiamano le decisioni di questa Sezione n.36198 del 4/7/2007, P.M. in proc.Di Fulvio (rv 237552), n. 16860 del 17/3/2010 (rv 246990) e n. 42073 del 6(10/2011 (rv 251310); in particolare, la condivisibile motivazione della sentenza n.36198/2007, afferma:

L’Accordo stipulato il 19 Dicembre 1972 tra la Comunità Elvetica e la Comunità europea prevede all’art.3 che i dazi doganali all’’importazione negli scambi tra la Svizzera e la Comunità sono gradualmente soppressi (con eliminazione totale a far data dal 1° luglio 1977) e che “nessun nuovo dazio doganale all’importazione viene introdotto”, aggiungendo poi, all’art.6, che “nessuna nuova tassa di effetto equivalente a dei dazi doganali all’importazione è introdotta negli scambi tra la Comunità e la Svizzera”. Infine, giova evidenziare che l’art.4 prevede che: “Le disposizioni relative alla graduale soppressione dei dazi doganali all’importazione sono applicabili anche ai dazi doganali a carattere fiscale. Le Parti contraenti possono sostituire con tassa interna un dazio doganale a carattere fiscale o l’elemento fiscale di un dazio doganale”.

  1. Conformemente a quanto stabilito da quest’ultima disposizione, la Corte di cassazione ha più volte affermato, con decisioni che questo Giudice ritiene di condividere, che l’Accordo sottoscritto tra la Confederazione Elvetica e la Comunità lascia “impregiudicata la facoltà di riscossione dell’Iva all’atto dell’ingresso delle merci nel territorio degli Stati aderenti alla Comunità, trattandosi di imposta in cui presupposto finanziario è diverso da quello dei dazi doganali” (sentenza emanata da questa Sezione il 30 aprile-10 giugno 2002, n. 22555, Panseri, rv 221884). Tale orientamento, che potremmo definire costante, è stato ribadito e precisato da altra e più recente decisione di questa stessa Sezione (sentenza n. 17432 del 22 marzo-9 maggio 2005, Pm inproc.Visconti Prasca, rv 231613), secondo cui il reato di violazione dell’Iva all’importazione (art.70 del d.P.R. n.633 del 19472) non è affatto escluso dall’Accordo tra la Confederazione Elvetica e la Comunità in quanto l’Iva costituisce un tributo interno che secondo i principi del Trattato CE è dovuto allo Stato al momento dell’ingresso delle merci, a meno che non si provi che il tributo è già stato assolto anteriormente sia pure al momento dell’esportazione dallo Stato di provenienza. Neil’affermare in tal modo la operatività dei principio della “neutralità commerciale” dell’imposta sancito dall’art.4 dell’Accordo, la decisione in esame ricorda come proprio tale principio fosse alla base della precedente sentenza che aveva escluso in concreto la sussistenza del reato sulla base del divieto di doppia imposizione (il riferimento è alla sentenza n. 10677 del 2004, citata non felicemente dal Tribunale di Aosta quale conferma di una giurisprudenza “costante” di questo Giudice in favore della non operatività dell’art.70 d.P.R. n.633 del 1972).

Si può dunque concludere che la giurisprudenza di questa Corte ritiene in modo costante che l’Accordo tra Confederazione Elvetica e Comunità impedisca di ritenere ancora sussistente il reato di contrabbando e, al contrario, ammetta la sussistenza dell’ipotesi di evasione dell’Iva all’importazione, con l’unico limite del divieto di doppia imposizione.

Tale conclusione appare del tutto in linea con la decisione della Corte di Giustizia che ha affermato che l’Iva all’importazione costituisce un tributo interno e non una tassa ad effetto equivalente al dazio doganale (sentenza del 25 febbraio 1998 nella causa n.299/1986), con decisione che esclude, contrariamente a quanto ritenuto dalla citata sentenza n. 10677 del 2004, il contrasto del regime dell’Iva all’importazione, e le relativa sanzioni, con l’art.95 del Trattato CE in materia di libera circolazione.

Merita di essere ricordato, poi, che sia la citata sentenza n.22555 del 2002 sia la sentenza emessa da questa Sezione il 3 marzo-13 maggio 2005, n. 17835, Santoro (rv 231836), hanno escluso che l’Accordo tra Comunità e Confederazione Elvetica comporti l’automatica e totale applicazione dei principi comunitari al trasferimento di beni fra uno Stato membro e la Svizzera, con la conseguenza che solo per gli scambi comunitari opera il divieto di applicazione di un maggior livello sanzionatorio degli illeciti (sentenza n.22555/2002) e che solo tra i Paesi membri trova applicazione nella sua interezza il regime di libera circolazione (sentenza n. 17835/2005). Quest’ultima decisione ha, infine affermato che le violazioni in materia di Iva all’importazione comportano la confisca obbligatoria ai sensi delìart.301 del d.PR. n.43 del 1973.”.

La configurabilità del reato previsto dall’art.640, comma 2, cod. peti, e il ricorso delle parti civili

Le Difese degli imputati, richiamando la motivazione della sentenza impugnata, hanno prospettato una generale incompatibilità fra la contestazione dei reati previsti dal d.lgs. 10 marzo 2000, n.74 e l’ipotesi di reato ex art.640, comma 2, cod. pen. Si tratta di ipotesi interpretativa che viene fondata essenzialmente sul contenuto della decisione delle Sezioni Unite Penali, n.1235 del 28/10/2010, Giordano e altri, ricorrendo ad argomentazioni che questo Collegio non condivide e che impongono di ritenere condivisibili le ragioni poste a fondamento del ricorso delle parti civili.

Non vi è dubbio che la lettura della massima che sintetizza la decisione si presta a considerare il delitto previsto dal codice penale come soccombente rispetto alle violazioni previste dalla normativa speciale in tema di violazioni tributarie; si legge, infatti, che “qualsiasi condotta fraudolenta diretta all’evasione fiscale esaurisce il proprio disvalore penale all’interno del quadro delineato dalla normativa speciale, salvo che dalla condotta derivi un profitto ulteriore e diverso rispetto all’evasione” (rv 248865).

Ciò premesso, e richiamata la circostanza che nel presente procedimento le violazioni al d.lgs. 10 marzo 2000, n.74 si esauriscono nella sola ipotesi di reato ex art.10 (capo H), la Corte rileva che la citata sentenza delle Sezioni Unite espressamente affronta il tema del rapporto di specialità fra il delitto ex art.640, comma 2, cod. pen. e quello/quelli di “frode fiscale” avendo come riferimento non tutte le disposizioni del citato d.lgs., ma solo quelle che sanzionano la presentazione di dichiarazione infedele e l’emissione di fatture per operazioni inesistenti. Richiamata la “ratio” della riforma dell’anno 2000, quale emerge dalla precedente sentenza delle stesse Sezioni Unite, n.27 del 25/10/2000, Di Mauro, la motivazione della sentenza n.1235 del 2010 conclude affermando il seguente principio: “/ reati in materia fiscale di cui agli artt.2 e 8 del d.lgs. 10 marzo 2000, n.74, sono speciali rispetto ai delitto di truffa aggravata a danno dello Stato di cui all’art.640, secondo comma, n. 1 cod. pen.”. Senza che sia necessario riportare qui la parte rilevante della motivazione della sentenza, cui si rinvia, può affermarsi che le Sezioni Unite hanno ritenuto che le condotte ex art.2 e art.8, citati, comportando una fraudolenta esposizione di costi e ricavi tali da alterare l’ammontare delle imposte dovuto dagli autori del reato, contengono in sé tutti gli elementi propri della sottrazione di somme al bilancio statale e, dunque, escludono che per tale sottrazione gli autori possano rispondere anche ai sensi dell’art.640, comma 2, cod. pen.

Così fissato il rapporto di specialità esistente tra il delitto di truffa aggravata e quello di frode fiscale, appare evidente che la condotta ex art. 10 del d.lgs. 10 marzo 2000, n.74 non presenta alcuna delle caratteristiche che rendono i suddetti artt. 2 e 8 “speciali” rispetto all’art.640, comma 2, citato. La condotta di distruzione o occultamento della documentazione, infatti, non comporta da sola alcuna alterazione delle somme riportate in contabilità e nella dichiarazione annuale, così che non incide sui rapporti di debito/credito con l’Amministrazione finanziaria e rimane priva della natura di frode comportante un danno diretto per l’Erario. La condotta prevista dall’art. 10 costituisce, piuttosto, una delle operazioni artificiose funzionali alla dichiarazione fraudolenta e alla falsificazione dei dati contabili, avendo la finalità di ostacolare la ricostruzione dei dati contabili e dei fatti, di impedire l’identificazione degli autori delle frodi e, in altri termini, di creare uno schermo tra costoro e gli organi accertatori così da assicurare l’impunità alle persone e di impedire il recupero delle somme altrimenti evase.

Le Sezioni Unite della  Corte hanno affermato che la transnazionalità non è un elemento costitutivo di una autonoma fattispecie di reato, ma un predicato riferibile a qualsiasi delitto, a condizione che sia punito con la reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, sia riferibile ad un gruppo criminale organizzato, anche se operante solo in ambito nazionale e ricorra, in via alternativa, una delle seguenti situazioni: a) il reato sia commesso in più di uno Stato; b) il reato sia commesso in uno Stato, ma con parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo in un altro Stato; c) il reato sia commesso in uno Stato, con implicazione di un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato; d) il reato sia commesso in uno Stato, con produzione di effetti sostanziali in altro Stato (così SS.UU. n. 18374 del 31.1.2013, Adami ed altro, rv. 255033-34-35-36-37-38, che in motivazione hanno precisato che il riconoscimento del carattere transnazionale non comporta alcun aggravamento di pena, ma produce gli effetti sostanziali e processuali previsti dalla legge n. 146 del 2006 agli articoli 10, 11, 12 e 13).

Occorre, tuttavia, avere ben presente la differenza tra gli articoli 3 e 4 della legge 146/2013.

Con l’art. 3 il legislatore offre la definizione di reato transnazionale, precisando che si considera tale il reato, punito con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, qualora sia coinvolto un

FRODE FISCALE REATO AVVOCATO PENALISTA FRAUDOLENTA MILANO PAVIA BERGAMO BRESCIA MONZA

gruppo criminale organizzato, nonché: a) sia commesso in più di uno Stato; b) ovvero sia commesso in uno Stato, ma una parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo avvenga in un altro Stato; c) ovvero sia commesso in uno Stato, ma in esso sia implicato un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato; d) ovvero sia commesso in uno Stato ma abbia effetti sostanziali in un altro Stato.

L’art. 4 introduce, invece, la diversa figura della circostanza aggravante della transnazionalità, applicabile (con un aumento della pena da un terzo alla metà) per i reati puniti con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni nella commissione dei quali abbia dato il suo contributo un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato. Si applica altresì, in tali casi, il comma 2 dell’articolo 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, e successive modificazioni.

La distinzione è importante, per i motivi che si diranno.

Nella richiamata sentenza 18375/2013 le SS.UU. hanno precisato anche che l’aggravante speciale della transnazionalità, di cui all’art. 4 della L. n. 146 del 2006, presuppone che la commissione di un qualsiasi reato in ambito nazionale, purché punito con la reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, sia stata determinata o anche solo agevolata, in tutto o in parte, dall’apporto di un gruppo criminale organizzato, impegnato in attività illecite in più di uno Stato. L’aggravante in questione – viene precisato – è applicabile al reato associativo, sempreché il gruppo criminale organizzato transnazionale non coincida con l’associazione a delinquere.

Il gruppo criminale organizzato, cui fanno riferimento gli artt. 3 e 4 della L. n. 146 del 2006 – giusto il dictum delle Sezioni Unite – è configurabile, secondo le indicazioni contenute nell’art. 2, punti a) e c) della Convenzione delle Nazioni unite contro il crimine organizzato del 15 novembre 2000 (cosiddetta convenzione di Palermo), in presenza dei seguenti elementi: a) stabilità di rapporti fra gli adepti; b) minimo di organizzazione senza formale definizione di ruoli; c) non occasionalità o estemporaneità della stessa; d) costituzione in vista anche di un solo reato e per il conseguimento di un vantaggio finanziario o di altro vantaggio materiale. (In motivazione, la Corte ha evidenziato che il gruppo criminale organizzato è certamente un ‘quid pluris’ rispetto al mero concorso di persone, ma si diversifica anche dall’associazione a delinquere di cui all’art. 416 cod. pen. che richiede un’articolata organizzazione strutturale, seppure in forma minima od elementare, tendenzialmente stabile e permanente, una precisa ripartizione di ruoli e la pianificazione di una serie indeterminata di reati).

Nel solco della pronuncia delle SS.UU., più di recente, si è ancora precisato che l’aggravante della transnazionalità prevista dall’art. 4, legge 16 marzo 2006, n. 146, può trovare applicazione anche quando il gruppo criminale organizzato, operante in più di uno Stato, presta il suo contributo alla commissione di un reato associativo, nella specie, quello previsto dall’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 ma solo a condizione che non ricorrano elementi di ‘immedesimazione’ fra le due strutture criminose (sez. 3, n. 7768 del 4.12.2013 dep. il 19.2.2014, Ca-beza Valencia, rv. 258849).

Reato di Frode Fiscale, avvocato diritto penale tributario

 

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Originally posted 2018-03-25 18:33:11.