COLPA PENALE MEDICA AVVOCATO PROCESSO PENALE MEDICI QUANDO IL MEDICO E’ PENALMENTE RESPONSABILE?

COLPA PENALE MEDICA AVVOCATO PROCESSO PENALE MEDICI QUANDO IL MEDICO E’ PENALMENTE RESPONSABILE? COLPA PENALE MEDICA

 

  • COLPA MEDICAcolpa medica in ambito penale

Prima delle recenti modifiche legislative, la giurisprudenza limitava la responsabilità penale del medico, con riferimento ai delitti di omicidio e lesioni colpose, alle sole ipotesi di colpa grave, in conformità a quanto previsto dall’art. 2236 c.c., in riferimento alle prestazioni professionali comportanti la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà. Il limite veniva riferito alla sola imperizia, ovvero quella derivante dalla violazione delle leges artis, mentre rispetto alla negligenza ed alla imprudenza si riteneva che la valutazione dell’attività del medico dovesse essere improntata a criteri di normale severità (Cass. pen., Sez. IV, 27 gennaio 1984, n. 6650; Cass. pen., Sez. II, 23 agosto 1994, n. 11695).

Altro orientamento, però, mise in discussione il principio sopra riportato, affermando la generale inapplicabilità dell’art. 2236 c.c. al diritto penale, nel quale deve trovare accoglimento l’ordinario criterio di valutazione della colpa di cui all’art. 43 c.p.secondo il consueto parametro dell’homo eiusdem professionis et condicionis, eventualmente arricchito dalle maggiori conoscenze del medico (Cass. pen., Sez. IV, 2 giugno 1987, n. 11733; Cass. pen., Sez. IV, 28 aprile 1984, n. 11007).

La legge n. 24 del 2017 ha introdotto, all’art. 5, un nuovo statuto disciplinare delle prestazioni sanitarie, governato dalle raccomandazioni espresse dalle linee guida accreditate e, in mancanza, dalle buone pratiche clinico-assistenziali.

Ai sensi dell’art. 590-sexies c.p. introdotto dall’art. 6 della medesima legge, tale nuovo quadro disciplinare è rilevante anche ai fini della valutazione della perizia del professionista con riguardo alle fattispecie di cui agli artt. 589 e 590 c.p.; e, per la sua novità, trova applicazione solo ai fatti commessi successivamente all’entrata in vigore della novella.

Per i fatti anteriori può trovare ancora applicazione, ai sensi dell’art. 2 c.p., la disposizione di cui all’abrogato art. 3, comma 1, della legge n. 189 del 2012, che aveva escluso la rilevanza penale delle condotte lesive connotate da colpa lieve, nei contesti regolati da linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica”.

  • colpa medica civile e penale COLPA PENALE MEDICA

  • colpa medica giurisprudenza penale COLPA PENALE MEDICA

  • colpa penale medica LEGGE GELLI BIANCO :

  • Gli esercenti le professioni sanitarie, nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalita’ preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengono, salve le specificita’ del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3 ed elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonche’ dalle societa’ scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche
    delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge,

    e da aggiornare con cadenza biennale. In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali.

    2. Nel regolamentare l’iscrizione in apposito elenco delle societa’ scientifiche e delle associazioni tecnico-scientifiche di cui al comma 1, il decreto del Ministro della salute stabilisce:

    a) i requisiti minimi di rappresentativita’ sul territorio nazionale;

    b) la costituzione mediante atto pubblico e le garanzie da prevedere nello statuto in riferimento al libero accesso dei professionisti aventi titolo e alla loro partecipazione alle decisioni, all’autonomia e all’indipendenza, all’assenza di scopo di lucro, alla pubblicazione nel sito istituzionale dei bilanci preventivi, dei consuntivi e degli incarichi retribuiti, alla dichiarazione e regolazione dei conflitti di interesse e all’individuazione di sistemi di verifica e controllo della qualita’ della produzione tecnico-scientifica;

    c) le procedure di iscrizione all’elenco nonche’ le verifiche sul mantenimento dei requisiti e le modalita’ di sospensione o cancellazione dallo stesso.

  • XXXXXXXXXXXXXXXART 590 SEXIES CP :

  • Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma.

    Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto.

    (Articolo inserito dall’art. 6, comma 1, L. 8 marzo 2017, n. 24, a decorrere dal 1° aprile 2017)

  • La novità più rilevante sul fronte penalistico è contenuta all’art. 6 della legge n. 24 del 2017 e consiste nell’introduzione nel codice penale di un nuovo articolo (590- sexies), a tenore del quale – al di là del richiamo del primo comma all’applicazione delle pene previste per i delitti diart589 e 590 c.p. se i fatti ivi previsti sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria12 – “qualora l’evento si è verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto“.
  • Essi sono infondati, anche se sul punto si impone una integrazione della motivazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’articolo 384 c.p.c., u.c..
  • La corte di appello ha ritenuto abbandonata la questione della sussistenza della possibilita’ di vita extrauterina del feto al momento in cui sarebbe stato possibile diagnosticare le malformazioni del feto e conseguentemente esercitare il diritto di interrompere la gravidanza, in quanto non riproposta con l’appello incidentale, e comunque che fosse onere dell’istituto convenuto provare tale possibilita’.
  • L’istituto ricorrente sostiene di avere riproposto la questione in sede di appello. Assume in ogni caso che, spettando al danneggiato dimostrare il danno, ai sensi dell’articolo 1223 c.c., erano gli attori a dover provare che non sussisteva possibile vita autonoma del feto, presupposto necessario per avvalersi del diritto di interruzione della gravidanza pur in mancanza di pericolo di vita, come previsto della L. n. 194 del 1978, articoli 6 e 7.
  • Orbene, effettivamente non possono condividersi le considerazioni della corte di appello in ordine all’abbandono della questione da parte dell’istituto ricorrente, in quanto non riproposta a mezzo di appello incidentale. Essendo l’istituto risultato vittorioso sul punto, era al piu’ da ritenersi necessaria la sua semplice riproposizione ai sensi dell’articolo 346 c.p.c., come di fatto risulta avvenuto con la comparsa di costituzione in secondo grado.
  • Per quanto poi attiene alla distribuzione dell’onere della prova in relazione al presupposto in esame, non puo’ che ribadirsi, in conformita’ a quanto affermato dalla gia’ richiamata Cass., Sez. U, Sentenza n. 25767 del 22 dicembre 2015, in linea generale, che i presupposti per la legittima interruzione della gravidanza in presenza di gravi malformazioni del nascituro, rientrando tra quelli che integrano il diritto il cui esercizio si assume impedito dalla condotta colposa dei sanitari, vanno provati dalla gestante.COLPA MEDICA
  • Cio’, peraltro, come precisato dalla stesse Sezioni Unite, puo’ certamente avvenire a mezzo di presunzioni e, di conseguenza, anche sulla base di nozioni di comune esperienza, ai sensi dell’articolo 115 c.p.c..
  • Orbene, nella specie la corte di merito ha insindacabilmente accertato, in fatto, che le malformazioni della nascitura avrebbero potuto essere diagnosticate attraverso l’ecografia effettuata alla 23 settimana, e a tale stadio della gravidanza (al 10 marzo 1992 erano passati esattamente cinque mesi dal concepimento, che risulta individuato al 10 ottobre 1991) e’ fatto notorio che l’aborto terapeutico per l’ipotesi di gravi malformazioni del feto che potessero provocare grave pericolo per la salute psichica della gestante (pur in mancanza di pericolo di vita), e quindi ai sensi della L. n. 194 del 1978, articolo 6, lettera b), veniva comunemente praticato all’epoca dei fatti, non ritenendosi sussistere alcuna concreta possibilita’ di vita extrauterina del feto.
  • In tal caso, poi, la sopravvivenza del feto dopo l’aborto non e’ comunque possibile, in quanto la L. n. 194 del 1978, articolo 7, u.c. impone al medico che esegue l’intervento di adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto solo nella diversa ipotesi di aborto praticato ai sensi della lettera a) dell’articolo 6.
  • La decisione della corte di appello sul punto merita percio’ conferma, sia pure con le correzioni di cui sopra.
  • – Con il settimo motivo del ricorso si denunzia “Violazione e falsa applicazione dell’articolo 112 cod. proc. civ. e articolo 2236 cod. civ. (articolo 360 c.p.c., n. 3)”.
  • Anche questo motivo e’ infondato.
  • L’istituto ricorrente deduce che ne’ il giudice di primo grado ne’ la corte di appello si sarebbero pronunziati sull’eccezione proposta per cui la prestazione richiesta agli ecografisti implicasse problemi di speciale difficolta’.
  • Ma deve rilevarsi che la corte di appello, all’esito di puntuale disamina delle consulenze mediche di ufficio e di parte, ha ritenuto sussistere negligenza, e quindi colpa dei sanitari che effettuarono l’esame ecografico del marzo 1992, sulla base della circostanza che essi attestarono positivamente il normale sviluppo del feto pur in mancanza del necessario studio morfologico e sulla base di immagini ecografiche del tutto inidonee ad escludere anomalie del sistema nervoso centrale.

 COLPA MEDICA

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 7 aprile 2016, n. 6793

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere

Dott. TATANGELO Augusto – rel. Consigliere

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere

Dott. DI MARZIO Fabrizio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al numero 22966 del ruolo generale dell’anno 2013, proposto da:

ISTITUTO (OMISSIS) – ENTE ECCLESIASTICO RICONOSCIUTO GESTORE DELL’OSPEDALE (OMISSIS), (C.F.: (OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro tempore Madre (OMISSIS) rappresentata e difesa, giusta procura a margine del ricorso, dall’avvocato (OMISSIS), e domiciliata presso lo studio dello stesso, in (OMISSIS);

– ricorrente –

nei confronti di:

(OMISSIS) (C.F.: (OMISSIS));

(OMISSIS) (C.F.: (OMISSIS));

in proprio e quali esercenti la potesta’ sulla figlia (OMISSIS) (il padre anche quale amministratore di sostegno della stessa) rappresentati e difesi, giusta procura a margine del controricorso, dall’avvocato (OMISSIS), e domiciliati presso lo studio dello stesso, in (OMISSIS);

– controricorrenti –

(OMISSIS) (C.F.: (OMISSIS)) rappresentato e difeso, giusta procura in calce al controricorso, dall’avvocato (OMISSIS), e domiciliato presso lo studio dello stesso, in (OMISSIS);

– controricorrente –

(OMISSIS) PLC (Public Limited Company) – RAPPRESENTANZA GENERALE PER L’ITALIA (C.F.: (OMISSIS)), quale cessionaria del ramo di azienda e del portafoglio assicurativo della rappresentanza generale per l’Italia di (OMISSIS) Ltd, assicuratrice del dr. (OMISSIS), in persona del procuratore speciale (OMISSIS) (procura per notaio (OMISSIS) di Milano in data 22 febbraio 2011, (OMISSIS)) rappresentato e difeso, giusta procura a margine del controricorso, dall’avvocato (OMISSIS), e domiciliato presso lo studio dello stesso, in (OMISSIS);

– controricorrente –

(OMISSIS) PLC (gia’ ZURIGO ASSICURAZIONI S.A.) (C.F.: 05380900968), assicuratrice dell’Istituto (OMISSIS) – Ospedale (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore rappresentato e difeso, giusta procura in calce alla copia notificata del ricorso, dall’avvocato (OMISSIS), e domiciliato presso lo studio dello stesso, in (OMISSIS);

– controricorrente –

(OMISSIS) S.p.A. (C.F.: (OMISSIS)), gia’ (OMISSIS) S.p.A., in persona dei procuratori (OMISSIS) e (OMISSIS) rappresentati e difesi, giusta procura in calce al controricorso, dall’avvocato (OMISSIS), e domiciliato presso lo studio dello stesso, in (OMISSIS);

– controricorrente –

e

(OMISSIS) (C.F.: non dichiarato);

(OMISSIS) (C.F.: non dichiarato);

– intimati –

per la cassazione della sentenza pronunziata dalla Corte di Appello

di Roma n. 3634/2012, depositata in data 10 luglio 2012;

udita la relazione sulla causa svolta alla pubblica udienza in data 15 febbraio 2016 dal consigliere Augusto Tatangelo;

uditi:

l’avvocato (OMISSIS), per l’istituto ricorrente;

l’avvocato (OMISSIS), per i controricorrenti (OMISSIS) e (OMISSIS);

come evitare la bancarotta fraudolenta, come difendersi dalla bancarotta fraudolenta, bancarotta fraudolenta quando, quando si verifica la bancarotta fraudolenta
1.IL CONCORSO DELL’ESTRANEO NELLA BANCAROTTAFRAUDOLENTA

l’avvocato (OMISSIS), per il controricorrente (OMISSIS);

gli avvocati (OMISSIS) e (OMISSIS), per la controricorrente (OMISSIS) PLC;

l’avvocato (OMISSIS), per delega dell’avvocato (OMISSIS), per la controricorrente (OMISSIS) S.p.A.;

il Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore generale Dott. SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per la dichiarazione di inammissibilita’ e, in subordine, per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

(OMISSIS) e (OMISSIS), in proprio e quali legali rappresentanti della figlia (OMISSIS), agirono in giudizio nei confronti dell’Istituto (OMISSIS), gestore dell’Ospedale (OMISSIS) di Roma, deducendo la responsabilita’ del personale medico della struttura sanitaria per il mancato accertamento e l’omessa informazione delle gravi malformazioni della nascitura (OMISSIS) (poroencefalia), che aveva impedito l’esercizio del diritto della madre ad interrompere la gravidanza e causato sia alla nascitura che ai genitori gravi danni economici e sanitari.

L’istituto chiamo’ in causa, per essere manlevata dalle conseguenze di una eventuale condanna, le proprie assicuratrici (OMISSIS) S.A. e (OMISSIS) S.p.A., nonche’ i sanitari che avevano redatto i referti ecografici (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS).

Quest’ultimo a sua volta chiamo’ in causa, per esserne garantito, la propria assicuratrice (OMISSIS) S.A.

La domanda fu parzialmente accolta dal Tribunale di Roma, il quale condanno’ l’istituto convenuto al pagamento dell’importo di Euro 40.000,00 in favore dei soli (OMISSIS) e (OMISSIS), a titolo di danno morale, dichiarando inammissibili le domande proposte dallo stesso istituto convenuto nei confronti dei chiamati in causa. La Corte di Appello di Roma, in riforma della decisione di primo grado, e per quanto ancora rileva, ha condannato l’istituto al pagamento della somma di Euro 722.256,39 in favore della (OMISSIS) e della somma di Euro 708.176,63 in favore del (OMISSIS).

Ricorre l’Istituto (OMISSIS), sulla base di sette motivi. Resistono con distinti controricorsi i coniugi (OMISSIS) e (OMISSIS) (in proprio e nella qualita’ di legali rappresentanti della figlia (OMISSIS)), il (OMISSIS), la (OMISSIS) PLC (che ha depositato due distinti controricorsi, sottoscritti da due diversi legali, in relazione rispettivamente alla propria posizione di assicuratrice della struttura sanitaria e del dr. (OMISSIS)) e l’ (OMISSIS) (gia’ (OMISSIS)) S.p.A..

Hanno depositato memorie ai sensi dell’articolo 378 c.p.c. l’istituto ricorrente, i controricorrenti (OMISSIS) e (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) Plc.

Non hanno svolto attivita’ difensiva in questa sede gli altri intimati.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Preliminarmente, si osserva che non e’ regolare il controricorso di (OMISSIS) PLC (gia’ (OMISSIS) S.A.), quale assicuratrice dell’Istituto (OMISSIS) – Ospedale (OMISSIS), sottoscritto dall’avvocato (OMISSIS), in quanto la procura in favore di quest’ultimo risulta redatta in calce alla copia notificata del ricorso, in quanto “nel giudizio di legittimita’, la procura rilasciata dal controricorrente in calce o a margine della copia notificata del ricorso, anziche’ in calce al controricorso medesimo, non e’ idonea per la valida proposizione di quest’ultimo, ne’ per la formulazione di memorie, in quanto non dimostra l’avvenuto conferimento del mandato anteriormente o contemporaneamente alla notificazione dell’atto di resistenza, ma e’ idonea ai soli fini della costituzione in giudizio del controricorrente e della partecipazione del difensore alla discussione orale, non potendo a tali fini configurarsi incertezza circa l’anteriorita’ del conferimento del mandato stesso” (Sez. U,Sentenza n. 13431 del 13 giugno 2014). Dunque non puo’ tenersi del suddetto controricorso e della memoria depositata ai sensi dell’articolo 378 c.p.c..

2.- Con il primo motivo del ricorso si denunzia “Omesso accertamento della concreta volonta’ di ricorrere all’aborto terapeutico. Violazione degli articoli2697 e 2729 cod. civ. (articolo 360 c.p.c., n. 5)”.

Il motivo e’ infondato.

La corte di appello ha ritenuto sussistente la prova presuntiva che la gestante avrebbe fatto ricorso all’aborto terapeutico se avesse tempestivamente conosciuto le malformazioni della nascitura, considerando la gravita’ di tali malformazioni ed il suo ricorso a continui controlli ecografici, evidentemente volti anche alla conoscenza di eventuali anomalie nello sviluppo del feto.

Si tratta di motivazione adeguata e perfettamente in linea con il recentissimo arresto delle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui “in tema di responsabilita’ medica da nascita indesiderata, il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l’onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facolta’ di interrompere la gravidanza – ricorrendone le condizioni di legge – ove fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale; quest’onere puo’ essere assolto tramite “praesumptio hominis”, in base a inferenze desumibili dagli elementi di prova, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all’opzione abortiva, gravando sul medico la prova contraria, che la donna non si sarebbe determinata all’aborto per qualsivoglia ragione personale” (Cass., Sez. U, Sentenza n. 25767 del 22 dicembre 2015).

3.- Con il secondo motivo del ricorso si denunzia “violazione dell’articolo 345 cod. proc. civ. circa il divieto di ius novorum. Violazione e falsa applicazione di norme di diritto (articolo 360 c.p.c., n. 3)”.

Il motivo e’ infondato.

Secondo l’istituto ricorrente gli attori, dopo aver sostenuto in primo grado che l’inadempimento del personale sanitario sarebbe consistito in un errore di lettura e interpretazione degli esami ecografici, nel giudizio di appello avrebbero sostenuto invece che l’errore avrebbe riguardato la stessa esecuzione di tali esami (e tale assunto sarebbe stato poi accolto in sede di gravame). Cio’ costituirebbe non consentito mutamento della domanda.

Correttamente i controricorrenti fanno rilevare, in contrario, che l’esame ecografico, per la sua stessa natura, non consente di scindere nettamente la fase dell’esecuzione, e cioe’ dell’acquisizione delle immagini, da quella della loro interpretazione, dal momento che e’ lo stesso medico ecografista che muove ed angola la sonda che genera le immagini sul monitor, in modo da evidenziare le zone di interesse ai fini della valutazione del corretto sviluppo del feto. L’esecuzione e l’interpretazione dell’esame strumentale costituiscono in sostanza operazione unitaria e sincronica, che non consente la distinzione operata dall’istituto ricorrente.

D’altra parte, il tenore letterale e la complessiva prospettazione dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado (parzialmente trascritto nello stesso ricorso) non giustificano – ad attento esame – la riduttiva lettura da cui muove il motivo in esame, essendo in esso chiaramente contenuto il riferimento alla possibilita’ di evidenziare, gia’ alla 23 settimana, la presenza di malformazioni del feto, e denunziandosi in definitiva, quale fatto costitutivo della pretesa azionata, l’omessa diagnosi delle suddette malformazioni per l’inesatto adempimento della prestazione professionale avente ad oggetto il relativo esame ecografico.

Rispetto a tale prospettazione non e’ ravvisabile alcun sostanziale mutamento in sede di esposizione dei motivi di gravame (motivi peraltro non trascritti nel ricorso ed indicati in esso solo genericamente), come accolti dalla pronunzia impugnata.

4.– Con il terzo motivo del ricorso si denunzia “Omesso accertamento dei processi patologici che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. Violazione e falsa applicazione della L. 22 maggio 1978, n. 194, articolo 6, lettera b) e dell’articolo 2697 c.c.”. Il motivo e’ infondato.

Nella pronunzia impugnata e’ espressamente affrontata e decisa, con adeguata motivazione, la questione della sussistenza del presupposto del grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, richiesto per l’interruzione della gravidanza dopo il novantesimo giorno dalla L. 22 maggio 1978, n. 194, articolo 6, lettera b).

La corte, premesso che per giustificare l’interruzione della gravidanza non e’ sufficiente un generico danno biologico, essendo necessaria una grave patologia per la salute fisica o psichica della gestante, da accertarsi in termini di alta probabilita’, ha ritenuto nel caso di specie presuntivamente integrato il presupposto in esame – in base ad un giudizio di prognosi postuma – considerando la natura delle malformazioni non diagnosticate e la circostanza che una grave patologia risulta effettivamente insorta a danno dell’attrice, a seguito della nascita del figlio con tali malformazioni.

Si tratta di motivazione esaustiva e immune da vizi logici, come tale certamente non censurabile in sede di legittimita’, del tutto conforma ai principi di diritto desumibili dalle disposizioni cui parte ricorrente assume la violazione.

5.- Con il quarto motivo del ricorso si denunzia “Violazione e falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c.. Omessa pronuncia su un fatto decisivo, eccepito in sede di appello (articolo 360 c.p.c., n. 3)”.

Con il quinto motivo del ricorso si denunzia “Violazione e falsa applicazione della L. n. 194 del 1978, articoli 6 e 7 e articolo 2697 cod. civ. e articolo 54 cod. pen. (articolo 360 c.p.c., comma 3)”.

Con il sesto motivo del ricorso si denunzia “Violazione e falsa applicazione dell’articolo 1223 c.c. (articolo 360 c.p.c., n. 3)”.

Tali motivi possono essere esaminati congiuntamente, dal momento che essi costituiscono una censura sostanzialmente unitaria, avente ad oggetto la questione della sussistenza del presupposto negativo della possibile vita autonoma del feto, necessario per esercitare il diritto di interrompere la gravidanza dopo il novantesimo giorno in presenza di grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna ma in mancanza di grave pericolo di vita (nella specie pacificamente escluso), nonche’ al relativo onere probatorio.

Essi sono infondati, anche se sul punto si impone una integrazione della motivazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’articolo 384 c.p.c., u.c..

La corte di appello ha ritenuto abbandonata la questione della sussistenza della possibilita’ di vita extrauterina del feto al momento in cui sarebbe stato possibile diagnosticare le malformazioni del feto e conseguentemente esercitare il diritto di interrompere la gravidanza, in quanto non riproposta con l’appello incidentale, e comunque che fosse onere dell’istituto convenuto provare tale possibilita’.

L’istituto ricorrente sostiene di avere riproposto la questione in sede di appello. Assume in ogni caso che, spettando al danneggiato dimostrare il danno, ai sensi dell’articolo 1223 c.c., erano gli attori a dover provare che non sussisteva possibile vita autonoma del feto, presupposto necessario per avvalersi del diritto di interruzione della gravidanza pur in mancanza di pericolo di vita, come previsto della L. n. 194 del 1978, articoli 6 e 7.

Orbene, effettivamente non possono condividersi le considerazioni della corte di appello in ordine all’abbandono della questione da parte dell’istituto ricorrente, in quanto non riproposta a mezzo di appello incidentale. Essendo l’istituto risultato vittorioso sul punto, era al piu’ da ritenersi necessaria la sua semplice riproposizione ai sensi dell’articolo 346 c.p.c., come di fatto risulta avvenuto con la comparsa di costituzione in secondo grado.

Per quanto poi attiene alla distribuzione dell’onere della prova in relazione al presupposto in esame, non puo’ che ribadirsi, in conformita’ a quanto affermato dalla gia’ richiamata Cass., Sez. U, Sentenza n. 25767 del 22 dicembre 2015, in linea generale, che i presupposti per la legittima interruzione della gravidanza in presenza di gravi malformazioni del nascituro, rientrando tra quelli che integrano il diritto il cui esercizio si assume impedito dalla condotta colposa dei sanitari, vanno provati dalla gestante.

Cio’, peraltro, come precisato dalla stesse Sezioni Unite, puo’ certamente avvenire a mezzo di presunzioni e, di conseguenza, anche sulla base di nozioni di comune esperienza, ai sensi dell’articolo 115 c.p.c..

Orbene, nella specie la corte di merito ha insindacabilmente accertato, in fatto, che le malformazioni della nascitura avrebbero potuto essere diagnosticate attraverso l’ecografia effettuata alla 23 settimana, e a tale stadio della gravidanza (al 10 marzo 1992 erano passati esattamente cinque mesi dal concepimento, che risulta individuato al 10 ottobre 1991) e’ fatto notorio che l’aborto terapeutico per l’ipotesi di gravi malformazioni del feto che potessero provocare grave pericolo per la salute psichica della gestante (pur in mancanza di pericolo di vita), e quindi ai sensi della L. n. 194 del 1978, articolo 6, lettera b), veniva comunemente praticato all’epoca dei fatti, non ritenendosi sussistere alcuna concreta possibilita’ di vita extrauterina del feto.

In tal caso, poi, la sopravvivenza del feto dopo l’aborto non e’ comunque possibile, in quanto la L. n. 194 del 1978, articolo 7, u.c. impone al medico che esegue l’intervento di adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto solo nella diversa ipotesi di aborto praticato ai sensi della lettera a) dell’articolo 6.

La decisione della corte di appello sul punto merita percio’ conferma, sia pure con le correzioni di cui sopra.

6.- Con il settimo motivo del ricorso si denunzia “Violazione e falsa applicazione dell’articolo 112 cod. proc. civ. e articolo 2236 cod. civ. (articolo 360 c.p.c., n. 3)”.

Anche questo motivo e’ infondato.

L’istituto ricorrente deduce che ne’ il giudice di primo grado ne’ la corte di appello si sarebbero pronunziati sull’eccezione proposta per cui la prestazione richiesta agli ecografisti implicasse problemi di speciale difficolta’.

Ma deve rilevarsi che la corte di appello, all’esito di puntuale disamina delle consulenze mediche di ufficio e di parte, ha ritenuto sussistere negligenza, e quindi colpa dei sanitari che effettuarono l’esame ecografico del marzo 1992, sulla base della circostanza che essi attestarono positivamente il normale sviluppo del feto pur in mancanza del necessario studio morfologico e sulla base di immagini ecografiche del tutto inidonee ad escludere anomalie del sistema nervoso centrale.

E’ evidente che la natura stessa di siffatto inadempimento esclude implicitamente, ma chiaramente, la possibilita’ di ritenere sussistenti problemi di speciale difficolta’ nella prestazione rimasta ineseguita. Con riguardo agli esami ecografici della 30 e della 37 settimana, d’altronde, l’assoluta evidenza della rilevabilita’ delle malformazioni, in base alle immagini acquisite, attestata da tutti i consulenti tecnici, sia di parte che di ufficio, ha del pari impedito di ritenere sussistenti i presupposti per l’esonero dei sanitari che li effettuarono dalla responsabilita’ per colpa lieve.

7.- Il ricorso e’ rigettato.

Per le spese del giudizio di cassazione si provvede, sulla base del principio della soccombenza, come in dispositivo, nei rapporti tra l’istituto ricorrente e i controricorrenti (OMISSIS) e (OMISSIS).

In considerazione dei motivi della decisione e della circostanza che non risulta impugnata la pronunzia relativa ai rapporti tra l’istituto ricorrente, i sanitari operanti e le compagnie assicuratrici chiamate in causa, si ritengono sussistere ragioni sufficienti per la compensazione delle spese nei rapporti tra l’istituto ricorrente e gli altri controricorrenti.

Dal momento che il ricorso risulta notificato successivamente al termine previsto dalla L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 18, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1-quater, introdotto dall’articolo 1, comma 17, della citata L. n. 228 del 2012.

P.Q.M.

La Corte:

– rigetta il ricorso;

– condanna l’istituto ricorrente a pagare le spese del presente giudizio in favore dei controricorrenti (OMISSIS) e (OMISSIS), in solido, liquidandole in complessivi Euro 8.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge;

– dichiara integralmente compensate le spese del presente giudizio nei rapporti tra l’istituto ricorrente e gli altri controricorrenti.

Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1-quater, inserito dal L. n. 228 del 2012, articolo 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dell’istituto ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13

https://avvocato-penalista-bologna.it//news/consulenza-legale/avvocato-malasanita-bologna-avvocato-responsabilita-medica-bologna/

Suprema Corte di Cassazione

sezione IV

sentenza 26 maggio 2016, n. 22156

Ritenuto in fatto

1. Il Tribunale di Cosenza con sentenza emessa in data 3 luglio 2012 ha riconosciuto D.S.G. colpevole del reato di cui all’art. 590 c.p., perché, quale medico radiologo che refertò i radiogrammi dell’esame tac effettuato da C.P. in data 20 ottobre 2010 presso il P.O. di S.M., per colpa generica e specifica, cagionava lesioni personali gravi. In particolare, D.S. ometteva di refertare correttamente la presenza di una area osteolitica nel peduncolo destro, causando un aggravamento della stessa e, per la persona offesa, una malattia ed un’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un periodo superiore a 40 giorni. In punto di trattamento sanzionatorio, riconosciute le attenuanti generiche prevalenti sull’aggravante originariamente contestata, D.S.G. è stato condannato alla pena di mesi 2 di reclusione, al pagamento delle spese processuali ed al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile.
2. La Corte di appello di Catanzaro, con sentenza emessa in data 8 aprile 2015, in accoglimento dell’appello formulato nell’interesse dell’imputato, ha assolto quest’ultimo con la formula perché il fatto non sussiste.
3. Avverso la sentenza della Corte territoriale propongono ricorso per Cassazione le costituite parti civili C.P., Marchio Angela e C. Sandro, articolando due motivi di ricorso, dopo una breve esposizione degli eventi principali che avevano caratterizzato, ritenuta necessaria quale premessa conoscitiva ai motivi di ricorso.
3.1. Con il primo vengono denunciati vizio di motivazione e violazione degli artt. 40, 42, 113, 185 e 590 commi 1 e 2 c.p.
Al riguardo, i ricorrenti si lamentano del fatto che la Corte territoriale, trascurando gli esiti peritali (come emersi dall’elaborato peritale, dalla relativa integrazione, dai chiarimenti resi in sede di incidente probatorio e di istruzione dibattimentale), aveva sottovalutato il fatto che il D.S., pur disponendo di idonee attrezzature tecniche e di specializzazione in radiologia, aveva colpevolmente omesso di refertare la presenza di un’area osteolitica nel peduncolo destro di C6; aveva inoltre sottovalutato il fatto che la lettura corretta delle lastre avrebbe certamente permesso la tempestiva diagnosi dell’osteoblastoma, nonché evitato il procurarsi della malattia (che si era protratta sino al novembre 2015, e, dunque, per un periodo di gran lunga superiore a 40 giorni); ed aveva omesso infine di considerare quanto dichiarato dal Dott. C. in sede di incidente probatorio 10 marzo 2008 in punto di risultanze della Tac 20 ottobre 2004. D’altronde, l’aver concorso a provocare una malattia ed un’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un periodo superiore a 40 giorni, secondo l’assunto dei ricorrenti, sarebbe indubbiamente qualificabile come lesione personale. La Corte territoriale avrebbe utilizzato a favore del D.S. argomentazioni e conclusioni che i periti avevano formulato esclusivamente nei confronti degli altri due originari indagati (L.R. e C.). La imperizia dell’imputato avrebbe cagionato alla persona offesa, per effetto della omessa refertazione e della conseguente diagnosi errata, l’aggravamento della patologia per una durata di gran lunga superiore ai 40 giorni.
3.2. Con il secondo vengono denunciati vizio di motivazione (con travisamento della prova) e violazione degli artt. 187 e 192 c.p.p., nonché degli artt. 40, 42, 113, 185 e 590 commi 1 e 2 c.p.
Al riguardo, i ricorrenti – dopo aver richiamato l’elaborato peritale medico legale redatto dai Professori C. e F. (e in particolare le conclusioni del supplemento di perizia) e le dichiarazioni rese in sede di incidente probatorio dal Prof. C. – si lamentano del fatto che la Corte territoriale, nelle tre pagine di motivazione, era incorsa in un evidente travisamento proprio nel contenuto della deposizione resa dal Prof. Dott. C.. Invero, quest’ultimo ha dichiarato: a) in sede di incidente probatorio, che: “Nella Tac del 20 ottobre 2004 effettivamente vedendo le immagini si vede una lesione a livello del peduncolo di C6 che è ben visibile e che non è stato relazionato dal radiologo che ha letto la Tac per cui, secondo noi, questo costituisce un errore, una imperizia insomma che va addebitata al radiologo”; b) in sede di elaborato peritale (p. 19), ha riferito che: “il lamentato lungo intervallo tra l’inizio della sintomatologia (dolore cervicale) e la diagnosi ed il trattamento chirurgico dell’osteoblastema non può essere ricondotto a comportamenti imperiti o negligenti dei sanitari che si sono succeduti nelle cure del giovane C. ma è da ricondurre unicamente alle difficoltà diagnostiche insite nella patologia non ancora evidenziabili negli esami strumentali (TC e risonanza) effettuate nell’ottobre 2004 e resosi evidente solo quando dette indagini sono state poi ripetute presso l’Ospedale di Bologna”; in sede di supplemento di perizia (p. 2) ha precisato che: “dalla lettura personale di dette lastre ed, in particolare, della Tac del 20/10/2004, emerge nel contesto del peduncolo destro C6, un’area osteolitica, compatibile con una neoformazione i cui caratteri non sono sufficienti a porre una precisa diagnosi di osteoma osteoide né di osteoblastoma”.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è fondato e, pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata.
2. Fondati sono infatti entrambi i motivi di ricorso, che, in quanto strettamente connessi, vengono qui trattati unitariamente.
2.1. In punto di fatto, occorre premettere che, in data 15 maggio 2004, il giovane P.C., all’epoca di anni 16, a causa di una sintomatologia dolorosa alla spalla destra, si portava presso l’Ospedale di S.M., dove gli veniva diagnosticata una distorsione alla spalla destra, con conseguente prescrizione di una terapia con antiinfiammatori. Questi antiinfiammatori provocavano tuttavia un’emorragina duodenale, per cui si rendeva necessario un ricovero dal 2 al 12 giugno 2014. Persistendo il dolore alla spalla, nel successivo mese di ottobre 2004 il giovane C. si faceva visitare dall’ortopedico dr. L., che chiedeva delle indagini strumentali (dapprima, una risonanza magnetica del rachide cervicale e, poi, una TAC alla colonna vertebrale). Le due indagini strumentali venivano eseguite dal dr. D.S., che diagnosticava un emangioma. Persistendo il dolore, il giovane C. si recava, nel maggio del 2005, presso il centro di riabilitazione Mater Domini, dove veniva seguito dal fisiatra dr. C., e, nel novembre 2005, a Bologna, dove veniva eseguita una nuova TAC. Il referto relativo alla TAC eseguita nel novembre 2005, contrariamente al referto relativo alla TAC eseguita nell’ottobre 2004 dal dr. D.S., evidenziava una patologia che era differente da quella in precedenza diagnosticata e che richiedeva un intervento chirurgico, poi eseguito il 30 novembre del 2005.
2.2. In punto di diritto, occorre soffermarsi sulla nozione di malattia.
Come questa Sezione ha già avuto modo di osservare (sent. n. 17505 del 19/03/2008, Pagnani, Rv. 239541), il codice penale vigente ha distinto il delitto di lesioni da quello di percosse. Quest’ultimo delitto, infatti, non era previsto dal codice Zanardelli, che, all’art. 372, ricomprendeva infatti in un’unica fattispecie (denominata “lesione personale”) la condotta di “chiunque, senza il fine di uccidere, cagiona ad alcuno un danno nel corpo o nella salute o una perturbazione di mente”. L’indeterminatezza della nozione di danno ha indotto il legislatore del 1930 a distinguere i due reati e il criterio distintivo adottato è appunto quello di una distinzione tra il caso del mero esercizio della violenza fisica (nel quale l’evento è costituito esclusivamente dal pregiudizio all’incolumità personale) e quello in cui alla violenza fisica consegua una malattia, concetto più restrittivo di quello di danno (che può ricomprendere anche un mero dolore fisico).
Il concetto di malattia ha diviso per decenni dottrina e giurisprudenza perché, a fronte di una nozione incentrata esclusivamente sulla mera alterazione anatomica, si è prospettata, in particolare dalla dottrina, una concezione diversa che fa riferimento alla necessità che a questa alterazione (che peraltro può anche mancare) si accompagnino limitazioni funzionali.
La prima concezione, prevalente nella giurisprudenza di legittimità più risalente nel tempo, ha trovato conferma nella relazione ministeriale al codice penale nella quale si fa riferimento, per definire la malattia, a “qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorché localizzata e non impegnativa delle condizioni organiche generali” laddove l’uso della disgiuntiva fa intendere che sia sufficiente la mera alterazione anatomica perché possa ritenersi verificata la malattia. La definizione di malattia contenuta nella relazione ministeriale ha contribuito a convalidare l’opinione secondo cui anche minime alterazioni anatomiche provocate da una percossa (l’arrossamento della cute, il piccolo graffio, le ecchimosi, i piccoli ematomi, le escoriazioni ecc.) potessero integrare la malattia cui fa riferimento l’art. 582 c.p. restringendo quindi l’area del delitto di percosse ai soli casi in cui alcuna alterazione anatomica si sia verificata: in altri termini, ai soli casi nei quali la violenza sia stata minima e tale da non provocare neppure una delle modeste conseguenze in precedenza indicate.
A tale concezione si è da tempo obiettato che la nozione di malattia accolta nel campo medico scientifico è diversa e si riferisce alle alterazioni del corpo umano che inducano una limitazione funzionale dell’organismo anche di modesta entità. E la più recente giurisprudenza di legittimità, configurando la malattia in senso più aderente a quello della scienza medica, non ritiene sufficiente ad integrare la malattia la semplice alterazione anatomica priva di alcuna conseguenza e alla quale non consegua un processo patologico significativo. E’ stato infatti affermato che, il concetto clinico dì malattia richiede il concorso del requisito essenziale di una riduzione apprezzabile di funzionalità, a cui può anche non corrispondere una lesione anatomica, e di quello di un fatto morboso in evoluzione a breve o lunga scadenza, verso un esito che potrà essere la guarigione perfetta, l’adattamento a nuove condizioni di vita oppure la morte (Sez. 5, sent. n. 714 del 15/10/1998, dep. 1999, Rocca, Rv. 212156; Sez. IV, sent. n. 10643 del 9.12.1996, Viola, Rv. 207339).
In definitiva, può qui ribadirsi che la malattia giuridicamente rilevante cui fa riferimento l’art. 582 c.p. (e di riflesso l’art. 590 c.p. nella forma colposa) non comprende tutte le alterazioni di natura anatomica (che possono anche mancare) ma quelle alterazioni da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico o una compromissione, anche non definitiva ma significativa, di funzioni dell’organismo (diverso problema è quello dei postumi che, di per sè, non costituiscono malattia ma sono, nella normalità dei casi, conseguenza della malattia che va dunque autonomamente accertata e che dà luogo, in numerosi casi, ad aggravanti del delitto di lesione personale; problema, questo, al quale è sufficiente accennare, non riguardando il caso in esame).
Ed è stato altresì precisato che, ai fini della configurabilità del delitto di lesioni gravi, non ha rilievo che l’organo fosse già menomato, purché si verifichi un ulteriore aggravamento, che ne comprometta maggiormente la funzionalità (Sez. 5, sent. n. 2782 del 5/10/1989, dep. 1990, Cantagallo, Rv. 183522)
2.3. Tanto premesso, nel caso di specie, la Corte territoriale di Catanzaro non ha fatto corretta applicazione del concetto di malattia, come interpretato dalla più recente giurisprudenza di legittimità, e, nel contempo, ha travisato i risultati dall’acquisita prova scientifica.
Al riguardo – premesso che i periti in un primo momento avevano avuto a disposizione soltanto i referti dei primi accertamenti strumentali eseguiti a S.M. (ed in particolare della Tac 20 ottobre 2014), e che gli stessi, una volta ricevute in consegna anche le lastre, avevano depositato integrazione alla consulenza già redatta – occorre osservare che la Corte territoriale, nella sentenza di assoluzione per cui è ricorso, ha omesso di considerare (e ha comunque travisato) le dichiarazioni rese dai periti in sede di udienza di incidente probatorio 10 marzo 2008 (il cui verbale è stato ritualmente acquisito al fascicolo del dibattimento all’udienza del 13 gennaio 2010 ed è stato allegato al ricorso, ai fini dell’autosufficienza dello stesso) e successivamente sostanzialmente ribadite nel corso dell’istruzione dibattimentale: “Nella Tac del 20 ottobre 2004 effettivamente vedendo le immagini si vede una lesione a livello del peduncolo di C6 che è ben visibile e che non è stato relazionato dal radiologo che ha letto la Tac per cui, secondo noi, questo costituisce un errore, una imperizia insomma che va addebitata al radiologo”. Nella suddetta omissione (e comunque travisamento) non era invece incorso il Giudice di primo grado laddove aveva affermato (p. 11) che: “è certo, infatti, che la situazione clinica accertata a Bologna nel 2005 fosse pressoché identica a quella risultante dai radiogrammi dell’ottobre del 2004; con la conseguenza che solo ad una errata e superficiale lettura del radiologo può imputarsi la pregressa mancata diagnosi della specifica patologia da cui il C.P. era affetto, e, quindi, il persistere della connessa sintomatologia fino all’intervento chirurgico eseguito il 30 novembre del 2005”.
Sotto altro profilo, nella impugnata sentenza, viene erroneamente affermato che, non essendovi stato alcun aggravamento della malattia a causa dell’omessa diagnosi, doveva escludersi che vi fosse stata lesione (con conseguente proscioglimento del D.S. dall’imputazione allo stesso ascritta). Al contrario, da quanto accertato e riferito dai periti è risultato che il D.S., che, pur disponendo di idonee attrezzature e di specializzazione in radiologia, aveva omesso di refertare la presenza di una area osteolitica nel peduncolo destro di C6, e aveva omesso di predisporre necessari approfondimenti ed il conseguente intervento chirurgico di asportazione della patologia (poi identificata, all’esame istologico, in un osteobastoma), così causando un aggravamento della stessa e, per la persona offesa, l’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un periodo superiore ai 40 giorni. La tempestiva corretta lettura delle lastre, infatti, avrebbe permesso la tempestiva diagnosi della osteoblastoma e, quindi, evitato il protrarsi della malattia (id est, l’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni) fino al novembre 2005 (e, dunque, per un periodo di gran lunga superiore ai 40 giorni).
3. Per le ragioni che precedono, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio alla Corte di appello di Catanzaro in sede civile, dovrà procedere a nuovo esame della posizione dell’imputato alla luce dell’acquisita prova scientifica, provvedendo altresì alla regolamentazione delle spese di questo giudizio tra le parti.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello cui rimette anche la regolamentazione delle spese di questo giudizio tra le parti.

 

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE IV PENALE

SENTENZA 6 giugno 2016, n. 23283

RITENUTO IN FATTO

  1. Il Tribunale di Genova, con sentenza in data 4.05.2012 dichiarava D.A. responsabile del delitto di omicidio colposo ascrittogli, per avere cagionato la morte del paziente G.E.;

concesse le attenuanti generiche, l’imputato veniva condannato alla pena di mesi quattro di reclusione ed al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile ed al versamento di una provvisionale immediatamente esecutiva pari ad Euro 50.000,00. Al D. si contesta, quale medico chirurgo addetto al reparto di medicina generale dell’Ospedale (OMISSIS), di avere, per colpa, cagionato la morte di G. E., persona che presentava, già all’atto del ricovero in ospedale, sintomatologia riferibile alla fessurazione dell’aneurisma dell’aorta addominale. Segnatamente al D. si addebita di aver omesso, nella notte del (OMISSIS), nonostante l’aggravamento della sintomatologia addominale, di attuare tempestivamente ogni possibile e specifica attività diagnostica e terapeutica, atteso che la TAC venne eseguita solo alle ore 16.00 del (OMISSIS), quando il quadro di rottura dell’aneurisma dell’aorta addominale era ormai conclamato.

In tal moto, in assunto accusatorio, l’imputato comprometteva la possibilità di guarigione e cagionava la morte del paziente, nonostante l’effettuazione dell’intervento chirurgico di rimozione dell’aneurisma. L’originaria contestazione attingeva anche il medico in servizio presso il locale Pronto Soccorso, F.C. e l’altro chirurgo addetto al reparto, C.L., entrambi i quali sono stati mandati assolti dal primo giudice, per insussistenza del fatto.

  1. MALASANITA’ RISARCIMENTO RESPONSABILITA’ PENALE MEDICO-ART 589 CP-DANNO DA MALASANITA’- INTERVENTO CHIRURGICO SBAGLIATOLa Corte di Appello di Genova, con sentenza in data 18.05.2015, confermava integralmente la sentenza di primo grado, appellata dal Procuratore Generale, dalla parte civile e dall’imputato D..

Il Collegio rilevava che l’effettuazione di una indagine ecografica avrebbe consentito, come chiarito dai nominati periti, di visualizzare l’aneurisma; e che, nel caso di specie, le possibilità di rilevare la presenza dell’aneurisma erano particolarmente elevate, a causa delle cospicue dimensioni dello stesso. La Corte territoriale considerava che, su base statistica, la presentazione cosiddetta atipica dell’aneurisma addominale si riscontra in circa la metà dei casi e che la possibilità di pervenire ad una diagnosi adeguata è molto elevata. La Corte di Appello evidenziava, inoltre, che il paziente accusava forti e persistenti dolori addominali, che imponevano di giungere nel minor tempo possibile ad una diagnosi.

Sulla scorta di tali rilievi, la Corte di merito considerava che la mancata disposizione, da parte del D., dell’esecuzione, in via di urgenza, di una ecografia addominale e, in seguito, di una eventuale TAC, rappresentava una condotta omissiva caratterizzata da profili di colpa, per imperizia e per negligenza. In ordine alle possibilità salvifiche, rispetto alla verificazione dell’evento morte, derivanti dalla condotta attesa, il Collegio considerava che il rischio di esito infausto dell’intervento chirurgico dell’aneurisma dell’aorta, qualora non si versi in fase di rottura, è prossimo al 5%.

  1. Avverso la sentenza della Corte di Appello di Genova ha proposto ricorso per cassazione D.A., a mezzo del difensore. Il ricorso è affidato a quattro distinti motivi.

Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge e vizio di motivazione, laddove i giudici di merito hanno rilevato un profilo di colpa a carico del sanitario, per l’omessa effettuazione dell’accertamento ecografico. L’esponente considera che non è stata valutata la condotta del ricorrente, che aveva disposto che il paziente venisse sottoposto a TAC il giorno successivo.

L’esponente si sofferma analiticamente sul vissuto ospedaliero del paziente G., giunto al Pronto Soccorso dell’Ospedale (OMISSIS) alle ore 14.29 del (OMISSIS) e deceduto alle ore 00.15 del (OMISSIS), dopo l’effettuazione, alle ore 17.00 del (OMISSIS), di un intervento chirurgico in emergenza.

La parte sottolinea che il D. ebbe a visitare il malato alle ore 22.08 del (OMISSIS), disponendo che il paziente fosse idratato con infusione, che gli fosse applicata una sonda rettale e, per il mattino seguente, che venissero eseguiti gli esami ematochimici preliminari all’esecuzione di una TAC con mezzo di contrasto.

L’esponente evidenzia di avere prescritto una infusione di Toradol alle ore 23.30, poichè il paziente lamentava dolore; e che, in mancanza di ulteriori segnalazioni da parte degli infermieri, smontò dal turno al mattino del giorno (OMISSIS), lasciando le consegne ai colleghi della divisione chirurgica ed informandoli che in Medicina Generale era ricoverato un paziente del quale occorreva farsi carico.

Ciò posto, il ricorrente osserva che, secondo i termini dell’imputazione, al D. si addebita di aver preso atto degli esiti della radiografia eseguita alle ore 19.00 del (OMISSIS), omettendo di effettuare in urgenza una ecografia o una TAC. L’esponente rileva che i giudici di merito hanno erroneamente affermato che una ecografia avrebbe consentito di individuare l’aneurisma, contraddicendo le indicazioni rese dagli stessi periti, i quali hanno chiarito che per avere un esito diagnostico soddisfacente occorreva eseguire una TAC, unico accertamento in grado di verificare l’eventuale rottura dell’aneurisma.

Il deducente considera che non può ritenersi colposa la mancata effettuazione di una ecografia, una volta chiarito che tale accertamento non sarebbe stato sufficiente a fini diagnostici, nel caso concreto, in presenza di gonfiore dell’addome. E sottolinea che la TAC non avrebbe dovuto essere necessariamente preceduta da una ecografia.

L’esponente ritiene che i giudici di merito siano incorsi nel travisamento della prova, sul punto di interesse.

Con il secondo motivo il ricorrente contesta l’erronea applicazione della legge penale, nella parte in cui i giudicanti hanno ritenuto colposa la condotta del D., per l’omessa effettuazione di accertamenti diagnostici in regime di urgenza. L’esponente ritiene che i giudici di merito, nell’effettuare la predetta valutazione, abbiano omesso di considerare una serie di circostanze di fatto, accertate in giudizio, indicative della assenza di condizioni di urgenza. Al riguardo, il ricorrente rileva che il paziente venne ricoverato al Pronto Soccorso con codice verde; sottolinea che la dott.ssa F., che ebbe a visitare il paziente alle 18.30, aveva disposto radiografie dell’addome e del torace, senza richiedere ulteriori accertamenti; ed evidenzia che il quadro clinico, all’atto della visita effettuata dal D. alle successive ore 22.30, non era molto diverso, da quello constatato dalla collega F..

L’esponente sottolinea che l’imputato aveva disposto una TAC da eseguire il giorno seguente, cioè a dire il (OMISSIS). E rileva che l’esecuzione di una TAC in urgenza presentava controindicazioni, atteso che le analisi evidenziavano l’alterazione dei valori della creatina. La parte ritiene che i giudici abbiano errato nell’individuare un profilo di colpa per imperizia a carico del prevenuto; e che sia stata obliterata la valutazione che era stata espressa dal consulente tecnico di parte.

Con il terzo motivo il deducente osserva che quand’anche si ritenesse che la condotta del D. sia da ricondurre a colpa per imperizia, andava comunque valutato il grado della colpa, alla luce della norma di cui all’art. 3, legge n. 189 del 2012. Al riguardo, considera che occorreva valutare se il medico si fosse attenuto, o meno, alle linee guida e se in tale ambito emergessero profili di colpa grave. Sul punto, l’esponente sottolinea che la valutazione giudiziale deve tenere conto delle condizioni del soggetto agente e del contesto in cui il sanitario si è trovato ad operare.

Con il quarto motivo viene denunciato il vizio motivazionale con riguardo alla riferibilità causale dell’evento alla condotta dell’imputato. Dopo aver richiamato arresti giurisprudenziali di legittimità sul tema della causalità omissiva, la parte osserva che, nel caso di specie, i giudici si sono limitati a riportare le percentuali di sopravvivenza nei casi di interventi di eleziotie, senza spiegare come possa affermarsi che la diversa condotta attesa avrebbe evitato l’evento concretamente verificatosi.

Il ricorrente ha depositato memoria, osservando che la parte civile costituita ha accettato, in via transattiva, a definizione del danno, la somma offerta da Carige Assicurazioni.

E’ stata versata in atti dichiarazione di revoca della costituzione di parte civile, ad opera del difensore e procuratore di Ch.

B..

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il ricorso in esame muove alle considerazioni che seguono.

Giova soffermarsi sulle questioni affidate al secondo ed al terzo motivo di ricorso, evidenziando che il percorso motivazionale sviluppato dalla Corte territoriale appare effettivamente carente, in riferimento al tema della ascrivibilità colposa della condotta omissiva, che si assume sia stata posta in essere dal sanitario. E, in previsione della indagine rimessa al giudice di merito, che dovrà valutare se le linee guida che orientano il professionista, rispetto al caso di giudizio, siano attinenti a profili di diligenza, oltre che di perizia, si verranno pure a svolgere considerazioni di ordine generale, sulla natura e sul contenuto delle linee guida.

Nelle more del presente giudizio, è stata inserita nell’ordinamento l’inedita fattispecie, in tema di responsabilità sanitaria, dettata dalla L. 8 novembre 2012, n. 189, art. 3, ove è stabilito:

“L’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve”.

Richiamando, in via di estrema sintesi, l’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità nel procedere alla ermeneusi della norma ora citata, si osserva che la Corte regolatrice ha chiarito che la novella esclude la rilevanza penale della colpa lieve, rispetto a quelle condotte lesive che abbiano osservato linee guida o pratiche terapeutiche mediche virtuose, purchè esse siano accreditate dalla comunità scientifica. In particolare, si è evidenziato che la norma ha dato luogo ad una abolitio criminis parziale degli artt. 589 e 590 c.p., avendo ristretto l’area penalmente rilevante individuata dalle predette norme incriminatrici, giacchè oggi vengono in rilievo unicamente le condotte qualificate da colpa grave (Sez. 4, Sentenza n. 11493 del 24/01/2013, dep. 11/03/2013, Rv. 254756; Sez. 4, Sentenza n. 16237 del 29/01/2013, dep. 09/04/2013, Rv. 255105).

Le considerazioni sin qui svolte consentono, allora, di chiarire quale incidenza debba assegnarsi alla nuova normativa, rispetto al presente procedimento. Occorre in questa sede ribadire che la parziale abrogazione, determinata dalla L. 8 novembre 2012, n. 189, art. 3, delle fattispecie di cui agli artt. 589 e 590 c.p., qualora il soggetto agente sia un esercente la professione sanitaria, determina un problema di diritto intertemporale, che trova regolamentazione alla luce della disciplina legale. Come meglio si vedrà nel prosieguo, la restrizione della portata dell’incriminazione ha avuto luogo attraverso due passaggi:

l’individuazione di un’area fattuale costituita da condotte aderenti ad accreditate linee guida; e l’attribuzione di rilevanza penale, in tale ambito, alle sole condotte connotate da colpa grave, poste in essere nell’attuazione in concreto delle direttive scientifiche.

Pertanto, nell’ambito delle richiamate fattispecie incriminatrici, la rilevanza penale è da ritenersi circoscritta alla sola colpa grave (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 16237 del 29/01/2013, dep. 09/04/2013, cit.). E deve pure richiamarsi l’insegnamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità con la sentenza da ultimo citata, ove si è evidenziato che tale struttura della riforma in tema di responsabilità sanitaria ha realizzato un caso di abolitio criminis parziale; che si è in presenza di norma incriminatrice speciale, che sopravviene e che restringe l’area applicativa della norma anteriormente vigente; che si sono succedute nel tempo norme in rapporto di genere a specie: due incriminazioni di cui quella successiva restringe l’area del penalmente rilevante individuata da quella anteriore, ritagliando implicitamente due sottofattispecie, quella che conserva rilievo penale (in caso di colpa grave) e quella che, invece, diviene penalmente irrilevante (qualora sia accertata la colpa lieve), oggetto di abrogazione.

L’evidenziato parziale effetto abrogativo comporta, conseguentemente, l’applicazione della disciplina dettata dall’art. 2 c.p., comma 2, e quindi l’efficacia retroattiva del combinato disposto di cui alla L. n. 189 del 2012, art. 3, e artt. 589 e 590 c.p.. Del resto, la giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Suprema Corte hanno chiarito che il fenomeno dell’abrogazione parziale ricorre allorchè tra due norme incriminatrici che si avvicendano nel tempo esiste una relazione di genere a specie (Sez. Un., 27 settembre 2007, Magera, Rv. 238197; Sez. Un. 26 marzo 2003, Giordano, Rv. 224607).

  1. Ciò premesso, è dato cogliere la portata delle ricadute, nel presente procedimento, pendente in sede di merito alla data di entrata in vigore della novella del 2012, derivanti dall’operatività del disposto di cui all’art. 2 c.p., comma 2. Nel caso che occupa, ovviamente, l’originario capo di imputazione non è stato calibrato, rispetto alla morfologia della sopravvenuta sottofattispecie di omicidio colposo dell’esercente la professione sanitaria: non di meno, stante la natura della contestazione elevata all’odierno imputato – chiamato a rispondere del delitto di omicidio ex art. 589 c.p., colposamente perpetrato dall’agente, in assunto, proprio nella sua qualità di medico chirurgo ospedaliero – la Corte di Appello, avanti alla quale si è celebrato il relativo giudizio, nell’anno 2015, aveva il dovere di esaminare d’ufficio la regiudicanda, per effetto dell’art. 2 c.p., comma 2, tenendo conto della intervenuta parziale abrogazione della norma incriminatrice, ad opera della richiamata L. n. 189 del 2012. La Corte distrettuale avrebbe, cioè, dovuto verificare, in punto di fatto, se la condotta poteva dirsi aderente ad accreditate linee guida; e se la stessa fosse connotata da colpa grave, nell’attuazione in concreto delle direttive scientifiche.

Di converso, come emerge dalla sentenza impugnata, le valutazioni effettuate in ordine alla colpa prescindono da ogni considerazione rispetto al tema delle linee guida e delle prassi terapeutiche, come sopra delineato; e neppure alcuna verifica è stata operata in riferimento al grado della colpa, ascrivibile al prevenuto. Non sfugge che, nella giurisprudenza di legittimità, si registrano decisioni ove si è osservato che è privo di adeguata specificità il motivo di ricorso che difetti della necessaria indicazione in termini puntuali delle linee guida alle quali la condotta dei medici si sarebbe conformata (Sez. 4, Sentenza n. 7951, in data 08/10/2013 Rv. 259333; Sez. 4, Sentenza n. 21243 del 18.12.2014, Rv. 263493).

Occorre, al riguardo, considerare, che la ratio decidendi delle richiamate sentenze si incentra sull’analisi dei criteri formali di redazione del ricorso per cassazione per vizio motivazionale e sui relativi oneri di allegazione, che gravano sulla parte deducente.

Ciò posto, deve ritenersi che le valutazioni che si sono sopra espresse, in ordine alla doverosa applicazione, da parte del giudice della cognizione, delle regole dettate nella parte generale del codice penale, sul tema del diritto intertemporale, a fronte di abrogatio criminis che riguardi la fattispecie di reato oggetto dell’addebito sottoposto al suo esame, dischiudono uno scenario interpretativo che impinge la declinazione pratica dei principi fondanti il giure penale, dettati dall’art. 2 c.p., comma 2, in ordine alla retroattività degli effetti della norma abrogatrice.

Deve dunque affermarsi il seguente principio di diritto, in base al quale, nei procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore della L. n. 189 del 2012, art. 3, relativi ad ipotesi di omicidio o lesioni colpose ascritte all’esercente la professione sanitaria, in un ambito regolato da linee guida, di talchè il processo verta sulla loro applicazione, stante l’intervenuta parziale abrogatio criminis delle richiamate fattispecie, in osservanza dell’art. 2 c.p., comma 2, occorre procedere d’ufficio all’accertamento del grado della colpa, giacchè le condotte qualificate da colpa lieve sono divenute penalmente irrilevanti.

Osserva, pertanto, il Collegio che, nel caso che occupa, l’omessa verifica dei margini di operatività della parziale decriminalizzazione, operata dalla L. n. 189 del 2012, rispetto alla fattispecie di omicidio colposo, contestata anteriormente alle modifiche del 2012 ed oggetto di procedimento pendente alla data di entrata in vigore della novella, sia questione che involge la doverosa osservanza, da parte del giudice del merito, delle disposizioni che regolano la successione nel tempo di norme incriminatrici, ai sensi dell’art. 2 c.p., comma 2; e che la doglianza, articolata in sede di ricorso per cassazione, circa la carenza motivazionale derivante dall’omessa applicazione della sopravvenuta disposizione abrogratrice, nella valutazione del grado della colpa del sanitario, secondo il canone della retroattività della norma più favorevole, refluisce quale denuncia di violazione della legge penale, con riferimento al mancato accertamento dell’elemento soggettivo della fattispecie, come delineato dalla più favorevole normativa sostanziale sopravvenuta, di talchè il motivo di ricorso non può qualificarsi come inammissibile per carenza di allegazioni (cfr. Sez. 4, Sentenza n. 46979 del 10/11/2015, dep. 26/11/2015, Rv. 265053).

  1. L’ordine di considerazioni che precede impone pertanto di annullare la sentenza impugnata, vulnerata dall’omessa doverosa applicazione della sopravvenuta disciplina più favorevole, in tema di responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, con rinvio al giudice di merito, per nuovo esame relativo alla sussistenza ed al grado degli eventuali profili di ascrivibilità colposa della condotta. Come sopra evidenziato, si tratta di un tema che ha acquisito autonoma rilevanza, proprio per effetto della disposizione di cui alla L. 8 novembre 2012, n. 189, art. 3, entrata in vigore successivamente rispetto alla sentenza di primo grado, resa il 5.10.2012, di talchè la Corte territoriale, al fine di verificare l’applicabilità o meno della intervenuta parziale abrogazione del reato in addebito, avrebbe dovuto soffermarsi sul tema relativo al grado della colpa, nel dare corso alla valutazione della condotta posta in essere del sanitario, parametrata rispetto alle linee guida ed alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica di riferimento.

3.1 A questo punto della trattazione, si richiamano, con le precisazioni che seguono, le indicazioni di ordine metodologico offerte da questa Corte regolatrice, volte ad orientare la complessa – e, per certi effetti, inedita – valutazione che è rimessa ai giudice di merito, in riferimento al tema della graduazione della colpa, posto che il legislatore ha attribuito rilievo penale alle sole condotte lesive connotate da colpa non lieve.

avvocato penalista Bologna, ricorsi cassazione penale, cortesia e preparazione

Al riguardo si è precisato, muovendo dalla generale considerazione che la colpa costituisce la violazione di regole di comportamenti aventi funzione cautelare, che un primo parametro, nella graduazione della colpa, attiene al profilo riguardante la misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi, sulla base della norma cautelare che si doveva osservare.

Sul punto, si è sottolineato che possono venire in rilievo, nel determinare la misura del rimprovero, sia le specifiche condizioni del soggetto agente ed il suo grado di specializzazione, sia la situazione ambientale, di particolare difficoltà, in cui il professionista si è trovato ad operare. E preme sottolineare che la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il giudice di merito deve procedere ad una valutazione complessiva di tali indicatori –

come pure di altri, quali l’accuratezza nell’effettuazione del gesto clinico, le eventuali ragioni di urgenza, l’oscurità del quadro patologico, la difficoltà di cogliere e legare le informazioni cliniche, il grado di atipicità o novità della situazione data e così di seguito – al fine di esprimere la conclusiva valutazione sul grado della colpa, ponendo in bilanciamento fattori anche di segno contrario, che ben possono coesistere nell’ambito della fattispecie esaminata, non dissimilmente da quanto avviene in tema di concorso di circostanze.

Pur nella consapevolezza della natura discrezionale della valutazione di cui si tratta, la Corte regolatrice ha precisato che si può ragionevolmente parlare di colpa grave solo quando si sia in presenza di una deviazione ragguardevole rispetto all’agire appropriato, rispetto al parametro dato dal complesso delle raccomandazioni contenute nelle linee guida di riferimento, quando cioè il gesto tecnico risulti marcatamente distante dalle necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia ed alle condizioni del paziente; e che, all’opposto, quanto più la vicenda risulti problematica, oscura, equivoca o segnata dall’impellenza, tanto maggiore dovrà essere la propensione a considerare lieve l’addebito nei confronti del professionista che, pur essendosi uniformato ad una accreditata direttiva, non sia stato in grado di produrre un trattamento adeguato e abbia determinato, anzi, la negativa evoluzione della patologia (cfr. Cass. Sez. 4, Sentenza n. 16237 del 29/01/2013, dep. 09/04/2013, cit.).

3.2 Ci si sofferma ora sulla ulteriore questione relativa alla natura ed al contenuto delle linee guida, richiamate dalla novella del 2012.

I tratti qualificanti la riforma sono stati individuati da un lato nella distinzione tra colpa lieve e colpa grave, per la prima volta normativamente introdotta nell’ambito della disciplina penale dell’imputazione soggettiva; dall’altro, nella valorizzazione delle linee guida e delle virtuose pratiche terapeutiche, purchè corroborate dal sapere scientifico.

Il tema relativo ai criteri con in quali, in sede giudiziaria, si debba procedere alla verifica di conformità alla linee guida della condotta dell’esercente la professione sanitaria, ai fini dello scrutinio della responsabilità penale, introdotto dalla novella del 2012, impone di richiamare, in via di estrema sintesi, i pregressi orientamenti giurisprudenziali, sviluppatisi sulla materia di interesse, al fine di cogliere i tratti distintivi, e qualificanti, della recente riforma.

Come noto, la giurisprudenza risalente affermava che in tema di colpa professionale – e medica, in specie – almeno quando la prestazione professionale comportasse la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, era rilevante ai fini della responsabilità penale la sola colpa grave, in conformità a quanto previsto, in tema di responsabilità civile, dall’art. 2236 c.c..

A tale conclusione quella giurisprudenza perveniva anche in omaggio al principio dell’unitarietà dell’ordinamento giuridico, ritenendosi arduo ipotizzare che uno stesso comportamento potesse essere civilmente lecito e penalmente illecito; e, per quelle sentenze, costituiva colpa grave “quella derivante da inescusabilità dell’errore o da ignoranza di principi elementari attinenti all’esercizio dell’attività sanitaria” (Cass. 23 agosto 1994, Leone, Rv 199757; Cass. 25 maggio 1987, Tornei, Rv 176606). Il limite della colpa grave veniva solitamente riferito alla sola colpa per imperizia (quella cioè derivante dalla violazione delle leges artis), mentre rispetto alla negligenza e all’imprudenza si riteneva che la valutazione dell’attività del medico dovesse essere improntata a criteri di normale severità. La giurisprudenza, cioè, affermava che solo quando il medico deve risolvere problemi diagnostici e terapeutici in presenza di un quadro patologico complesso e passibile di diversificati esiti, nonchè della necessità di agire con urgenza, l’eventuale errore nel quale il sanitario sia incorso, e che abbia condotto a morte o lesione personale del paziente, può essere valutato sulla base del parametro individuato dall’art. 2236 c.c.; e che, viceversa, quando non si presenti una situazione emergenziale, ovvero quando il caso non implichi problemi di particolare difficoltà, così come quando venga in rilievo la negligenza o l’imprudenza, i canoni valutativi della condotta colposa devono essere quelli ordinariamente adottati nel campo della responsabilità penale per la causazione di danni alla vita o all’integrità fisica delle persone, con la particolarità che il medico deve sempre attenersi alla regola della massima diligenza e prudenza (Sez. 4^, sentenza n. 6650 del 27 gennaio 1984, Rv 165329; Sez. II, sentenza n. 11695, 23 agosto 1994, Rv 199757).

Sul punto, occorre rilevare che la Corte Costituzionale, chiamata a stabilire se la più antica e benevola giurisprudenza di legittimità in tema di colpa penale nell’esercizio della professione medica (ma anche di altre professioni) basata sul già citato art. 2236 c.c., fosse compatibile con il principio di uguaglianza, ha affermato in una risalente pronuncia che la richiamata deroga alla disciplina generale della responsabilità per colpa, nei casi previsti da quella disposizione di legge, aveva una adeguata ragione d’essere, dovendo essere applicata solo ai casi in cui la prestazione professionale comportava la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà ed essendo contenuta entro il circoscritto tema della perizia (Corte Costituzionale, sentenza n. 166 del 1973).

3.3 Il suddetto orientamento è stato però messo in discussione dalla stessa giurisprudenza di legittimità, la quale ha negato l’applicabilità del principio di cui all’articolo 2236 cod. civ. al diritto penale, affermando che in questa materia avrebbero dovuto trovare esclusivo accoglimento gli ordinari criteri di valutazione della colpa di cui all’art. 43 c.p., secondo il parametro consueto dell’homo eiusdem professionis et condicionis, arricchito delle eventuali maggiori conoscenze dell’agente concreto. (Sez. 4, sentenza n. 11733, del 2 giugno 1987, Rv. 177085; Sez. 4, sentenza n. 11007, del 28 aprile 1994, Rv. 200387). La giurisprudenza negli ultimi lustri ha quindi costantemente rilevato che nella valutazione in ambito penale della cosiddetta colpa medica non trova applicazione il principio civilistico della rilevanza soltanto della colpa grave, la quale assume eventuale rilievo solo ai fini della graduazione della pena (Sez. 4, sentenza n. 46412, 28 ottobre 2008, Rv. 242251).

3.4 Orbene, il richiamato orientamento interpretativo basato sulla nozione di culpa levis, contrapposta a quello di culpa lata, è oggi destinato ad una nuova considerazione, alla luce della disposizione contenuta nel già citata L. 8 novembre 2012, n. 189, art. 3, comma 1. Come detto, la norma esclude la rilevanza penale delle condotte connotate da colpa lieve, che si collochino all’interno dell’area segnata da linee guida o da virtuose pratiche mediche, purchè esse siano accreditate dalla comunità scientifica. Il legislatore ha reintrodotto nel diritto penale – con esclusivo riferimento agli esercenti la professione sanitaria – il concetto di colpa lieve che, secondo la ormai consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione, non avrebbe potuto trovare applicazione nelle ipotesi di colpa professionale, neppure limitatamente ai casi in cui “la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”, previsti dall’art. 2236 c.c.. La modifica normativa riporta, quindi, all’attualità i concetti di colpa lieve e di colpa grave, che vengono ad intrecciarsi con l’ulteriore questione posta dalla novella del 2012, concernente l’impiego, in sede giudiziaria, delle “linee guida” e delle “buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica”.

Analizzando il tema relativo alla natura ed al contenuto delle linee guida, occorre considerare che, secondo gli approdi della comunità scientifica internazionale, esse costituiscono “raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate mediante un processo di revisione sistematica della letteratura e delle opinioni scientifiche, al fine di aiutare medici e pazienti a decidere le modalità assistenziali più appropriate in specifiche situazioni cliniche”. La dottrina epistemologica italiana ha poi osservato che le linee guida si sostanziano in raccomandazioni di comportamento clinico, con diverso grado di cogenza, presuppongono l’esistenza e la plausibilità di molteplici comportamenti degli esercenti le professioni sanitarie, a fronte della medesima situazione data e sono volte a ridurre la variabilità e la soggettivizzazione dei comportamenti clinici.

Questa Suprema Corte ha evidenziato che il legislatore ha colto l’importanza del sapere scientifico e tecnologico consolidatosi in forma agevolmente disponibile in ambito applicativo ed ha, al contempo, richiesto il sicuro, condiviso accreditamento delle direttive codificate; con la precisazione che le direttive di cui si discute non sono in grado di offrire standard legali precostituiti; e che esse non divengono, cioè, regole cautelari, secondo il classico modello della colpa specifica (Sez. 4, Sentenza n. 16237 del 29/01/2013, cit.). Sul punto, si è evidenziato che si tratta di un prodotto multiforme, originato da una pluralità di fonti, con diverso grado di affidabilità; e che tali direttive vengono in rilievo, nel momento in cui si procede alla valutazione ex ante della condotta dell’esercente la professione sanitaria, tipica del giudizio sulla colpa, valutazione che deve essere rapportata alla difficoltà delle valutazioni richieste al professionista. La giurisprudenza di legittimità ha anche precisato che il terapeuta complessivamente avveduto ed informato, attento alle linee guida, non sarà rimproverabile quando l’errore sia lieve, ma solo quando esso si appalesi rimarchevole; che, alla stregua della nuova legge, le linee guida accreditate operano come direttiva scientifica per l’esercente le professioni sanitarie; e che la loro osservanza costituisce uno scudo protettivo contro istanze punitive che non trovino la loro giustificazione nella necessità di sanzionare penalmente (Sez. 4, Sentenza n. 47289 del 09/10/2014, dep. 17/11/2014, Rv. 260739).

3.5 A questo punto della trattazione, procedendo nell’analisi volta all’esatta individuazione degli effetti parzialmente abrogativi delle fattispecie di omicidio e lesioni colpose, resta da verificare se l’esonero di responsabilità, per colpa lieve ex lege n. 189/2012, possa essere limitato alla sola colpa per imperizia.

Giova sgombrare il campo da un possibile fattore di mera suggestione:

nessuna conducenza, ai fini di interesse, può oggi essere riconosciuta alle indicazioni interpretative espresse dalla Corte Costituzionale, con la richiamata sentenza n. 166 del 1973. Al riguardo, basta rilevare che la Corte costituzionale fu chiamata a verificare se fosse compatibile con il principio di uguaglianza l’operatività, per i soli professionisti con titolo accademico, dei principi dettati dall’art. 2236 c.c., per il caso di prestazione professionale comportante la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà e riguardanti, pacificamente, l’esclusivo ambito della perizia; e la Corte Costituzionale ebbe a considerare che l’applicazione, in sede penale, della richiamata disposizione civilistica, comportava una deroga alla disciplina generale della responsabilità per colpa che trovava un’adeguata ragion d’essere e che comunque era contenuta entro il circoscritto tema della perizia;

di talchè ritenne che non vi fosse alcuna lesione del principio d’eguaglianza.

3.6 Tanto chiarito, osserva il Collegio che la soluzione del quesito che occupa non può che discendere dall’analisi dell’inedito dato normativo, di cui alla L. 8 novembre 2012, n. 189, art. 3, comma 1; e dalle sue interazioni con le regole generali in tema di colpa, contenute nell’art. 43 c.p..

Sul punto, deve registrarsi che diverse decisioni della Corte regolatrice hanno affermato che la nuova disciplina trova il suo terreno di elezione nell’ambito dell’imperizia; e che la limitazione di responsabilità in caso di colpa lieve opera soltanto per le condotte professionali conformi alle linee guida contenenti regole di perizia e non si estende agli errori connotati da negligenza o imprudenza (Sez. 4, Sentenza n. 11493 del 24/01/2013, Rv. 254756;

Sez. 4, Sentenza n. 16944 del 20/03/2015, Rv. 263389; Sez. 4, Sentenza n. 26996 del 27/04/2015, Rv. 263826;). Si tratta di arresti che muovono dal rilievo che le linee guida contengono solo regole di perizia. In altre sentenze, si è peraltro rilevato che la limitazione della responsabilità in caso di colpa lieve prevista dal D.L. 13 settembre 2012, n. 158, art. 3, convertito in L. 8 novembre 2012, n. 189, pur trovando terreno d’elezione nell’ambito dell’imperizia, può tuttavia venire in rilievo anche quando il parametro valutativo della condotta dell’agente sia quello della diligenza (Sez. 4, Sentenza n. 45527 in data 01/07/2015, dep. 16/11/2015, Rv. 264897; Sez. 4, Sentenza n. 47289 del 9.10.2014, dep. il 17.11.2014, Rv. 260739). In tali decisioni, viene evidenziata la possibile rilevanza esimente della colpa lieve, per l’esercente la professione sanitaria, anche rispetto ad addebiti diversi dall’imperizia; ciò in quanto non può escludersi che le linee guida pongano raccomandazioni rispetto alle quali il parametro valutativo della condotta del soggetto agente sia quello della diligenza, come nel caso in cui siano richieste prestazioni che riguardino più la sfera della accuratezza, che quella della adeguatezza professionale.

Per la soluzione dell’apparente contrasto – posto che le diverse decisioni riportano la comune opinione, in base alla quale la colpa per imperizia costituisce il terreno di elezione per l’operatività della novella in tema di responsabilità sanitaria – appare utile richiamare le considerazioni, sopra svolte, circa il reale contenuto delle raccomandazioni raccolte nelle linee guida, non prima di essersi soffermati su specifici dati testuali della novella. Giova, infatti, ricordare che la L. 8 novembre 2012, n. 189, art. 3, comma 1, è rubricato “Responsabilità professionale dell’esercente le professioni sanitarie”; che il citato art. 3, comma 1, ha ad oggetto l’attività dell’Esercente la professione sanitaria”; che, nel commentare la disposizione in esame, la dottrina non ha mancato di sottolineare che l’intervento legislativo riguarda i “professionisti” del settore sanitario; e che le linee guida non contengono raccomandazioni solo in riferimento all’attività del personale medico, ma anche rispetto all’ambito di intervento dei diversi professionisti che, con specifiche e diversificate competenze, operano nel settore della sanità. Si tratta di un assunto che trova pratico conforto proprio nelle numerose linee guida ad oggi disponibili, distinte secondo la tipologia dei diversi operatori sanitari – personale medico o infermieristico – chiamati ad interagire, nella prestazione delle cure: si pensi, a tiolo di esempio, alle Linee guida sulla Gravidanza fisiologica che, nel delineare il relativo modello assistenziale, affidano la presa in carico della partoriente alla ostetrica e prevedono, solo per il caso di complicazioni, il coinvolgimento di medici specializzati. E bene, nei casi ora richiamati, nei quali l’ambito di intervento comporta l’interazione con professioni sanitarie non mediche, alle regole di perizia, contenute nelle linee guida, si affiancano raccomandazioni che attengono ai parametri della diligenza, ovvero all’accuratezza operativa, nella prestazione delle cure.

3.6.1 A questo punto della disamina, deve considerarsi che la scienza penalistica non offre indicazioni di ordine tassativo, nel distinguere le diverse ipotesi di colpa generica, contenute nell’art. 43 c.p., comma 3. Al riguardo, voci di dottrina hanno osservato che gli obblighi di diligenza, prudenza e perizia richiamano indefinite regole di comune esperienza; e che neppure il tentativo di ancorare i giudizi di negligenza, imprudenza e imperizia alla astratta figura di un agente modello soddisfa la sottesa esigenza di tassatività. Tanto che, nella distinzione delle qualifiche di negligenza, imprudenza e imperizia, è stato pure osservato che la distinzione interna, tra negligenza e imprudenza, deve ritenersi di secondaria importanza. Con specifico riguardo alla qualificazione della perizia, si richiama poi l’insegnamento di accreditata dottrina, se pure risalente, ove, si considera che le condotte omissive possono integrare sia negligenza che imperizia.

L’indefinitezza delle regole di diligenza è poi comprovata dalla variegata tipologia di obblighi, nel solo settore della responsabilità sanitaria, che alle stesse sono stati ritenuti riconducibili, nell’esperienza giudiziaria. Si pensi agli obblighi informativi posti a carico del capo dell’equipe chirurgica (Sez. 4, Sentenza n. 3456 del 24/11/1992, Rv. 198445) ed a quelli relativi alla omessa richiesta di intervento di specialisti, in ausilio, da parte del terapeuta (Sez. 4, Sentenza n. 11086 del 15/06/1984, Rv.

167080), tutti riferibili a regole di diligenza. Si ritiene, pertanto, che allo stato della elaborazione scientifica e giurisprudenziale, neppure la distinzione tra colpa per imprudenza (tradizionalmente qualificata da una condotta attiva, inosservante di cautele ritenute doverose) e colpa per imperizia (riguardante il comportamento, attivo od omissivo, che si ponga in contrasto con le leges artis) offra uno strumento euristico conferente, al fine di delimitare l’ambito di operatività della novella sulla responsabilità sanitaria; ciò in quanto si registra una intrinseca opinabilità, nella distinzione tra i diversi profili della colpa generica, in difetto di condivisi parametri che consentano di delineare, in termini tassativi, ontologiche diversità, nelle regole di cautela.

  1. Le considerazioni sin qui svolte conducono al seguente approdo: la valutazione che il giudice di merito deve effettuare, rispetto all’ambito di operatività della scriminante introdotta nell’ordinamento dalla novella del 2012, in base alla quale è esclusa la rilevanza penale delle condotte connotate da colpa lieve che si collochino all’interno dell’area segnata da linee guida o da virtuose pratiche mediche accreditate dalla comunità scientifica, non può che poggiare sul canone del grado della colpa, costituente la chiave di volta dell’impianto normativo delineato dalla L. n. 189 del 2012, art. 3. Altrimenti detto, il giudice di merito, a fronte di linee guida che comunque operino come direttiva scientifica per gli esercenti le professioni sanitarie, in riferimento al caso concreto, e ciò sia rispetto a profili di perizia che, più in generale, di diligenza professionale, deve procedere alla valutazione della graduazione della colpa, secondo il parametro della misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi, sulla base della norma cautelare che si doveva osservare. E, nel determinare la misura del rimprovero, oltre a tutte le evenienze già sopra ricordate, deve considerare il contenuto della specifica raccomandazione clinica che viene in rilievo, di talchè il grado della colpa sarà verosimilmente elevato, nel caso di inosservanza di elementari doveri di accuratezza. Il delineato paradigma valutativo della responsabilità sanitaria appare coerente rispetto alla cornice legale di riferimento, posto che la L. n. 189 del 2012, art. 3, non contiene alcun richiamo al canone della perizia, nè alla particolare difficoltà del caso clinico; e rispondente alle istanze di tassatività, che permeano lo statuto della colpa generica, posto che il giudice, nella graduazione della colpa, deve tenere conto del reale contenuto tecnico della condotta attesa, come delineato dalla raccomandazione professionale di riferimento. In conclusione, sulla base della norma contenuta nella L. 8 novembre 2012, n. 189, art. 3, comma 1, in combinato disposto con l’art. 43 c.p., comma 3, deve affermarsi il seguente principio di diritto: la limitazione di responsabilità, in caso di colpa lieve, può operare, per le condotte professionali conformi alle linee guida ed alle buone pratiche, anche in caso di errori che siano connotati da profili di colpa generica diversi dalla imperizia. 5. Per quanto detto, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio alla Corte di Appello di Genova per nuovo esame. Il giudice del rinvio dovrà stabilire se il fatto si collochi nella sottofattispecie abrogata o in quella ancora vigente. L’indagine si muoverà con le cadenze imposte dalla riforma. Posto che l’innovazione esclude la rilevanza penale delle condotte connotate da colpa lieve, che si collochino all’interno dell’area segnata da linee guida o da pratiche mediche scientificamente accreditate, si dovrà valutare se, nelle ore in cui l’imputato ebbe a gestire il paziente, successivamente al ricovero, siano state omesse le possibili, e dovute, attività diagnostiche, secondo le raccomandazioni contenute nelle Linee guida di riferimento; e, in tale eventualità, dovrà essere chiarito se, nella omissione, vi sia stata colpa lieve o grave. Resta assorbito ogni ulteriore motivo di censura.

COLPA PENALE MEDICA AVVOCATO PROCESSO PENALE MEDICI QUANDO IL MEDICO E’ PENALMENTE RESPONSABILE? colpa medica in ambito penale decreto balduzzi colpa medica penale colpa medica penale balduzzi colpa medica civile e penale colpa medica giurisprudenza penale colpa medica reato penale colpa medica codice penale parere diritto penale colpa medica colpa medica prescrizione penale colpa medica penale contemporaneo parere penale colpa medica colpa medica cassazione penale colpa medica diritto penale colpa penale medica tesi colpa penale medica

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Genova per nuovo esame.

Così deciso in Roma, il 11 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 6 giugno 2016

L’attenzione dei ricorrenti si e’ appuntata sulla esigibilita’ della condotta pretesa dalla Corte territoriale; tuttavia incentrando la censura sulla sola affermazione della facile visibilita’ delle garze assicurata dalla presenza in esse di filo radiopaco; affermazione che si reputa errata e figlia di un travisamento della prova. Orbene, va subito osservato che in realta’ dalla esposizione medesima dei ricorrenti non emerge alcun travisamento della prova. Tal’e’ l’errore sul significante e non gia’ quello sul significato: anche i ricorsi riportano il brano della deposizione della (OMISSIS) donde la corte distrettuale ha ricavato la facile visibilita’ “in situ” delle garze. Sicche’, diversamente da quanto affermato per il (OMISSIS), viene prospettato proprio un errore di valutazione della prova, come ben evidenzia anche il ricorso per il (OMISSIS), laddove aggiunge che l’affermazione della Corte territoriale e’ anche “sganciata da quanto emerso nel corso dell’istruttoria dibattimentale”. Cio’ detto, va puntualizzato che il riferimento alla visibilita’ della garze in ragione del filo radiopaco e’ solo uno degli elementi indicati nella sentenza impugnata per descrivere il comportamento doveroso. Si e’ gia’ rimarcato come si sia fatto riferimento altresi’ alla comunque non impossibile distinguibilita’ delle garze imbevute di sangue nel corso di un intervento operatorio di assoluta routine. Tale giudizio attinge il merito della vicenda per cui e’ processo e non puo’ essere censurato da questa Corte (oltretutto in assenza di rilievi specificamente mossi dai ricorrenti), non emergendo la sua manifesta illogicita’ ne’ risultando dimostrata la contraddittorieta’ della stessa alle acquisizioni processuali.

Si puo’ quindi pervenire a delle prime conclusioni. Il giudizio della Corte di appello muove dalla premessa dell’esistenza di un dovere di diligenza del chirurgo nell’utilizzo delle garze laparotomiche, che non e’ escluso dalla attribuzione ad un componente specifico dell’equipe operatoria del compito del conteggio delle garze preliminare, concomitante e successivo all’intervento operatorio (il cd. ferrista). Si tratta di una regola cautelare che scaturisce dai canoni della prevedibilita’ e della evitabilita’ dell’evento pregiudizievole connesso alla derelizione delle garze nel corpo del paziente, e che e’ alla base dei protocolli estesamente osservati nei luoghi di cura. Quel dovere si aggiunge a quelli gravanti sugli ulteriori componenti dell’equipe e a quello di controllo “formale” che il capo equipe deve svolgere sull’operato del ferrista.

In tale quadro l’esclusione della responsabilita’ del chirurgo, in caso di abbandono di garze nel corpo del paziente, e’ connessa alla dimostrazione di particolari circostanze concrete, che diano evidenza della impossibilita’ di usare nel caso di specie la diligenza compatibile con le peculiari condizioni operative.

Quando sin qui ritenuto puo’ essere compendiato nel seguente principio di diritto: “Con riferimento all’attivita’ medico-chirurgica di equipe, il dovere del chirurgo capo equipe di controllo del conteggio dello strumentario operato dal collaboratore si accompagna all’obbligo di diligenza nel controllo del campo operatorio, onde prevenire la derelizione in esso di cose facenti parti di quello strumentario.

La diligenza esigibile dal chirurgo nell’esecuzione di tale compiti va valutata alla luce delle particolari condizioni operative”.

Alla Corte di appello, che ha evidenziato la assenza di particolari condizioni operative ostative ad una verifica che il campo operatorio fosse sgombro di oggetti utilizzati per l’intervento, e quindi in grado di impedire l’uso della diligenza richiesta al chirurgo per tale controllo, i ricorsi non hanno opposto alcuna osservazione.

4.2. Quest’ultima notazione introduce al tema della mancata applicazione della L. n. 189 del 2012, articolo 3. In primo luogo va rilevato che con gli atti di appello non era stata avanzata alcuna richiesta concernente la riconduzione del fatto alla fattispecie delineata dal cd. decreto Balduzzi. Tuttavia cio’ non e’ dirimente in questa sede, poiche’ si e’ in presenza di una parziale “abolitio criminis”, in relazione alle ipotesi di omicidio e lesioni colpose connotate da colpa lieve, nei procedimenti relativi a tali reati, pendenti in sede di merito alla data di entrata in vigore della novella, il giudice, in applicazione dell’articolo 2 c.p., comma 2, deve procedere d’ufficio all’accertamento del grado della colpa, in particolare verificando se la condotta del sanitario poteva dirsi aderente ad accreditate linee guida (Sez. 4, n. 23283 del 11/05/2016 – dep. 06/06/2016, Denegri, Rv. 266904

Suprema Corte di Cassazione

sezione IV penale

sentenza 5 agosto 2016, n. 34503

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ISA Claudio – Presidente

Dott. DOVERE Salvatore – rel. Consigliere

Dott. BELLINI Ugo – Consigliere

Dott. PEZZELLA Vincenzo – Consigliere

Dott. CENCI Daniele – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS), N. IL (OMISSIS);

(OMISSIS), N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 3171/2014 CORTE APPELLO di PALERMO, del 16/09/2015;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 25/05/2016 la relazione fatta dal Consigliere Dott. DOVERE SALVATORE;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. ROMANO Giulio, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

Udito il difensore Avv.to (Ndr: testo originale non comprensibile) (OMISSIS), per il (OMISSIS), che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

  1. Il Tribunale di Palermo giudico’ (OMISSIS) e (OMISSIS) responsabili di aver cagionato a (OMISSIS) lesioni personali gravi, consistenti “nell’indebolimento permanente dell’addome”, omettendo di effettuare alla fine dell’intervento chirurgico di parto cesareo, al quale era stata sottoposta la (OMISSIS) e che era stato eseguito dai predetti chirurghi, il conteggio della garze laparotomiche e lasciando una di esse nell’addome della paziente. Per il giudice di primo grado risultava accertato che fosse stato compiuto un errore nel conteggio delle garze, eseguito dalla ferrista, e che tale errore trovava origine nell’eta’ avanzata della stessa, al momento dell’intervento settantanovenne; che, inoltre, risultava l’assenza di un infermiere di sala, la cui presenza e’ prescritta dai protocolli chirurgici unanimamente accettati, e che tanto integrava una violazione dei predetti protocolli. Pertanto, fu il giudizio del primo decisore, i chirurghi avrebbero dovuto eseguire una procedura di verifica effettiva della procedura di conta delle garze, che invece avevano omesso, cosi’ come avevano omesso la revisione della cavita’ peritoneale.

La Corte di Appello di Palermo, con la sentenza indicata in epigrafe, ha confermato la pronuncia di condanna del (OMISSIS) e del (OMISSIS) alla pena ritenuta equa nonche’ al risarcimento dei danni in favore della (OMISSIS), costituitasi parte civile, ma sulla scorta di un diverso percorso motivazionale.

Il giudice distrettuale, infatti, ha escluso che le acquisizioni processuali consentano di affermare che il conteggio delle garze fu omesso o compiuto con modalita’ non conformi a quanto prescritto dai protocolli medico scientifici di riferimento; ha escluso che dal solo fatto che la ferrista fosse stata di eta’ avanzata potesse dedursi che l’errore nella conta delle garze avesse avuto origine in una sua inidoneita’ professionale e, conseguentemente, che nella specie emergessero circostanze che richiedessero uno standard eccezionale di attenzione da parte del capo-equipe (il (OMISSIS)) e del suo aiuto operatore (il (OMISSIS)) per assicurare la corretta esecuzione della conta delle garze, tanto da richiedere agli stessi di provvedere direttamente alla verifica. Ha anche escluso che fosse provata l’assenza di un soggetto con funzioni di infermiere di sala; ed ha ritenuto che in ogni caso il dato non poteva essere causalmente correlato con certezza all’errore nella conta delle garze.

Sicche’ la conferma del giudizio di responsabilita’ e’ stato dalla Corte di Appello fondato sulla ritenuta violazione da parte degli imputati del dovere di tenere il conto delle garze utilizzate e di verificare con attenzione il campo operatorio prima di procedere alla sua chiusura; configurandosi il controllo finale da parte dei ferrista come adempimento aggiuntivo. L’osservanza del predetto obbligo era nella specie esigibile, stante la routinarieta’ dell’intervento sulla persona della (OMISSIS) e l’utilizzo di garze con filo radiopaco che non solo permetteva di rintracciare le medesime con esame radiografico ma le rendeva anche piu’ facilmente visibili nel corso dell’intervento chirurgico.

  1. Avverso tale decisione ricorre per cassazione (OMISSIS).

2.1. Con un primo motivo deduce violazione di legge e vizio motivazionale. La violazione di legge sarebbe consistita nella mancata applicazione, da parte della Corte di appello, del principio di affidamento, in forza del quale, nell’ambito dell’attivita’ medicochirurgica espletata nella vicenda che occupa, il chirurgo poteva fare affidamento sulla corretta esecuzione da parte del ferrista del compito riservato al medesimo di conteggio delle garze. Ad avviso del ricorrente il chirurgo e’ obbligato ad un controllo di tipo formale sull’operato del ferrista, nel senso che e’ tenuto a richiedere a questi se ha operato la verifica della corrispondenza tra le garze disponibili all’inizio dell’intervento e quelle presenti alla fine dello stesso, mentre e’ escluso che debba procedere direttamente al conteggio. Il vizio motivazionale viene quindi ravvisato nel non aver la corte distrettuale tenuto conto degli elementi di prova che dimostravano il compiuto adempimento da parte del (OMISSIS) degli obblighi dei quali era gravato, essendo risultato accertato che egli aveva verificato che la ferrista avesse operato il conteggio e che l’esito fosse stato la corrispondenza numerica.

Aggiunge, l’esponente, che la Corte di appello ha individuato un’autonoma regola cautelare per pervenire ad un giudizio di responsabilita’ dell’imputato, consistente nella prescrizione di procedere alla asportazione delle pezze laparotomiche utilizzate, a tener conto delle garze usate e a verificare con attenzione il campo operatorio prima di procedere alla sua chiusura. In cio’ si rinviene una violazione di legge, perche’ nuovamente si finisce per attribuire al chirurgo una responsabilita’ a titolo oggettivo, ove il ferrista, dal quale egli riceve indicazione del numero delle garze utilizzate, sia incorso in errore non riconoscibile; e vizio motivazionale perche’ non e’ esplicitato il percorso logico-giuridico seguito per affermare la responsabilita’ del chirurgo, in specie con riferimento al comportamento alternativo lecito idoneo a scongiurare il prodursi dell’evento lesivo.

2.2. Con un secondo motivo si deduce vizio motivazionale, avendo la Corte di appello ritenuto l’esigibilita’ del comportamento doveroso sulla scorta di una lettura parziale delle dichiarazioni del c.t. del p.m. dr.ssa (OMISSIS), cosi’ ritenendo, erroneamente, che le garze utilizzate fossero rese visibili in situ dal filo radiopaco del quale erano dotate.2.3. Con un terzo motivo si deduce violazione di legge e vizio motivazionale in relazione alla mancata applicazione della L. n. 189 del 2012, articolo 3: ricorrono i presupposti per l’applicazione della menzionata disposizione, come dato atto dallo stesso giudice di secondo grado, sicche’ non averlo fatto integra la violazione di lege. Inoltre la Corte territoriale non ha fornito alcuna motivazione in ordine al grado della colpa.

  1. Ricorre per cassazione anche (OMISSIS), con atto personalmente sottoscritto.

3.1. Articola due motivi, il primo dei quali censura la sentenza impugnata sotto il profilo del vizio di motivazione, per non aver esplicato le ragioni per le quali nel caso di specie non trova applicazione la previsione della L. n. 189 del 2012, articolo 3 ed anzi aver ritenuto che il comportamento dei chirurgi era stato conforme alle linee guida di riferimento e cio’ nonostante non escluso la loro responsabilita’. Tanto anche sulla base di una erronea lettura delle dichiarazioni della (OMISSIS) e ritenendo, erroneamente, che il filo radiopaco renda visibili le garze in situ.

Il secondo motivo investe il vizio motivazionale che sarebbe consistito nel travisamento della testimonianza della (OMISSIS), ancora sul punto concernente la visibilita’ delle garze in corso di intervento.

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. I ricorsi sono infondati, nei termini di seguito precisati. Essi possono essere trattati unitariamente, stante la comunanza delle censure.

4.1. Come si e’ gia’ rammentato nella superiore parte narrativa, rispetto alla sentenza di primo grado la Corte di appello ha significativamente mutato la struttura del giudizio di responsabilita’, rinvenendo la condotta colposa nella mancata asportazione di tutte le pezze laparotomiche utilizzate e nel mancato o inadeguato controllo del campo operatorio prima della e sino alla chiusura del medesimo.

Cio’ consente di tralasciare ogni aspetto che non sia strettamente pertinente al nucleo dell’addebito mosso agli odierni ricorrenti con la sentenza qui impugnata; e di prendere le mosse da quanto e’ sostanzialmente non controverso: il conteggio delle garze che competeva al collaboratore “ferrista” era stato effettuato (ancorche’ erroneamente); il controllo di carattere formale ad opera del capo equipe era stato eseguito (correttamente).

I temi posti dai ricorsi possono essere trattati a partire da tali premesse.

4.2. Sulla scorta della precisa delimitazione della condotta ritenuta colposa dalla Corte di appello, appare invero inconferente il richiamo al principio di affidamento, ai suoi contenuti e alle sue implicazioni. Infatti, nel caso di specie non si tratta di valutare la fondatezza di una decisione che imputa al chirurgo di non aver controllato l’altrui operato: ipotesi che tipicamente rimanda al campo operativo del principio di affidamento, sia pure in termini (non esaustivi e) che per l’attuale giurisprudenza di legittimita’ rimangono alquanto problematici. Tra le piu’ recenti affermazioni, che questo Collegio ritiene del tutto condivisibile, vi e’ quella per la quale il capo dell’equipe operatoria e’ titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente in ragione della quale e’ tenuto a dirigere e a coordinare l’attivita’ svolta dagli altri medici, sia pure specialisti in altre discipline, controllandone la correttezza e ponendo rimedio, ove necessario, ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali o comunque rientranti nella sua sfera di conoscenza e, come tali, siano emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio (Sez. 4, n. 33329 del 05/05/2015 – dep. 28/07/2015, Sorrentino e altri, Rv. 264366).

A nel caso che occupa al (OMISSIS) e al (OMISSIS) si e’ ascritto di non aver adempiuto a compiti che involgevano esclusivamente l’opera propria e non l’opera di altri; obblighi che attenevano all’esecuzione diretta dell’attivita’ medica e non alla vigilanza su quella medica o paramedica da altri eseguita.

Il dato non e’ sfuggito ai ricorrenti, che in termini differenti e, tuttavia, convergenti mirano in chiave critica alla regola cautelare individuata dalla corte distrettuale, secondo la quale il chirurgo e’ tenuto a prestare attenzione nell’uso delle pezze laparotomiche, curando di non abbandonarle nel campo operatorio.

E se i ricorsi, nella parte incentrata sulla mancata applicazione del principio di affidamento, non colgono il segno perche’ non vi e’ materia per siffatto principio, a riguardo del nucleo centrale della decisione impugnata risultano incapaci di portare in emersione i vizi che pure evocano.

Si afferma, per il (OMISSIS), che si e’ sconfinato in una responsabilita’ oggettiva; ma cio’ sarebbe vero se realmente la corte territoriale avesse posto a carico del chirurgo l’errore non riconoscibile del ferrista. Ma cosi’ non e’, perche’, come si e’ scritto, al chirurgo si e’ ascritto l’errore personale. Quanto all’assenza di un visibile percorso logico-giuridico conducente all’affermazione di responsabilita’, va dato atto della eccessiva sintesi scelta dalla corte distrettuale; cio’ nonostante e’ ben rintracciabile la descrizione del comportamento alternativo lecito che per il giudice di secondo grado sarebbe stato idoneo a scongiurare il prodursi dell’evento lesivo: si coglie laddove la Corte di appello evoca la difficile (ma non impossibile) distinguibilita’ delle garze pur imbevute di sangue; la facile visibilita’ della garze assicurata dal filo radiopaco (questione sulla quale occorrera’ tornare, ma a diversi fini); dove perimetra l’area della diligenza doverosa nell’esecuzione del compito personale rispetto a quella della diligenza nel controllo sull’operato altrui (ovvero quando afferma che il controllo finale e’ adempimento aggiuntivo che non elide il dovere del chirurgo di accorgersi della presenza nell’addome di una garza di dimensioni rilevanti che egli stesso vi ha introdotto, nell’ambito di un intervento di routine, in assenza di qualsiasi complicanza o particolarita’).

I ricorrenti non censurano la effettiva esistenza di una simile regola cautelare; che d’altronde appare rispondente a quanto dettato dai consueti canoni della prevedibilita’ e dell’evitabilita’. La stessa previsione di linee guida, di protocolli (come quello descritto nella Raccomandazione n. 2 del marzo 2008 del Ministero della Salute, piu’ volte evocata nel presente giudizio) trae origine dalla riconosciuta pericolosita’ dell’uso di garze e di strumenti nel corso di interventi chirurgici e dalla identificazione di contromisure atte ad evitare la derelizione degli stessi nel corpo del paziente.

L’attenzione dei ricorrenti si e’ appuntata sulla esigibilita’ della condotta pretesa dalla Corte territoriale; tuttavia incentrando la censura sulla sola affermazione della facile visibilita’ delle garze assicurata dalla presenza in esse di filo radiopaco; affermazione che si reputa errata e figlia di un travisamento della prova. Orbene, va subito osservato che in realta’ dalla esposizione medesima dei ricorrenti non emerge alcun travisamento della prova. Tal’e’ l’errore sul significante e non gia’ quello sul significato: anche i ricorsi riportano il brano della deposizione della (OMISSIS) donde la corte distrettuale ha ricavato la facile visibilita’ “in situ” delle garze. Sicche’, diversamente da quanto affermato per il (OMISSIS), viene prospettato proprio un errore di valutazione della prova, come ben evidenzia anche il ricorso per il (OMISSIS), laddove aggiunge che l’affermazione della Corte territoriale e’ anche “sganciata da quanto emerso nel corso dell’istruttoria dibattimentale”. Cio’ detto, va puntualizzato che il riferimento alla visibilita’ della garze in ragione del filo radiopaco e’ solo uno degli elementi indicati nella sentenza impugnata per descrivere il comportamento doveroso. Si e’ gia’ rimarcato come si sia fatto riferimento altresi’ alla comunque non impossibile distinguibilita’ delle garze imbevute di sangue nel corso di un intervento operatorio di assoluta routine. Tale giudizio attinge il merito della vicenda per cui e’ processo e non puo’ essere censurato da questa Corte (oltretutto in assenza di rilievi specificamente mossi dai ricorrenti), non emergendo la sua manifesta illogicita’ ne’ risultando dimostrata la contraddittorieta’ della stessa alle acquisizioni processuali.

Si puo’ quindi pervenire a delle prime conclusioni. Il giudizio della Corte di appello muove dalla premessa dell’esistenza di un dovere di diligenza del chirurgo nell’utilizzo delle garze laparotomiche, che non e’ escluso dalla attribuzione ad un componente specifico dell’equipe operatoria del compito del conteggio delle garze preliminare, concomitante e successivo all’intervento operatorio (il cd. ferrista). Si tratta di una regola cautelare che scaturisce dai canoni della prevedibilita’ e della evitabilita’ dell’evento pregiudizievole connesso alla derelizione delle garze nel corpo del paziente, e che e’ alla base dei protocolli estesamente osservati nei luoghi di cura. Quel dovere si aggiunge a quelli gravanti sugli ulteriori componenti dell’equipe e a quello di controllo “formale” che il capo equipe deve svolgere sull’operato del ferrista.

In tale quadro l’esclusione della responsabilita’ del chirurgo, in caso di abbandono di garze nel corpo del paziente, e’ connessa alla dimostrazione di particolari circostanze concrete, che diano evidenza della impossibilita’ di usare nel caso di specie la diligenza compatibile con le peculiari condizioni operative.

Quando sin qui ritenuto puo’ essere compendiato nel seguente principio di diritto: “Con riferimento all’attivita’ medico-chirurgica di equipe, il dovere del chirurgo capo equipe di controllo del conteggio dello strumentario operato dal collaboratore si accompagna all’obbligo di diligenza nel controllo del campo operatorio, onde prevenire la derelizione in esso di cose facenti parti di quello strumentario.

La diligenza esigibile dal chirurgo nell’esecuzione di tale compiti va valutata alla luce delle particolari condizioni operative”.

Alla Corte di appello, che ha evidenziato la assenza di particolari condizioni operative ostative ad una verifica che il campo operatorio fosse sgombro di oggetti utilizzati per l’intervento, e quindi in grado di impedire l’uso della diligenza richiesta al chirurgo per tale controllo, i ricorsi non hanno opposto alcuna osservazione.

4.2. Quest’ultima notazione introduce al tema della mancata applicazione della L. n. 189 del 2012, articolo 3. In primo luogo va rilevato che con gli atti di appello non era stata avanzata alcuna richiesta concernente la riconduzione del fatto alla fattispecie delineata dal cd. decreto Balduzzi. Tuttavia cio’ non e’ dirimente in questa sede, poiche’ si e’ in presenza di una parziale “abolitio criminis”, in relazione alle ipotesi di omicidio e lesioni colpose connotate da colpa lieve, nei procedimenti relativi a tali reati, pendenti in sede di merito alla data di entrata in vigore della novella, il giudice, in applicazione dell’articolo 2 c.p., comma 2, deve procedere d’ufficio all’accertamento del grado della colpa, in particolare verificando se la condotta del sanitario poteva dirsi aderente ad accreditate linee guida (Sez. 4, n. 23283 del 11/05/2016 – dep. 06/06/2016, Denegri, Rv. 266904).

Deve quindi ritenersi che la corte distrettuale abbia implicitamente escluso la ricorrenza delle condizioni di delimitazione della responsabilita’ penale. Ovviamente cio’ non esime questa Corte dal dovere di pronunciare l’annullamento della sentenza impugnata ove ravvisi negli elementi evidenziati dalla sentenza all’esame quelle condizioni. Ma cio’ non e’ nel caso concreto, nel quale giammai e’ stata formulata una indicazione di colpa lieve a riguardo degli odierni ricorrenti e di rispondenza del loro operato – si intende quello che viene attinto dal rimprovero elevato dalla Corte di appello – a linee guida o protocolli connotati dai particolari requisiti di cui alla menzionata disposizione di legge.

  1. in conclusione, i ricorsi devono essere rigettati ed i ricorrenti vanno condannati al pagamento delle spese processuali.

       . Di tale regula iuris ha fatto corretta applicazione il Collegio di merito, non essendo revocabile in dubbio che la persona che si presenti al Pronto Soccorso, lamentando un disturbo, abbia il pieno diritto – cui corrisponde un correlativo dovere del sanitario di turno – ad essere sottoposto a visita medica, la’ dove l’assegnazione del codice di triage all’atto dell’accettazione vale soltanto a definire un ordine di visita fra piu’ pazienti in attesa, ma non ad esentare il predetto sanitario dal dare corso alla visita del paziente la cui patologia sia valutata, ad un primo screening del personale paramedico, non grave. Cio’ a maggior ragione allorche’ si tratti di persona non piu’ giovane (ultrasettantenne) che accusi un dolore acuto (indicato come di intensita’ 9, in una scala da 1 a 10) ed a fronte delle reiterate sollecitazioni del personale infermieristico, dunque di personale qualificato ed in grado di valutare l’effettiva necessita’ della visita immediata da parte del medico.

Ne’ il differimento della visita puo’ ritenersi legittimo esercizio della discrezionalita’ del sanitario per il fatto che l’esame radiologico non avrebbe potuto essere espletato durante la notte, ma soltanto al mattino seguente. A prescindere dall’impossibilita’ di procedere ad un’immediata indagine radiologica, costituiva infatti preciso dovere del medico di turno presso il Pronto Soccorso – id est presso il presidio sanitario deputato ad apprestare le prime cure in tutti i casi di urgenza – verificare senza indugi la gravita’ della situazione e formulare una prima diagnosi, cosi’ da scongiurare patologie di intensita’ tale da richiedere un intervento sanitario tempestivo e non dilazionabile al giorno successivo.

3.3. Il fatto risulta pertanto essere stato correttamente qualificato ai sensi dell’articolo 328 c.p., avendo (OMISSIS) rifiutato un atto sanitario, che aveva il dovere di porre in essere quale medico di turno del Pronto Soccorso, atto richiesto con insistenza dal personale infermieristico, in una situazione di oggettivo rischio per la paziente, in considerazione dell’eta’ e dell’intensita’ del dolore da ella riferito.

 

 

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI penale

sentenza 29 settembre 2016, n. 40753

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROTUNDO Vincenzo – Presidente

Dott. TRONCI Andrea – Consigliere

Dott. CRISCUOLO Anna – Consigliere

Dott. GIORDANO Emilia Anna – Consigliere

Dott. BASSI A. – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS), nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 01/07/2015 della Corte d’appello di Trieste

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Alessandra Bassi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. Di Leo Giovanni, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile;

udito il difensore, Avv. (OMISSIS), che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

  1. Con il provvedimento in epigrafe, la Corte d’appello di Trieste ha confermato la sentenza del 14 giugno 2013, con la quale il Tribunale di Tolmezzo ha condannato (OMISSIS) per il reato di cui all’articolo 328 c.p., per avere, in qualita’ di dirigente medico dipendente della azienda sanitaria n. (OMISSIS), in servizio presso il Pronto Soccorso dell’ospedale di (OMISSIS), con mansioni di medico di guardia, omesso di visitare (OMISSIS) che si era presentata presso il Pronto Soccorso lamentando un dolore al braccio sinistro in conseguenza di una caduta accidentale in bagno, accettata con codice triage verde; nonostante il reiterato invito fattogli dall’infermiera di sottoporre a visita la paziente per una probabile frattura alla spalla, l’imputato non prestava le dovute cure “perche’ a quell’ora si era da poco messo riposare”.

1.1. In via preliminare, il Collegio ha ricordato che, secondo la ricostruzione dei fatti compiuta dal Tribunale, (OMISSIS) si presentava presso il Pronto Soccorso dell’ospedale alle 4:30 – 4:50, lamentando un dolore al braccio sinistro con un’intensita’ pari a 9 (nella scala da 1 a 10) a seguito di una caduta accidentale e veniva accettata con l’attribuzione del codice verde; l’infermiera (OMISSIS) avvisava dell’arrivo della paziente il medico di servizio al Pronto Soccorso Dott. (OMISSIS) che, in quel momento, si trovava a riposare; il Dott. (OMISSIS) non visitava la paziente, dicendo all’infermiera di somministrare alla donna un antidolorifico e di invitarla rimanere in Pronto Soccorso fino alle 8:00 per eseguire le radiografie; al momento non v’erano pazienti presso il Pronto Soccorso ed il Dott. (OMISSIS) aveva terminato l’ultima visita alle 3:00; la (OMISSIS) tornava a casa dopo circa due ore ed il mattino seguente si ripresentava alle 8:00 al Pronto Soccorso, veniva visitata da altro medico ed, alle 10:00, eseguiva la radiografia, all’esito della quale le veniva diagnosticata una frattura scomposta dell’omero sinistro, venendo operata il giorno seguente.

1.2. Dopo avere dato atto dei motivi d’appello, la Corte ha evidenziato come le infermiere (OMISSIS) e (OMISSIS) abbiano riferito di aver insistito col Dott. (OMISSIS) affinche’ visitasse la paziente e di avere ricevuto in risposta l’indicazione di somministrarle un antidolorifico, mentre la decisione di immobilizzare l’arto era stata presa dalle stesse infermiere, cosi’ come quella di invitare la paziente a rimanere in Pronto Soccorso. Nonostante la paziente avesse dichiarato di aver un dolore pari a 9, il medico aveva ritenuto di non visitarla, mentre il rinvio della visita alle 8:00 era stato funzionale a spostare l’incombente su un altro medico, che subentrava di turno al mattino e che effettivamente visito’ la paziente.

1.3. In punto di qualificazione giuridica della fattispecie, la Corte ha evidenziato come il delitto di cui all’articolo 328 c.p. sia integrato anche se le condizioni di salute del paziente – per cui si e’ realizzato l’atto omissivo – non siano poi risultate gravi in concreto o che l’atto omesso non abbia provocato l’aggravamento di esse, atteso che si tratta di reato di pericolo plurioffensivo, la cui realizzazione lede, oltre all’interesse del privato danneggiato dall’omissione o dal ritardo dell’atto amministrativo dovuto, anche l’interesse pubblico al buon andamento ed alla trasparenza della pubblica amministrazione. La connotazione indebita attribuibile al rifiuto sussiste quando risulti che l’imputato non abbia esercitato una discrezionalita’ tecnica, ma si sia semplicemente sottratto alla valutazione dell’urgenza dell’atto d’ufficio. La Corte ha dunque rilevato che, secondo l’uniforme orientamento di questa Suprema Corte: a) l’urgenza dell’atto o i tempi della sua attuazione non debbono essere dettati da norme di legge o dai regolamenti, ma possono essere desunti dalle caratteristiche del caso concreto o da prassi vigenti; b) la valutazione del corretto esercizio della discrezionalita’ – che, in questo campo, compete al medico – e’ soggetta a valutazione critica da parte del giudice; c) a nulla rileva che le condizioni della paziente non si siano aggravate, a motivo dell’omissione o del ritardo dell’atto.

Nel caso di specie, la doverosita’ della condotta richiesta al Dott. (OMISSIS) derivava: 1) dai protocolli vigenti presso l’ospedale di (OMISSIS), secondo cui tutti pazienti che accedono al Pronto Soccorso devono essere visitati e che quelli a cui sia assegnato il codice verde devono essere visitati nell’arco di dieci minuti mezz’ora, se non vi sono altri pazienti con codice rosso o piu’ urgenti; 2) dalle condizioni di salute della paziente, una donna anziana che manifestava un dolore prossimo al massimo; 3) dalle circostanze in cui l’imputato si trovava ad operare, in totale assenza di altri pazienti da visitare. D’altra parte, l’imputato differiva la visita della paziente alle 8:00, ora a cui smontava dal turno, e non si preoccupava di apprestare le prime cure alla paziente, atteso che erano le infermiere a disporre che ella rimanesse al Pronto Soccorso per il monitoraggio del dolore ed a praticarle il bendaggio.

1.4. La Corte ha dunque ritenuto insussistenti presupposti per pronunciare sentenza assolutoria ai sensi dell’articolo 131-bis c.p., rimarcando la violazione al dovere di medico e il non trascurabile affanno causato alla parte lesa, una signora ultrasettantenne con un braccio rotto.

  1. Avverso la sentenza ha presentato ricorso (OMISSIS), a mezzo del proprio difensore di fiducia Avv. (OMISSIS), e ne ha chiesto l’annullamento per i seguenti motivi.

2.1. Vizio di motivazione in relazione all’accertamento dei fatti.

Il ricorrente si duole del fatto che la Corte d’appello abbia fondato il giudizio di penale responsabilita’ sulla base di una ricostruzione solo parziale dei fatti, dando per acquisite, sulla base della interpretazione delle deposizioni dei testi (OMISSIS) e (OMISSIS), circostanze che, alla luce di una corretta lettura degli atti dibattimentali, appaiono di contenuto diverso. Si evidenzia che il medico non ha omesso la visita della paziente, ma ne ha soltanto disposto il differimento, ne’ ha indicato un orario tale da rimettere l’incombente al successivo medico di turno, indicazione fatta dalle infermiere. L’imputato ha correttamente prescritto i presidi farmaceutici necessari a curare i sintomi del dolore e dilazionato la visita medica della paziente, in quanto si trattava di un caso con codice verde, dunque non urgente, che richiedeva l’effettuazione di ulteriori accertamenti diagnostici – nella specie quelli radiologici – nel corso della mattinata successiva.

2.2. Violazione di legge penale in relazione all’articolo 328 c.p..

Lamenta il ricorrente che al prevenuto non e’ imputabile la condotta penalmente sanzionabile ascritta, non essendo rinvenibile alcuna norma che ponga in capo al medico l’obbligo giuridico (la cui violazione configuri l’ipotesi sanzionata come omissione d’atti d’ufficio) di visitare immediatamente, o in un tempo ridotto o nel rispetto di una tempistica predeterminata e correlata al caso concreto, il paziente che acceda al Pronto Soccorso con attribuzione del codice verde a seguito della procedura di triage. Fra l’altro, anche in occasione del secondo rientro al Pronto Soccorso, avvenuto la mattina successiva, la visita della paziente fu ritenuta differibile, e non dal Dott. (OMISSIS), con indicazione alla stessa di fare rientro alle 10:00. Il Dottor (OMISSIS) era dunque titolare, nella sua qualita’ di dirigente medico, del potere discrezionale di differire la visita in un lasso di tempo da determinare secondo la propria discrezionalita’, fondata sul rispetto del protocollo del triage. Sotto diverso aspetto, si evidenzia che i protocolli interni dell’ospedale non hanno efficacia vincolante e sono insuscettibili di fondare obblighi giuridici ai sensi dell’articolo 328 c.p..

2.3. Violazione di legge in relazione all’articolo 131-bis c.p., per avere la Corte omesso di applicare la causa di non punibilita’, nonostante la particolare tenuita’ dell’offesa, la non abitualita’ del comportamento e la condizione di incensuratezza dell’imputato, cui sono state riconosciute le attenuanti generiche.

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. Il ricorso e’ infondato e deve essere pertanto rigettato.
  2. Il primo motivo di doglianza in merito alla ricostruzione in fatto della vicenda oggetto di contestazione non sfugge ad una preliminare ed assorbente censura di inammissibilita’, posto che, per un verso, non si confronta con la compiuta e lineare motivazione svolta dai Giudici della cognizione (sopra sunteggiata nei paragrafi 1 del ritenuto in fatto) e, dunque, omette di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone e altri, Rv. 243838). Per altro verso, e’ volto a sollecitare una rilettura delle emergenze processuali, non consentita in questa Sede, dovendo la Corte di legittimita’ limitarsi a ripercorrere l’iter argomentativo svolto dal giudice di merito per verificare la completezza e l’insussistenza di vizi logici ictu oculi percepibili, senza possibilita’ di valutare la rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (ex plurimis Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074).
  3. E’ destituito di fondamento anche il secondo motivo con il quale si e’ eccepita la violazione di legge in relazione all’articolo 328 c.p..

3.1. Secondo il consolidato insegnamento di questa Corte, in tema di rifiuto di atti di ufficio, il carattere di urgenza dell’atto ricorre nel caso del medico in servizio di guardia che sia richiesto di prestare il proprio intervento da personale infermieristico e medico con insistenti sollecitazioni, non rilevando che il paziente non abbia corso alcun pericolo concreto per effetto della condotta omissiva (Sez. 6, n. 14979 del 27/11/2012 – dep. 02/04/2013, M., Rv. 254863).

3.2. Di tale regula iuris ha fatto corretta applicazione il Collegio di merito, non essendo revocabile in dubbio che la persona che si presenti al Pronto Soccorso, lamentando un disturbo, abbia il pieno diritto – cui corrisponde un correlativo dovere del sanitario di turno – ad essere sottoposto a visita medica, la’ dove l’assegnazione del codice di triage all’atto dell’accettazione vale soltanto a definire un ordine di visita fra piu’ pazienti in attesa, ma non ad esentare il predetto sanitario dal dare corso alla visita del paziente la cui patologia sia valutata, ad un primo screening del personale paramedico, non grave. Cio’ a maggior ragione allorche’ si tratti di persona non piu’ giovane (ultrasettantenne) che accusi un dolore acuto (indicato come di intensita’ 9, in una scala da 1 a 10) ed a fronte delle reiterate sollecitazioni del personale infermieristico, dunque di personale qualificato ed in grado di valutare l’effettiva necessita’ della visita immediata da parte del medico.

Ne’ il differimento della visita puo’ ritenersi legittimo esercizio della discrezionalita’ del sanitario per il fatto che l’esame radiologico non avrebbe potuto essere espletato durante la notte, ma soltanto al mattino seguente. A prescindere dall’impossibilita’ di procedere ad un’immediata indagine radiologica, costituiva infatti preciso dovere del medico di turno presso il Pronto Soccorso – id est presso il presidio sanitario deputato ad apprestare le prime cure in tutti i casi di urgenza – verificare senza indugi la gravita’ della situazione e formulare una prima diagnosi, cosi’ da scongiurare patologie di intensita’ tale da richiedere un intervento sanitario tempestivo e non dilazionabile al giorno successivo.

3.3. Il fatto risulta pertanto essere stato correttamente qualificato ai sensi dell’articolo 328 c.p., avendo (OMISSIS) rifiutato un atto sanitario, che aveva il dovere di porre in essere quale medico di turno del Pronto Soccorso, atto richiesto con insistenza dal personale infermieristico, in una situazione di oggettivo rischio per la paziente, in considerazione dell’eta’ e dell’intensita’ del dolore da ella riferito.

  1. Incensurabile nella sede di legittimita’ e’ la valutazione oggetto del terzo ed ultimo motivo. Il Collegio di merito ha invero argomentato con considerazioni immuni da manifesta irragionevolezza il denegato riconoscimento della causa di non punibilita’ invocata, correttamente valorizzando la gravita’ del fatto e le sofferenze cagionate alla persona offesa, particolarmente vulnerabile a cagione dell’eta’ avanzata, per escludere la ricorrenza di un’offesa di particolare tenuita’ ai sensi dell’articolo 131-bis c.p..
  2. Dal rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

Suprema Corte di Cassazione

sezione III civile

sentenza  19 maggio 2017, n. 12597 

Svolgimento del processo

  1. F.M. ha proposto ricorso per cassazione contro la Casa di Cura Villa Ester E. Percesepe s.p.a. e la s.p.a. Assitalia, avverso la sentenza del 3 dicembre 2012, con cui la Corte d’Appello di Napoli ha rigettato il suo appello avverso la sentenza del Tribunale di Avellino del marzo del 2006, con la quale era stata rigettata la domanda, con cui nel gennaio del 2001, essa ricorrente aveva chiesto la condanna della Casa di Cura al risarcimento dei danni asseritamente sofferti in conseguenza di un intervento chirurgico di “stabilizzazione della spalla sinistra”, al quale si era sottoposta presso di essa nel gennaio del 2001. Nel relativo giudizio la convenuta aveva chiamato in garanzia la società assicuratrice.
    2. Al ricorso, che prospetta tre motivi, ha resistito con controricorso soltanto la Casa di Cura Villa Ester E. Percipese, mentre non ha svolto attività difensiva la società assicuratrice.
    3. La ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo si deduce “violazione degli artt. 1176, 1218, 1223, 1226, 2043 e 2049 c.c. e dell’art. 196 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. – omesso esame del risultato della prestazione medica per la formulazione del giudizio di inadempimento e del grado di diligenza impiegato dal professionista – difetto di attribuzione dell’onere della prova i tema di inadempimento – omesso ingiusto diniego di riconoscimento del danno a seguito dell’inesatto inadempimento”.
    1.1. L’illustrazione del motivo esordisce con il riprodurre quanto si era dedotto con il primo motivo di appello, che risulta avere avuto il seguente tenore:
    “La menomazione clinica funzionale della spalla sinistra è più grave rispetto allo stato antecedente l’intervento. A ciò andava aggiunto il danno psichico reattivo della paziente di fronte alla delusione provata per l’intervento subito privo di efficacia. Suffragano tale convincimento le certificazioni specialistiche neuropsichiatriche in atti. Tutto ciò concretizza un danno alla persona che si struttura soprattutto come danno biologico, come danno alla salute ed alla qualità della vita della giovane paziente ancora nubile. Era giusto riconoscere, pertanto, un’invalidità permanente, conseguente all’intervento e alle omesse prescitte terapie nella misura non inferiore al 15%. Andava pure considerato ai fini risarcitori lo stato di disoccupazione dell’appellante pure conseguente all’intervento e alla omissione di cure; oltre alla detta invalidità permanente andava pure riconosciuto una invalidità temporanea di giorni 60 ed una progressiva invalidità parziale, in aggiunta al danno morale che andava liquidato con criterio equitativo”.
    1.2. L’illustrazione passa, poi, a riprodurre la motivazione con cui la Corte partenopea ha rigettato il primo motivo di appello, scrivendo quanto segue:
    “Come già posto in evidenza dal Tribunale, il consulente tecnico d’ufficio nominato in primo grado ha chiaramente rappresentato che non sussistono lesioni né postumi conseguenti all’intervento chirurgico di stabilizzazione della spalla sinistra e che inoltre a seguito dell’intervento chirurgico predetto non sono derivate lesioni che possano determinare invalidità permanente né temporanea a carico dell’originaria parte attrice e ancora che l’intervento chirurgico in questione è stato correttamente eseguito, così come può evincersi dall’esame clinico della paziente e dalla lettura della cartella clinica e della descrizione dello stesso intervento. Tali valutazioni appaiono ampiamente motivate e pienamente condivisibili anche da parte di qu3sto Collegio, dovendo altresì escludersi che nella fattispecie vi sia materia per la rinnovazione della consulenza tecnica d’ufficio svolta in primo grado”.
    1.3. Si procede, poi, a riprodurre le conclusioni del c.t.u. nominato dal Tribunale, che – per quanto in questa sede interessa – risultano avere il seguente tenore: “a) non sussistono lesioni postume all’intervento chirurgico di stabilizzazione della spalla sinistra; b) dall’anamnesi non si sono evidenziate altri precedenti morbosi che potessero influenzare il risultato dell’intervento chirurgico; c) a seguito dell’intervento non sono derivate lesioni che possono determinare una invalidità permanente; (…) f) anche se l’intervento è stato correttamente eseguito, così come si evince dall’esame clinico della paziente e dalla lettura della descrizione dello stesso intervento, dobbiamo dire che l’intervento eseguito non era adeguato alle condizioni dell’attore (sic) al momento dell’intervento stesso, tenendo conto che i normali criteri diagnostici necessari e sufficienti per l’instabilità anteriore di spalla non traumatica avrebbero dovuto indirizzare verso un trattamento di riabilitazione che avrebbe dovuto essere di preparazione all’intervento”. La consulenza tecnica è detta depositata nella produzione di questo grado come documento n. 6.
    1.4. Dopo avere rilevato che il Tribunale aveva motivato il rigetto della domanda, pur avendo ravvisato nella condotta del personale medico della struttura sanitaria una colpa professionale, si riproduce, poi, la motivazione in parte qua resa dal Tribunale, che è nei seguenti termini: “nella specie non risulta essere stati effettuati né prescritti all’attrice trattamenti di riabilitazione di preparazione dell’intervento chirurgico o successivi ad essi (cfr. le conclusioni del ctu e la “cartella di dimissione” dalla clinica, nella quale si legge solo la prescrizione di trattamento farmacologico ed il consiglio dell’uso di tutori). Ebbene, può condividersi la conclusione del ctu (immune da vizi procedurali e logici e confortata dai necessari accertamenti) secondo cui l’intervento chirurgico risulta essere “stato perfettamente eseguito” e che non sussistono lesioni postume all’intervento chirurgico”, tanto meno “lesioni che possono determinare una invalidità permanente” (…). Tuttavia, non può non sottolinearsi l’inidoneità della complessiva cura della paziente, essendo evidente, e rimarcato dall’ausiliario del giudice, che l’intervento non era adeguato alle condizioni dell’attrice, in quanto non preceduto da idoneo trattamento preparatorio né è stato seguito da necessario trattamento di riabilitazione”. La sentenza di primo grado viene indicata come presente nelle produzioni di grado di appello.
    1.5. Dopo tali ampie riproduzioni, le ragioni a sostegno del motivo sono svolte in questi termini:
    a) la decisione impugnata, adagiandosi su quella di primo grado, avrebbe violato l’art. 1176 cod. civ., perché avrebbe “omesso di considerare che il medico, e lo specialista in particolare, è tenuto a fornire non una qualsiasi prestazione bensì una prestazione qualificata in considerazione del suo grado di specializzazione e abilità tecnico-scientifica ed in questo contesto la sua prestazione”, al contrario di come avrebbe argomentato la Corte territoriale, “non deve valutarsi considerando un risalente indirizzo che qualificava la prestazione del medico e quella dei professionisti in genere come obbligazione di soli mezzi e non di risultato (Cass. n. 8826 del 2007)”;
    b) da tanto conseguirebbe che la corretta esecuzione dell’intervento per come ritenuta dal c.t.u., in presenza di insuccesso avrebbe dovuto considerarsi determinativa di una “responsabilità da insuccesso per il mancato conseguimento del risultato sperato (…) ove il professionista ovvero la struttura sanitaria non dimostri che l’insuccesso dell’intervento è stata causato da impedimento non prevedibile e superabile (art. 1218 c.c.), con la diligenza professionale contemplata dal’art. 1176 c.c.”;
    c) erroneamente sarebbe stato affermato dai giudici di merito “che l’intervento è stato correttamente eseguito (…) anche se non è conseguito alla paziente alcun risultato”, mentre “Io stato di salute inalterato a seguito dell’intervento determina un giudizio di inutilità dell’intervento con tutte le conseguenze di natura patrimoniale e non patrimoniale dovute alla persistenza della patologia. Ingiustamente la Corte d’Appello, nel riportarsi alla decisione del Tribunale, non ha ravvisato i danni conseguenti all’insuccesso dell’intervento “né i danni di carattere fisico e psicologico spese e sofferenza patita, conseguenze psicologiche dovute alla persistenza della patologia dalla prospettiva di subire una nuova operazione” (Cass. 8826 del 13/4/2007), limitando il suo esame alla sussistenza di “lesioni e postumi conseguenti all’intervento chirurgico”.
    2. Il motivo è fondato.
    2.1. In via preliminare si rileva che sono prive di pregio le eccezioni di inammissibilità, formulate riguardo ad esso dalla resistente.
    In primo luogo, il motivo, a differenza di quanto sostiene la resistente, pone una quaestio iuris e non una quaestio facti, riconducibile al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ.. Vi si lamenta che la Corte territoriale abbia omesso di riconoscere l’esistenza di danno risarcibile, dando rilievo soltanto alla circostanza che l’esecuzione dell’intervento, in quanto avvenuta correttamente, non aveva determinato un peggioramento dello stato di salute della ricorrente e, quindi, una sua rilevanza anche causativa di un danno patrimoniale, omettendo, invece, di considerare che l’intervento stesso si era però pacificamente rivelato inutile e che, proprio per tale inutilità, la conseguente incidenza sulla sfera personale della ricorrente proprio perciò era da considerare foriera di danni.
    Lo scrutinio del motivo è, d’altro canto, possibile confrontando la sua illustrazione con la motivazione della sentenza impugnata, mentre sono state riprodotte la consulenza e la sentenza di primo grado, sicché è priva di pregio l’evocazione del principio di autosufficienza.
    La sollecitazione espressa dal motivo, d’altro canto, proprio perché pone una questione di puro diritto, non involge affatto un riesame del merito, ma chiede alla Corte di valutare se, con riferimento al profilo che si dice non considerato, la Corte territoriale ha male applicato i principi sulla responsabilità sanitaria.
    2.2. Le ragioni di fondatezza del motivo si configurano, considerando il rilievo del dato pacifico – ritenuto dal c.t.u. in primo grado, condiviso dal giudice di primo grado, e, quindi, anche da quello della sentenza impugnata – che, per usare le parole del c.t.u. “anche se l’intervento (era) stato correttamente eseguito, così come si evince(va) dall’esame clinico della paziente e dalla lettura della descrizione dello stesso intervento, (…) l’intervento eseguito non era (stato) adeguato alle condizioni dell’attrice al momento dell’intervento stesso, tenendo conto che i normali criteri diagnostici necessari e sufficienti per l’instabilità anteriore di spalla non traumatica avrebbero dovuto indirizzare verso un trattamento di riabilitazione che avrebbe dovuto essere di preparazione all’intervento”.
    Si deve notare che questo dato, già condiviso, come si è visto, dal primo giudice, lo è stato anche da parte della Corte territoriale, sebbene non nella motivazione riportata nell’illustrazione del motivo in esame e sopra riportata, bensì nella motivazione con cui è stato rigettato il secondo motivo di gravame, con cui, si dice nella sentenza, l’appellante aveva lamentato la ingiusta mancata inclusione del danno da chance nella domanda di riconoscimento di liberazione di tutti danni così come formulata in primo grado.
    Si legge, infatti, nella sentenza impugnata quanto segue: “al riguardo osserva il Collegio che il primo giudice, pur ritenendo l’intervento chirurgico eseguito a regola d’arte, ha singolarmente ritenuto, collegandosi ad alcune considerazioni svolte dal consulente tecnico d’ufficio, (…) che, al di là dell’intervento chirurgico la prestazione sanitaria nel suo complesso non sarebbe stata adeguata alle condizioni dell’attrice, in quanto non preceduta da un idoneo trattamento preparatorio né seguita da un necessario trattamento di riabilitazione”.
    Ebbene, l’indicato dato pacifico evidenzia che la ricorrente venne sottoposta ad un intervento chirurgico e, dunque, ad una ingerenza sulla propria sfera psico-fisica, in mancanza delle condizioni di preparazione necessarie per il successo dell’intervento, cioè per la rimozione della patologia, cui l’intervento doveva essere funzionale, e senza che, dopo la sua esecuzione, si prescrivesse la terapia riabilitativa parimenti necessaria per il suo successo.
    A causa di questo duplice comportamento omissivo, l’esecuzione dell’intervento è risultata inutile, nonostante la correttezza della tecnica impiegata per eseguirlo, e ciò è stato percepito sia dal primo giudice che dal secondo, i quali vi hanno anche ravvisato una condotta di inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria.
    I giudici di merito, però, pur avendo ravvisato una condotta inadempiente, non l’hanno esattamente apprezzata ai fini della causazione del danno.
    Hanno dato rilievo solo alla circostanza che non era peggiorata la situazione patologica su cui l’intervento era stato eseguito e al fatto che, pertanto, mancava un danno alla sfera fisica della ricorrente, sotto il profilo di una diminuzione della sua condizione fisica rispetto a quella che essa, a causa della limitazione derivante dalla patologia, aveva prima dell’intervento (danno non patrimoniale alla persona quanto alla sfera dell’integrità fisica), ed un danno consequenziale alla capacità patrimoniale della medesima (in quanto correlata alla condizione fisica pregressa all’intervento e gravata dalla patologia).
    Ma in tal modo hanno del tutto trascurato che l’esecuzione dell’intervento, pur corretta nelle sue modalità, a cagione del comportamento omissivo preparatorio e di quello successivo inerente alla prescrizione della riabilitazione, si era concretata in una ingerenza nella sfera psico-fisica della F. del tutto inutile e come tale priva di giustificazione, perché oggettivamente inidonea e non finalizzata all’eliminazione della patologia. E, dunque, del tutto priva di corrispondenza alla lex artis sanitaria riguardo alla tipologia di intervento eseguita e, pertanto, non considerabile come condotta di adempimento corretto dell’obbligazione assunta dalla struttura.
    Obbligazione che comprendeva certamente, per quanto accertato dal c.t.u. e condiviso dagli stessi giudici di merito, sia l’esecuzione delle attività preparatorie indispensabili per la riuscita dell’intervento sia l’esecuzione delle attività riabilitative o la prescrizione alla F. di doverle eseguire.
    La condotta di inadempimento ravvisabile in questi due comportamenti omissivi ha determinato un c.d. danno evento, rappresentato dall’essersi verificata un’ingerenza nella sfera psico-fisica della F. del tutto ingiustificata e non giustificata dal consenso da essa data all’intervento, che, evidentemente, ineriva ad un’esecuzione conforme alla lex artis, in quanto comprendente le condotte omesse, attesa la loro indefettibilità per la consecuzione della guarigione. In tal modo, ex ante rispetto all’intervento, cioè all’ingerenza, la guarigione non appariva in alcun modo verificabile, mentre l’intervento era stato richiesto per conseguirla.
    L’intervento, configurandosi come votato all’insuccesso, è risultato inutile e, dunque, privo di giustificazione, così realizzando una lesione per ingerenza sulla sfera psico-fisica della F. del tutto ingiustificata.
    Tale lesione si è concretata certamente in un danno c.d. conseguenza, che si identifica:
    a) sia nella menomazione delle normali implicazioni dell’agire della persona e, quindi, nella relativa sofferenza per la detta privazione, per tutto il tempo preparatorio dell’intervento, durante quello necessario per la sua esecuzione e durante quello occorso per la fase postoperatoria: è palese che, per il tempo della durata di questi accadimenti, la F. si è trovata a subire menomazioni al suo agire, derivanti dall’ingerenza sulla sua persona, che si sono concretate, per la loro attitudine limitativa delle normali esplicazioni dell’agire, in una invalidità totale e/o parziale e, dunque, come tali da esse si debbono considerare come danno non patrimoniale alla persona;
    b) sia nella sofferenza notoriamente ricollegabile alla successiva percezione dell’esito non risolutivo dell’intervento: sofferenza che, alla stregua delle note sentenze delle Sezioni Unite c.d. di San Martino, si concretò anch’essa in lesione della sfera psico-fisica della F. .
    L’esistenza di questi danni-conseguenza è stata illegittimamente negata e, pertanto, la sentenza è erronea, là dove non li ha riconosciuti e non ha proceduto alla loro liquidazione e quantificazione.
    Il motivo è, pertanto, accolto sulla base del seguente principio di diritto: “in tema di responsabilità sanitaria, qualora un intervento operatorio, sebbene eseguito in modo conforme alla lex artis e non determinativo di un peggioramento della condizione patologica che doveva rimuovere, risulti, all’esito degli accertamenti tecnici effettuati, del tutto inutile, ove tale inutilità sia stata conseguente all’omissione da parte della struttura sanitaria dell’esecuzione dei trattamenti preparatori a quella dell’intervento, necessari, sempre secondo la lex artis, per assicurarne l’esito positivo, nonché dell’esecuzione o prescrizione dei necessari trattamenti sanitari successivi, si configura una condotta della struttura che risulta di inesatto adempimento dell’obbligazione. Essa, per il fatto che l’intervento si è concretato un una ingerenza inutile sulla sfera psico-fisica della persona, si connota come danno evento, cioè lesione ingiustificata di quella sfera, cui consegue un danno-conseguenza alla persona di natura non patrimoniale, ravvisabile sia nella limitazione e nella sofferenza sofferta per il tempo occorso per le fasi preparatorie, di esecuzione e postoperatorie dell’intervento, sia nella sofferenza ricollegabile alla successiva percezione della inutilità dell’intervento”.
    Il giudice di rinvio procederà a decidere applicando tale principio.
    Inoltre, è palese che, ove le allegazioni e le risultanze probatorie esistenti già in atti, evidenziassero che durante la fase preparatoria, di esecuzione e postoperatoria, la F. avesse subito danni patrimoniali in ragione di una invalidità temporanea ricollegata a tali attività, il giudice di rinvio dovrà tenerne conto. La stessa cosa dicasi di eventuali ulteriori danni patrimoniali ricollegabili all’ingerenza inutilmente subita, siccome apprezzabile come “tempo perso” per intervenire risolutivamente.
    3. Con il secondo motivo si denuncia “violazione degli artt. 1223, 2059 e 2043 c.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. – ingiusta ed illegittima esclusione del danno da chance dalla classificazione dei dani in danni patrimoniali e non patrimoniali come stabilito dalla Suprema Corte di Cassazione”.
    Sul presupposto che nell’atto di appello era stata chiesta la liquidazione del danno da perdita di chance, la cui sussistenza era stata accertata dal primo giudice, ma non ritenuta liquidabile perché a suo dire non era stato chiesto quel danno, mentre esso doveva reputarsi compreso nell’ampia formula di “risarcimento di tutti i danni” “conseguenti alla omessa prestazione sanitaria di preparazione all’operazione di stabilizzazione della spalla, oltreché successivo a questa per la omessa gravemente colposa non prescritta cura riabilitativa”, si critica la motivazione della sentenza impugnata, là dove essa ha rigettato l’appello così motivando: “per quanto riguarda la “ritenuta mancata inclusione” del danno da chance nella domanda di riconoscimento in liquidazione dei danni proposta in primo grado, l’appellante sostiene che, nell’ambito della domanda, così come proposta in primo grado nei termini riportati in narrativa, avrebbe dovuto ritenersi compresa anche la richiesta di liquidazione del danno da perdita di chance. Anche tale doglianza è infondata. La S.C. ha avuto modo di chiarire, sullo specifico punto, che la perdita per il paziente della chance di conseguire un risultato utile in conseguenza di una prestazione sanitaria, configura una voce di danno che va commisurato alla perdita della possibilità di conseguire un risultato positivo e non alla mera perdita del risultato stesso e che la relativa domanda è comunque domanda diversa rispetto a quella di risarcimento del danno da mancato raggiungimento del risultato sperato (Cass. n. 4400/2004)”.
    3.1. Il motivo è fondato nei termini che seguono.
    Il principio di diritto di cui a Cass. n. 4400 del 2004, pur confermato da Cass. n. 21245 del 2012, è stato successivamente superato da Cass. n. 7193 del 2015, secondo cui: “In tema di responsabilità civile, la domanda di risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non, derivanti da un illecito aquiliano, esprime la volontà di riferirsi ad ogni possibile voce di danno, a differenza di quella che indichi specifiche e determinate voci, sicché, pur quando in citazione non vi sia alcun riferimento, si estende anche al lucro cessante (nella specie, perdita di “chance” lavorativa), la cui richiesta non può, pertanto, considerarsi domanda nuova, come tale inammissibile”.
    Il Collegio intende dare continuità a tale principio di diritto, che correttamente si rifiuta di considerare come una domanda diversa, l’invocazione del danno da perdita di chance, essendo tale perdita solo una componente dell’unico diritto al risarcimento del danno insorto dall’illecito e bastando la formulazione con cui nella domanda si chieda il risarcimento di tutti i danni a comprenderlo, altro essendo il problema dell’individuazione e, quindi, dell’allegazione dei fatti costitutivi di questa tipologia di danni, che, evidentemente, possono e debbono essere specificamente allegati nell’atto introduttivo, ma anche, in una situazione di incertezza, emergere dall’espletamento dell’istruzione, specie se avvenuta mediante consulenza tecnica.
    La Corte territoriale nella sua motivazione ha dato rilievo al principio di diritto risalente alla sentenza del 2004 e, dunque, per tale ragione ha errato.
    D’altro canto, è vero che nella sua motivazione ha, poi, osservato che “nella fattisp2cie, con la sua citazione introduttivo del presente giudizio, l’attuale appellante non ha fatto alcun riferimento neppure in via alternativa o subordinata al danno da perdita di chance, sicché correttamente il tribunale ha escluso di poter prendere in esame la domanda di risarcimento del danno subito dalle specifico profilo”.
    Senonché, tale affermazione risulta dipendente dall’applicazione del suddetto principio di diritto ed evidenzia solo che è stata censurata la mancanza di un espresso riferimento nella citazione introduttiva di un riferimento alla chance, che, dunque, avrebbe dovuto essere aggiuntivo alla richiesta di tutti i danni.
    L’affermazione, non considerata direttamente dalla ricorrente, non sottende, tuttavia, o almeno non in modo chiaro, che la prospettazione della citazione in ordine alla narrazione dei fatti palesasse allegazioni di circostanze evidenziatrici di danno da perdita di chance, come tali qualificabili dal giudice. E nemmeno si sa, d’altro canto, se la consulenza tecnica le avesse fatte emergere.
    In tale situazione il relativo accertamento competerà al giudice di rinvio.
    4. Con il terzo motivo si denuncia “violazione dell’art. 345 e 196 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. – negata ammissibilità del deposito della cartella clinica relativa al secondo intervento chirurgico subito dalla ricorrente in data 14/12/2009 omessa ingiusta rinnovazione delle indagini mediche – omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti – in relazione all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c.”.
    La denunciata violazione sarebbe stata commessa dalla Corte territoriale con la seguente motivazione, che si coglie nell’incipit dei “motivi della decisione”: “rileva innanzitutto il Collegio che la parte appellante deve formulare tutte le sue censure con l’atto d’appello e nulla può giungere nel prosieguo del giudizio perché, in forza della regola della specificità dei motivi, con tale atto consuma definitivamente il diritto di impugnazione, fissando il limite di devoluzione della controversia in sede di gravame (Cass. 11386/1999; Cass. 578/1993). Le comparsa conclusionali, in particolare, hanno solo bisogno di illustrare le conclusioni già precisate e quindi motivi di appello già proposti e, pertanto, non possono contenere motivi o argomenti di impugnazione nuovi o riferiti a fatti diversi o a nuovi documenti né, rispetto a questi, se proposti, può ipotizzarsi un’accettazione del contraddittorio ad opera delle controparti (cfr. ex plurimis: Cass. 982/1989; Cass. 1584 1987). Da ciò si desume che, poiché il mezzo (la comparsa conclusionale) non è idonea a contenere altro che l’illustrazione dei motivi di appello già presentati, ove con detta comparsa conclusionale siano stati introdotti nuovi motivi o nuove domande, non è necessaria neppure un’espressa statuizione di inammissibilità per novità degli stessi, potendo (e anzi dovendo) il giudice limitarsi ad ignorarle senza con ciò incorrere alla violazione dell’articolo 112 c.p.c. (Cass. 11175/2002; Cass. 16582/2005; Cass. 5478/2006)”.
    Vi si deduce che con tale motivazione la Corte territoriale avrebbe negato l’ammissibilità della produzione cartella clinica dell’Ospedale di (OMISSIS) attestante il secondo risolutivo intervento subito dalla ricorrente nel dicembre del 2009. La produzione era stata effettuata con la conclusionale del 19 ottobre 2012 e la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare che la data di formazione del documento era successiva alla scadenza del termine utile per il deposito dei documenti e non ne avrebbe valutato “l’utilità e la indispensabilità ai fini della decisione (…) per la sussistenza di un danno diverso da quello per perdita di chance di guarigione”.
    4.1. Il motivo è inammissibile.
    Che con la motivazione sopra riportata la Corte territoriale abbia inteso riferirsi alla produzione della cartella clinica non lo si comprende in alcun modo, dato che essa non vi fa alcun riferimento e considerato che, se è vero che ragiona genericamente anche di documenti, prosegue alludendo all’essere deputata la conclusionale ad illustrare s”lo i motivi già presentati. Non solo: tutti i precedenti citati riguardano l’introduzione di motivi nuovi e non le nuove produzioni documentali.
    In tale situazione, l’assoluta mancanza di riferimenti alla cartella, coniugata con il riferimento ai motivi, induce a ritenere che in alcun modo la Corte partenopea si sia occupata di considerare se la cartella si potesse considerare producibile. In pratica, la motivazione di cui si è detto sembra alludere ad un problema di novità di motivi, come, del resto, rivela il riferimento all’art. 112 cod. proc. civ..
    La questione della ritualità della produzione resterà esaminabile dal giudice di rinvio.
    Quanto osservato rende irrilevante anche in questo caso l’eccezione di inammissibilità formulata dalla resistente per difetto di a utosufficienza.
    5. Conclusivamente, sono accolti per quanto di ragione il primo ed il secondo motivo, è dichiarato inammissibile il terzo. La sentenza è cassata in relazione alle ragioni di accoglimento dei primi due motivi, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli, comunque in diversa composizione. Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo ed il secondo motivo di ricorso. Dichiara inammissibile il terzo. Cassa la sentenza in relazione e rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Napoli, comunque in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.

Con riferimento al profilo professionale dell’ostetrico – come delineati dal D.M. n.740/1999, modificato con la L. n. 42/1998 e più puntualmente disciplinato dalla L. n. 251/2000 – e per quanto concerne in particolare l’assistenza nel corso del parto, nei limiti di ciò che qui interessa, è di sua competenza la diagnosi delle anomalie del travaglio di parto con richiesta di intervento dello specialista; l’assistenza e cura alla partoriente affetta da patologia ostetrica, nelle distocie del parto; la pratica delle inderogabili misure di emergenza in assenza del medico.
Del tutto in linea con il suo profilo professionale, dunque, l’ostetrico era in sala parto ma non poteva compiere alcuna manovra, di spettanza del medico presente.
5. Un secondo aspetto da esaminare – pure contestato al V. come condotta colpevole – attiene al riscontro delle anomalie del travaglio di parto ed al ritardo nella richiesta di intervento della ginecologa: secondo i giudici di merito l’imputato non aveva correttamente interpretato le alterazioni del tracciato cardiotocografico, ossia i segnali di allarme, dipesi, come appurato durante il parto, da un giro di cordone ombelicale a bandoliera, e soltanto alle ore 1.10 aveva avvisato il medico di guardia. Questo in base alle annotazioni scarse riportate sul diario del travaglio attivo, compilato in maniera incompleta.
5.1. Ritiene questo Collegio che la condotta colposa attribuita al V. non sussista, come pure non si ravvisa la causalità della condotta rispetto alle lesioni procurate al feto al momento della nascita.
Risulta infatti che alle 22.20 era stato somministrato alla R. un primo bolo analgesico epidurale; alle ore 23.50 era stata effettuata una seconda visita ginecologica; alle 24.00 era stato somministrato il secondo bolo analgesico epidurale; alle ore 1.10 era stata chiamata la ginecologa; le alterazioni del tracciato cardiotocografico di cui si discute avevano avuto inizio alle ore 1.18, secondo quanto accertato in dibattimento (pag.11 della sentenza di appello).
Un’analisi attenta di questi dati orari consente allora di affermare con certezza non solo che la ginecologa aveva seguito il travaglio somministrando due dosi di analgesico ed effettuando una visita, e dunque aveva potuto visionare di persona l’andamento del tracciato, ma che era già da qualche minuto presente in sala parto rispetto al momento in cui era stato riscontrato “il segnale di allarme”, ovvero “il segnale di patologia” (come lo ha definito il consulente prof. A. ).
Una volta intervenuta in sala parto, la dott. T. aveva compiuto le scelte a praticato le manovre di sua spettanza, rivelatesi poi imperite.
Il V. non procedette in ritardo all’avviso e comunque le lesioni subite alla nascita da N. dipesero unicamente dalla errata manovra di estrazione del feto, manovra compiuta dal medico.
6. Per tali considerazioni la sentenza di condanna del V. va annullata senza rinvio per non aver commesso il fatto, con revoca delle statuizioni civili nei confronti del detto imputato.
7. A diverse conclusioni deve pervenirsi con riferimento alla condotta della T. , stante la infondatezza dei motivi di ricorso.
7.1. Con motivazione del tutto corretta e congrua la Corte di Milano ha fatto proprie le conclusioni cui erano pervenuti i consulenti del P.M., della parte civile ed i consulenti nominati nel giudizio per il risarcimento dei danni subiti dal minore, i quali tutti avevano concordemente individuato la causa delle lesioni dapprima nella applicazione intempestiva ed inopportuna della ventosa ostetrica al medio scavo pelvico, che aveva negativamente interferito nella insorgenza della distocia di spalla, e quindi nella incongrua ed eccessiva trazione sul collo da cui era esitata la lesione del plesso brachiale. I giudici di appello hanno quindi condiviso la valutazione del Tribunale secondo cui le manovre di cui si discute, secondo la letteratura scientifica e lo stesso protocollo adottato al (…), avrebbero dovuto essere eseguite con modalità del tutto diverse da quelle adottate e ciò indipendentemente dalla urgenza in cui ci si trovava ad operare, urgenza peraltro determinata dalla scelta errata di non praticare un parto cesareo.
Su quest’ultimo annotazione si osserva che la scelta del medico di non ricorrere ad una parto chirurgico non ha formato oggetto di specifica contestazione di addebito colposo, tuttavia è evidente che, una volta operata la scelta di procedere nel parto vaginale, doveva essere correttamente governata l’urgenza dovuta alla necessità, stante la sofferenza risultante dal tracciato, di accelerare l’estrazione del corpo fetale, di cui era stata già espulsa la testa. Ed è proprio nel governo della urgenza che la ginecologa ha dimostrato la sua imperizia.
7.2. La Corte, sempre riportandosi alle relazioni dei detti consulenti, ha poi escluso che il giro del cordone ombelicale a bandoliera avesse avuto influenza ai fini della causazione delle lesioni.
Anche sul punto la doglianza della ricorrente T. è del tutto infondata.
In tema di prova scientifica, non spetta alla Corte di legittimità stabilire la maggiore o minore attendibilità scientifica delle acquisizioni esaminate dal giudice di merito e, quindi, se la tesi accolta sia esatta, ma solo se la spiegazione fornita sia razionale e logica; essa, infatti, non è giudice del sapere scientifico ed è solo chiamata a valutare la correttezza metodologica dell’approccio del giudice di merito al sapere tecnico scientifico, che riguarda la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all’affidabilità delle informazioni utilizzate ai fini della spiegazione del fatto. Ne deriva che il giudice di legittimità non può operare una differente valutazione degli esiti di una consulenza, trattandosi di un accertamento in fatto, insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato (Sez.5, 16.2.2015, n. 6754).
Peraltro il giudice di merito, se ha indicato esaurientemente le ragioni del proprio convincimento, non è tenuto a rispondere in motivazione a tutti i rilievi del consulente tecnico della difesa, in quanto la consulenza tecnica costituisce solo un contributo tecnico a sostegno della parte e non un mezzo di prova che il giudice deve prendere necessariamente in esame in modo autonomo (Sez.5, 13.10.2014, n.42821): nella specie i giudici di Milano hanno invece valutato la possibile ipotesi alternativa proposta dalla difesa, di lesioni conseguite alla pressione esercitata dal cordone a bandoliera, ma l’hanno esclusa, non già sposando in maniera acritica le differenti conclusioni cui erano pervenuti i consulenti dell’accusa e della parte civile, come si sostiene nell’odierno ricorso, ma con adeguate argomentazioni scientifiche immuni da censure e con richiamo anche a quanto affermato proprio nel protocollo per il trattamento della distocia di spalla in essere presso l’Ospedale (…) laddove si dice espressamente che “la lesione del plesso brachiale è sempre conseguenza di una trazione sul collo”.
8. Con l’ultimo motivo di gravame la ricorrente lamenta vizio di motivazione ed erronea applicazione della legge penale in ordine alla qualificazione, in termini di colpa non lieve, della ritenuta condotta lesiva, al fine di contrastare l’applicazione dei dettami dell’art.3 della Legge Balduzzi.
Anche questa censura non ha fondamento.
In tema di responsabilità medica, la limitazione della responsabilità in caso di colpa lieve prevista dall’art.3 D.L. 13 settembre 2012, n. 158 convertito nella legge 8 novembre 2012, n. 189, sicuramente opera per le condotte professionali conformi alle linee guida contenenti regole di perizia (Sez. 4, 8.7.2014, n. 7346; 20.3.2015, n. 16944; 27.4.2015, n. 26996): la Corte territoriale ne ha escluso la possibilità di applicazione ritenendo però, con motivazione corretta ed immune da vizi, che nel caso che ci occupa si è in presenza di una colpa non configurabile in termini di lieve entità, essendosi manifestato una macroscopico scostamento del comportamento tenuto rispetto a quello doverosamente esigibile dal medico specialista. Non si trattava di una manovra che implicasse la soluzione di problemi di particolare difficoltà, era sicuramente delicata ma rientrava nelle normali competenze del medico ginecologo, e dunque non può dirsi lieve la colpa della imputata che non è stata in grado di compierla ed anzi l’ha attuata in maniera così macroscopicamente incongrua da provocare al minore le gravissime lesioni per cui è processo.
9. L’accertata infondatezza dei motivi di ricorso avanzati dall’imputata non esime peraltro il Collegio dal rilievo dell’intervenuta prescrizione del reato per il quale si procede, trattandosi di un’ipotesi di lesioni colpose consumato alla data dell’8.9.2007.
Invero, in conformità dell’insegnamento ripetutamente impartito da questa Corte, in presenza di una causa estintiva del reato, l’obbligo del giudice di pronunciare l’assoluzione dell’imputato per motivi attinenti al merito si riscontra solo nel caso in cui gli elementi rilevatori dell’insussistenza del fatto, ovvero della sua non attribuibilità penale all’imputato, emergano in modo incontrovertibile, tanto che la relativa valutazione, da parte del giudice, sia assimilabile più al compimento di una constatazione, che a un atto di apprezzamento e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. Un., n. 35490/2009, Tettamanti).
 

Suprema Corte di Cassazione

sezione IV

sentenza 5 maggio 2016, n. 18780 

Presidente D’Isa

Ritenuto in fatto

  1. Con sentenza in data 3 marzo 2015 la Corte d’Appello di Milano confermava la pronuncia di condanna resa dal locale Tribunale nei confronti di T.B. e V.M. per aver cagionato a S.N. al momento della nascita lesioni personali gravissime, con esiti permanenti.
    1.1. Secondo i giudici di merito la T. , in qualità di medico ginecologo, ed il V. , quale infermiere ostetrico, in servizio presso l’Ospedale (omissis) , non avevano prestato adeguata assistenza al parto di R.A. , intervenendo in ritardo e con incongrua manovra di estrazione del feto. In particolare l’ostetrico non aveva interpretato correttamente le alterazioni del tracciato cardiotocografico (CTG), imputabile – come si seppe dopo il parto – ad un giro del cordone ombelicale a bandoliera, ed aveva avvertito il medico di guardia solo quando era ormai tardi per un intervento cesareo d’urgenza ed anche il parto naturale si presentava rischioso; entrambi gli imputati poi, con incongrue manovre mediche ed ostetriche, consistite nella applicazione intempestiva ed inopportuna della ventosa ostetrica al medio scavo pelvico, avevano cagionato al feto la distocia della spalla sinistra e lo strappamento del plesso brachiale, con avulsione delle radici dei nervi cervicali e del nervo toracico, da cui era derivata la perdita di funzionalità della mano sinistra.
    1.2. La Corte territoriale evidenziava, a sostegno della pronuncia di condanna, che nella letteratura scientifica la causa predominante delle lesioni al plesso brachiale dei lattanti, complicanze della distocia di spalla, era da individuarsi nella eccessiva trazione della testa fetale operata durante il parto e nella flessione laterale del collo nel tentativo di liberare la spalla anteriore, principio del resto affermato esplicitamente nel protocollo per il trattamento della distocia di spalla in essere presso l’ospedale (…). Le lesioni riportate da N. – secondo i consulenti del P.M. e della parte civile, le cui conclusioni erano state condivise dalla Corte – erano dunque derivate con certezza da un’errata manovra compiuta dopo l’espulsione della testa quando, nel tentativo di disincagliare la spalla anteriore, era stata operata una eccessiva trazione sul collo verso il basso. L’incertezza su chi avesse in pratica effettuato tale errata manovra, se il medico o l’ostetrico, era irrilevante, secondo i giudici, perché l’intera gestione del parto era avvenuta in èquipe senza che i componenti o il capo èquipe si fossero premurati di adeguare la loro condotta alle indicazioni del protocollo sul punto ovvero di controllare che gli altri vi si fossero adeguati. I consulenti avevano poi concordato sul fatto che in quel momento N. era esposto a gravissimi rischi fino ad un possibile esito fatale nel caso in cui non si fosse riusciti, in tempi bravissimi, ad ottenere l’espulsione del corpo fetale. Le complicanze più gravi correlate all’allungamento dell’intervallo di tempo tra l’espulsione della testa e quella del corpo erano infatti il danno cerebrale e la morte che, molto spesso, costituivano l’esito di una prolungata ipossia fetale: ciò perché dopo il disimpegno della testa fetale l’apporto di ossigeno al feto si riduce drasticamente per effetto della compressione placentare dell’utero semi svuotato sul torace del feto, che rende vani gli sforzi respiratori, nonché per lo spostamento della massa sanguigna verso il polo cefalico. Secondo la letteratura scientifica un feto normo ossigenato ha 4/5 minuti di tempo a disposizione dopo l’espulsione della testa per evitare un danno ipossico-ischemico. Nel caso in esame la testa era stata estratta con la ventosa alle ore 1.43 mentre il corpo fetale era stato espulso alle ore 1.55, circostanza che rende evidente come in quel frattempo si fosse creata una particolare concitazione e come l’urgenza di intervenire fosse stata affrontata dagli imputati con imperizia e senza il rispetto delle regole dell’arte medica, che avrebbe di contro dovuto imporre la corretta esecuzione della manovra di estrazione del corpo fetale senza esercitare quella eccessiva ed erronea trazione che aveva cagionato l’avulsione delle radici nervose del plesso brachiale. Specifica imperizia nell’arte ostetrica era stata poi dimostrata dal V. nell’aver erroneamente valutato, fin dall’inizio, le risultanze degli accertamenti strumentali in atto e segnatamente le alterazioni del tracciato cardiocotografico, il cui risultato non era stato riportato nella cartella di travaglio, così da sollecitare in ritardo l’intervento della dott. T. . A quel punto, considerato anche il fattore di rischio legato all’uso di ossitocina, il segnale di allarme riscontrabile almeno alle ore 1.18 imponeva o di intervenire all’1.20 con taglio cesareo ovvero di applicare la ventosa, ma ancora una volta la scorretta tenuta della cartella clinica non aveva consentito di capire se tale seconda condotta fosse effettivamente praticabile perché non era dato sapere se in quel momento la testa del feto – che alle 1.10 era a meno tre/meno due – fosse arrivata a zero, condizione questa indefettibile per l’applicazione della ventosa, mentre era certo, in base a quanto dichiarato dalla dott. T. , che era concretamente praticabile un taglio cesareo, posto che la sala operatoria era stata già preparata nella eventualità di un intervento, che la stessa R. chiedeva le venisse praticato e su cui non aveva ricevuto alcuna informazione. Di fatto, si era deciso di attendere nel mentre la paziente continuava a spingere, per arrivare sino alle ore 1.40 quando la testa del feto era certamente a zero per applicare la ventosa, in presenza di una “importante tachicardia” che imponeva, a quel punto con assoluta urgenza, per evitare gravi danni fetali, di effettuare l’unica scelta ancora possibile per tentare di accelerare il parto.
    1.3. A sostegno della pronuncia di condanna la Corte di Milano valorizzava ancora l’esito della consulenza espletata nel giudizio civile promosso per il risarcimento dei danni patiti dal minore, affidata ad uno specialista in ostetricia e ginecologia e ad un medico-legale, che aveva rilevato l’insorgenza della grave alterazione del tracciato cardiotocografico presente già alle ore 23.50 ed ancor di più alle ore 00.15 del giorno successivo, e l’impropria applicazione della ventosa ostetrica – effettuata per la presenza di un tracciato di allarme indicativo di sofferenza fetale, fortunatamente non esitata in esiti permanenti di cerebropatia tossica – con trazioni eccessive sulla testa-collo, da evitare in caso di distocia di spalla.
    1.4. Aderendo quindi alle conclusioni dei detti consulenti i giudici di appello ritenevano: che la brachicardia fetale avrebbe dovuto essere prontamente riconosciuta nella sua gravità e avrebbe dovuto indurre il personale ostetrico ad allestire prontamente una sala operatoria per effettuare il parto cesareo; che l’applicazione della ventosa ostetrica aveva negativamente interferito nella insorgenza della distocia di spalla; che di fronte ad una distocia di spalla era da ritenere incongrua e criticabile l’applicazione di una trazione sul collo fetale, mentre, per favorire il disimpegno e portare celermente e in sicurezza a termine il parto, si sarebbe dovuto procedere piuttosto alla frattura iatrogena della clavicola. Non vi era quindi motivo di dubitare dell’eziologia delle conseguenze patite dal piccolo N. , riferibili, sul piano causale all’improprio apporto professionale degli imputati, inadeguato a trattare il caso alla luce dei parametri di riferimento, secondo le attribuzioni spettanti e le mansioni operative avute, comunque operando in èquipe e rispondendo ciascuno del risultato comune prodotto per effetto della condotta altrui.
    1.5. La Corte disattendeva infine quanto argomentato dai consulenti della difesa, in maniera non coerente con gli elementi probatori acquisiti, circa la imprevedibilità della distocia della spalla, la corretta e tempestiva lettura del tracciato cardiotocografico, la ipotesi che la lesione del plesso brachiale si fosse verificata prima del parto per la presenza del cordone ombelicale a bandoliera, ed ancora che si fosse in presenza di una ipotesi di colpa lieve ai fini dell’applicazione della legge n.189 del 2012.
    2. Gli imputati hanno proposto un primo ricorso congiunto a mezzo del comune difensore, con cui censurano la sentenza impugnata per tre distinti motivi: carenza di motivazione, per avere i giudici di appello recepito acriticamente le argomentazioni del tribunale senza esaminare gli specifici motivi di gravame ed in particolare quanto sostenuto dai consulenti della difesa; erronea applicazione della legge penale in tema di colpa, atteso che gli imputati si erano attenuti alle linee guida ed attuato proprio il comportamento esigibile; vizio di motivazione e violazione di legge in relazione alla qualificazione della condotta in termini di colpa non lieve, al solo fine di contrastare l’applicazione dell’art. 3 della Legge Balduzzi.
    2.1. Con un secondo autonomo ricorso il solo V. , a mezzo di un nuovo difensore, nel ribadire la carenza di motivazione per l’omesso esame dei motivi di appello, ed ancora il vizio di motivazione e violazione di legge con riferimento al grado della colpa per escludere l’applicazione della legge Balduzzi, ha dedotto ad ulteriore motivo di doglianza il travisamento della prova con riferimento alla errata applicazione del principio dell’affidamento e della cooperazione nel delitto colposo: la Corte aveva ritenuto irrilevante chi avesse effettuato la manovra di estrazione del feto mentre era certo che era stata eseguita dal medico che, una volta giunto in sala parto, aveva eliminato la competenza professionale dell’ostetrico, che non aveva al momento alcuna possibilità di contrastare l’operato della ginecologa.
    2.2. Le parti civili hanno depositato memorie a confutazione delle ragioni di ricorso.

Considerato in diritto 

  1. L’impugnata sentenza deve essere annullata.
    2. Il primo rilievo che si impone è che le condotte degli imputati debbono essere vagliate separatamente, in base ai profili di colpa a ciascuno contestati e secondo l’apporto causale del comportamento del singolo rispetto all’evento lesivo, non essendo corretta in diritto la generica affermazione dei giudici di merito secondo la quale nel lavoro di èquipe ogni operatore risponde dell’operato comune dovuto alla condotta altrui.
    2.1. Questa Corte si è più volte pronunciata sulla responsabilità penale dei singoli componenti di una èquipe medica, stabilendo i seguenti principi. La responsabilità penale di ciascun componente di una èquipe medica per un evento lesivo occorso al paziente sottoposto ad intervento chirurgico non può essere affermata sulla base dell’accertamento di un errore diagnostico genericamente attribuito alla èquipe nel suo complesso, ma va legata alla valutazione delle concrete mansioni di ciascun componente, nella prospettiva di verifica, in concreto, dei limiti oltre che del suo operato, anche di quello degli altri (Sez.4, 9.4.2009, n. 19755). Nell’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all’osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico. Ne consegue che ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio. Né può invocare il principio di affidamento l’agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l’altrui condotta colposa, poiché allorquando il garante precedente abbia posto in essere una condotta colposa che abbia avuto efficacia causale nella determinazione dell’evento, unitamente alla condotta colposa del garante successivo, persiste la responsabilità anche del primo in base al principio di equivalenza delle cause, a meno che possa affermarsi l’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che deve avere carattere di eccezionalità ed imprevedibilità, ciò che si verifica solo allorquando la condotta sopravvenuta abbia fatto venire meno la situazione di pericolo originariamente provocata o l’abbia in tal modo modificata da escludere la riconducibilità al precedente garante della scelta operata (Sez.4, 26.11.2011, n.46824). Dunque, nei casi in cui alla cura del paziente concorrono, con interventi non necessariamente omologabili, più sanitari, l’accertamento del nesso causale rispetto all’evento verificatosi deve essere compiuto con riguardo alla condotta e al ruolo di ciascuno, non potendosi configurare una responsabilità di gruppo in base ad un ragionamento aprioristico (Sez.4, 8.7.2014, n.7346). Ciò perché in tema di causalità della colpa, quando la ricostruzione del comportamento alternativo lecito idoneo ad impedire l’evento deve essere compiuta nella prospettiva della interazione tra più soggetti, sui quali incombe l’obbligo di adempiere allo stesso dovere o a doveri tra loro collegati, la valutazione della condotta di colui che è tenuto ad attivare altri va valutata assumendo che il soggetto che da esso sarebbe stato attivato avrebbe agito correttamente, in conformità al parametro dell’agente “modello” (Sez.4, 2.7.2015, n.31244).
    2.2. Poiché nella specie si assume che l’evento lesivo sia conseguito ad attività poste in essere nel medesimo contesto temporale tra due soggetti, che operavano congiuntamente e ciascuno dei quali era titolare di un’autonoma posizione di garanzia, è necessario accertare se,e a quali condizionieciascun imputato, oltre ad essere tenuto per la propria parte al rispetto delle regole di cautela e delle leges artis previste con riferimento alle sue specifiche mansioni, debba essere tenuto anche a farsi carico delle manchevolezze dell’altro componente dell’èquipe o possa viceversa fare affidamento sulla corretta esecuzione dei compiti altrui. Vertendosi in tema di causalità commissiva, chi ha materialmente cagionato il danno ne risponderà in presenza di tutti gli elementi della fattispecie; il partecipe dell’èquipe, titolare di autonoma posizione di garanzia, e in posizione di subordinazione gerarchica rispetto al medico, potrà fare affidamento nell’operato di questi, sempre che non siano da lui riconoscibili le eventuali violazioni delle regole dell’arte medica.
    3. Per affrontare questa problematica bisogna partire dalla oggettiva circostanza, accertata in sede di merito, che fu la ginecologa sia ad applicare la ventosa sia ad eseguire la manovra di disimpegno della spalla finalizzata alla estrazione del feto, in presenza dell’ostetrico, come risulta incontestatamente dalle dichiarazioni della partoriente e del di lei marito presente al parto. A nulla rileva che il V. (secondo quanto si legge a pag. 15 della impugnata sentenza) avrebbe dichiarato che il tentativo fisiologico di disimpegno della spalla del neonato rientrava nelle manovre di sua competenza, in quanto l’accertamento della responsabilità per i danni derivati a N. non può basarsi su una generica competenza dell’ostetrico e sui profili professionali attribuiti a tale ruolo dalle leggi sanitarie, ma esclusivamente sulle circostanze fattuali della condotta tenuta e sulla concreta possibilità di agire, in presenza del capo èquipe, con un comportamento salvifico.
    4. Ed allora deve escludersi che il V. – solo con la sua presenza in sala parto – abbia dato un contributo causale alla verificazione dell’evento lesivo, poiché fu la dott. T. ad applicare dapprima la ventosa e quindi ad eseguire con eccessiva forza la manovra di Mac Roberts per disincagliare la spalla: nessun comportamento era in quel contesto esigibile dall’ostetrico, che non era certo in grado di valutare né l’intensità della trazione esercitata dal medico sulla testa fetale ei dunque/la correttezza della manovra, né, tanto meno, di intervenire per correggerne l’errore ed evitare il danno.
    Con riferimento al profilo professionale dell’ostetrico – come delineati dal D.M. n.740/1999, modificato con la L. n. 42/1998 e più puntualmente disciplinato dalla L. n. 251/2000 – e per quanto concerne in particolare l’assistenza nel corso del parto, nei limiti di ciò che qui interessa, è di sua competenza la diagnosi delle anomalie del travaglio di parto con richiesta di intervento dello specialista; l’assistenza e cura alla partoriente affetta da patologia ostetrica, nelle distocie del parto; la pratica delle inderogabili misure di emergenza in assenza del medico.
    Del tutto in linea con il suo profilo professionale, dunque, l’ostetrico era in sala parto ma non poteva compiere alcuna manovra, di spettanza del medico presente.
    5. Un secondo aspetto da esaminare – pure contestato al V. come condotta colpevole – attiene al riscontro delle anomalie del travaglio di parto ed al ritardo nella richiesta di intervento della ginecologa: secondo i giudici di merito l’imputato non aveva correttamente interpretato le alterazioni del tracciato cardiotocografico, ossia i segnali di allarme, dipesi, come appurato durante il parto, da un giro di cordone ombelicale a bandoliera, e soltanto alle ore 1.10 aveva avvisato il medico di guardia. Questo in base alle annotazioni scarse riportate sul diario del travaglio attivo, compilato in maniera incompleta.
    5.1. Ritiene questo Collegio che la condotta colposa attribuita al V. non sussista, come pure non si ravvisa la causalità della condotta rispetto alle lesioni procurate al feto al momento della nascita.
    Risulta infatti che alle 22.20 era stato somministrato alla R. un primo bolo analgesico epidurale; alle ore 23.50 era stata effettuata una seconda visita ginecologica; alle 24.00 era stato somministrato il secondo bolo analgesico epidurale; alle ore 1.10 era stata chiamata la ginecologa; le alterazioni del tracciato cardiotocografico di cui si discute avevano avuto inizio alle ore 1.18, secondo quanto accertato in dibattimento (pag.11 della sentenza di appello).
    Un’analisi attenta di questi dati orari consente allora di affermare con certezza non solo che la ginecologa aveva seguito il travaglio somministrando due dosi di analgesico ed effettuando una visita, e dunque aveva potuto visionare di persona l’andamento del tracciato, ma che era già da qualche minuto presente in sala parto rispetto al momento in cui era stato riscontrato “il segnale di allarme”, ovvero “il segnale di patologia” (come lo ha definito il consulente prof. A. ).
    Una volta intervenuta in sala parto, la dott. T. aveva compiuto le scelte a praticato le manovre di sua spettanza, rivelatesi poi imperite.
    Il V. non procedette in ritardo all’avviso e comunque le lesioni subite alla nascita da N. dipesero unicamente dalla errata manovra di estrazione del feto, manovra compiuta dal medico.
    6. Per tali considerazioni la sentenza di condanna del V. va annullata senza rinvio per non aver commesso il fatto, con revoca delle statuizioni civili nei confronti del detto imputato.
    7. A diverse conclusioni deve pervenirsi con riferimento alla condotta della T. , stante la infondatezza dei motivi di ricorso.
    7.1. Con motivazione del tutto corretta e congrua la Corte di Milano ha fatto proprie le conclusioni cui erano pervenuti i consulenti del P.M., della parte civile ed i consulenti nominati nel giudizio per il risarcimento dei danni subiti dal minore, i quali tutti avevano concordemente individuato la causa delle lesioni dapprima nella applicazione intempestiva ed inopportuna della ventosa ostetrica al medio scavo pelvico, che aveva negativamente interferito nella insorgenza della distocia di spalla, e quindi nella incongrua ed eccessiva trazione sul collo da cui era esitata la lesione del plesso brachiale. I giudici di appello hanno quindi condiviso la valutazione del Tribunale secondo cui le manovre di cui si discute, secondo la letteratura scientifica e lo stesso protocollo adottato al (…), avrebbero dovuto essere eseguite con modalità del tutto diverse da quelle adottate e ciò indipendentemente dalla urgenza in cui ci si trovava ad operare, urgenza peraltro determinata dalla scelta errata di non praticare un parto cesareo.
    Su quest’ultimo annotazione si osserva che la scelta del medico di non ricorrere ad una parto chirurgico non ha formato oggetto di specifica contestazione di addebito colposo, tuttavia è evidente che, una volta operata la scelta di procedere nel parto vaginale, doveva essere correttamente governata l’urgenza dovuta alla necessità, stante la sofferenza risultante dal tracciato, di accelerare l’estrazione del corpo fetale, di cui era stata già espulsa la testa. Ed è proprio nel governo della urgenza che la ginecologa ha dimostrato la sua imperizia.
    7.2. La Corte, sempre riportandosi alle relazioni dei detti consulenti, ha poi escluso che il giro del cordone ombelicale a bandoliera avesse avuto influenza ai fini della causazione delle lesioni.
    Anche sul punto la doglianza della ricorrente T. è del tutto infondata.
    In tema di prova scientifica, non spetta alla Corte di legittimità stabilire la maggiore o minore attendibilità scientifica delle acquisizioni esaminate dal giudice di merito e, quindi, se la tesi accolta sia esatta, ma solo se la spiegazione fornita sia razionale e logica; essa, infatti, non è giudice del sapere scientifico ed è solo chiamata a valutare la correttezza metodologica dell’approccio del giudice di merito al sapere tecnico scientifico, che riguarda la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all’affidabilità delle informazioni utilizzate ai fini della spiegazione del fatto. Ne deriva che il giudice di legittimità non può operare una differente valutazione degli esiti di una consulenza, trattandosi di un accertamento in fatto, insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato (Sez.5, 16.2.2015, n. 6754).
    Peraltro il giudice di merito, se ha indicato esaurientemente le ragioni del proprio convincimento, non è tenuto a rispondere in motivazione a tutti i rilievi del consulente tecnico della difesa, in quanto la consulenza tecnica costituisce solo un contributo tecnico a sostegno della parte e non un mezzo di prova che il giudice deve prendere necessariamente in esame in modo autonomo (Sez.5, 13.10.2014, n.42821): nella specie i giudici di Milano hanno invece valutato la possibile ipotesi alternativa proposta dalla difesa, di lesioni conseguite alla pressione esercitata dal cordone a bandoliera, ma l’hanno esclusa, non già sposando in maniera acritica le differenti conclusioni cui erano pervenuti i consulenti dell’accusa e della parte civile, come si sostiene nell’odierno ricorso, ma con adeguate argomentazioni scientifiche immuni da censure e con richiamo anche a quanto affermato proprio nel protocollo per il trattamento della distocia di spalla in essere presso l’Ospedale (…) laddove si dice espressamente che “la lesione del plesso brachiale è sempre conseguenza di una trazione sul collo”.
    8. Con l’ultimo motivo di gravame la ricorrente lamenta vizio di motivazione ed erronea applicazione della legge penale in ordine alla qualificazione, in termini di colpa non lieve, della ritenuta condotta lesiva, al fine di contrastare l’applicazione dei dettami dell’art.3 della Legge Balduzzi.
    Anche questa censura non ha fondamento.
    In tema di responsabilità medica, la limitazione della responsabilità in caso di colpa lieve prevista dall’art.3 D.L. 13 settembre 2012, n. 158 convertito nella legge 8 novembre 2012, n. 189, sicuramente opera per le condotte professionali conformi alle linee guida contenenti regole di perizia (Sez. 4, 8.7.2014, n. 7346; 20.3.2015, n. 16944; 27.4.2015, n. 26996): la Corte territoriale ne ha escluso la possibilità di applicazione ritenendo però, con motivazione corretta ed immune da vizi, che nel caso che ci occupa si è in presenza di una colpa non configurabile in termini di lieve entità, essendosi manifestato una macroscopico scostamento del comportamento tenuto rispetto a quello doverosamente esigibile dal medico specialista. Non si trattava di una manovra che implicasse la soluzione di problemi di particolare difficoltà, era sicuramente delicata ma rientrava nelle normali competenze del medico ginecologo, e dunque non può dirsi lieve la colpa della imputata che non è stata in grado di compierla ed anzi l’ha attuata in maniera così macroscopicamente incongrua da provocare al minore le gravissime lesioni per cui è processo.
    9. L’accertata infondatezza dei motivi di ricorso avanzati dall’imputata non esime peraltro il Collegio dal rilievo dell’intervenuta prescrizione del reato per il quale si procede, trattandosi di un’ipotesi di lesioni colpose consumato alla data dell’8.9.2007.
    Invero, in conformità dell’insegnamento ripetutamente impartito da questa Corte, in presenza di una causa estintiva del reato, l’obbligo del giudice di pronunciare l’assoluzione dell’imputato per motivi attinenti al merito si riscontra solo nel caso in cui gli elementi rilevatori dell’insussistenza del fatto, ovvero della sua non attribuibilità penale all’imputato, emergano in modo incontrovertibile, tanto che la relativa valutazione, da parte del giudice, sia assimilabile più al compimento di una constatazione, che a un atto di apprezzamento e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. Un., n. 35490/2009, Tettamanti).
    Ciò perché il concetto di evidenza, richiesto dal secondo comma dell’art. 129 c.p.p., presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara e obiettiva, da rendere superflua ogni dimostrazione, concretizzandosi così in qualcosa di più di quanto la legge richieda per l’assoluzione ampia, oltre la correlazione a un accertamento immediato (Sez. 4, 31.5.2013, n. 23680).
    Da ciò discende che, una volta sopraggiunta la prescrizione del reato, al fine di pervenire al proscioglimento nel merito occorre applicare il principio di diritto secondo cui positivamente deve emergere dagli atti processuali, senza necessità di ulteriore accertamento, l’estraneità dell’imputato a quanto allo stesso contestato, e ciò nel senso che si evidenzi l’assoluta assenza della prova di colpevolezza di quello, ovvero la prova positiva della sua innocenza, non rilevando l’eventuale mera contraddittorietà o insufficienza della prova che richiede il compimento di un apprezzamento ponderato tra le opposte risultanze (Sez. 6, 4.3.2014, n. 10284).
    Tanto deve ritenersi non riscontrabile nel caso di specie, avendo questa Corte positivamente accertato l’infondatezza di tutte le doglianze avanzate dalla odierna ricorrente avverso la sentenza di condanna pronunciata nei suoi confronti.
    10. Ai sensi del richiamato art. 129 c.p.p., la sentenza impugnata va allora annullata senza rinvio in relazione agli effetti penali per essere il reato contestato alla T. estinto per prescrizione.
    Il ricorso va invece rigettato ai fini civili.
    L’imputata va infine condannata in solido con il responsabile civile alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili per questo giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Annulla l’impugnata sentenza senza rinvio nei confronti di V.M. per non aver commesso il fatto, e nei confronti di T.B. , ai soli fini penali, per essere il reato estinto per prescrizione.
Rigetta il ricorso di T.B. ai fini civili.
Revoca le statuizioni civili nei confronti di V.M. .
Condanna T.B. , in solido con il responsabile civile, alla rifusione delle spese processuali in favore delle costituite parti civili che liquida per ciascuna di esse in Euro 2.500,00 oltre accessori come per legge.

 

 

Suprema Corte di Cassazione

sezione IV

sentenza 18 marzo 2016, n. 11641
Ritenuto in fatto

La parte civile C.L. ricorre avverso la sentenza di cui in epigrafe che, confermando quella di primo grado, ha rigettato l’appello proposto dalla stessa parte civile nei confronti della sentenza del GUP che aveva mandato B.G. assolto con la formula perché il fatto non sussiste dal reato di cui all’articolo 589 c.p.
L’addebito, formalizzato a seguito di imputazione coatta, concerneva la morte del paziente C. G., intervenuta per shock di tipo cardiogeno emopericardico in paziente con dissezione dei tratto ascendente dell’aorta.
La Corte di merito escludeva l’addebito di colpa formalizzato a carico dell’imputato, medico in servizio presso il pronto soccorso, apprezzando che questi aveva agito assolvendo ai propri compiti, allorquando, verificato lo stato del paziente e effettuati gli interventi previsti per la patologia cardiaca diagnosticata, ne aveva predisposto il ricovero nel reparto di cardiologia, per le cure dei caso.
Non era dipeso dal Bollino il fatto che il ricovero era stato disposto nel reparto di chirurgia per indisponibilità di letti.
In ogni caso, il decesso era intervenuto improvvisamente e con effetti immediati e non contrastabili in ragione di evento che ne aveva provocato il rapido dissanguamento interno, che avrebbe potuto essere contrastato – in ipotesi – solo con un intervento chirurgico immediato.
Peraltro, nessun addebito poteva essere elevato al medico del pronto soccorso.
Con il ricorso si censura la decisione proponendo doglianze sul comportamento dei medico, in particolare sotto il profilo dell’erroneità della diagnosi e dell’approccio terapeutico sostanziatosi nella somministrazione di farmaci antidolorifici. Ulteriore censura viene proposta con riferimento al mancato trasferimento in altra struttura, contestandosi sul punto anche le circostanze probatorie utilizzate per la giustificazione della condotta dei sanitario.
E’ stata depositata memoria difensiva nell’interesse dell’imputato con la quale sono state contestate le deduzione della parte ricorrente sostenendo la coerenza e la logicità delle argomentazioni della sentenza impugnata. Con la medesima memoria è stata sostenuta, preliminarmente, l’invalidità della procura speciale in calce al ricorso per cassazione in quanto recante firma di un soggetto diverso rispetto a quello conferente.

Considerato in diritto

L’eccezione di carattere preliminare afferente la validità della procura speciale, sollevata con la memoria difensiva nell’interesse dell’imputato, si palesa infondata, essendo evidente che si tratta di errore materiale.
Ciò premesso, il ricorso, per ampiamente argomentato, è infondato, a fronte di doppia conforme statuizione liberatoria, laddove risulta satisfattivamente spiegata l’assenza di colpa del sanitaria e esclusa la sussistenza del nesso eziologico tra la condotta di questi e l’evento lesivo.
Come è noto, in tema di responsabilità omissiva dei medico per la morte dei paziente, la verifica dell’esistenza del nesso di causalità tra la condotta omissiva dei sanitario e l’evento lesivo presuppone l’effettuazione del cosiddetto “giudizio controfattuale” diretto a stabilire se l’azione o le condotte positive ritenute doverose ed invece omesse, nel caso concreto, ove ipotizzate come poste in essere dall’imputato, sarebbero state idonee ad evitare l’evento od a ritardarne significativamente la sopravvenienza: tale verifica deve in concreto operarsi, in termini di ragionevole certezza (“alto grado di credibilità razionale” o “probabilità logica”), secondo tutte le circostanze che connotano il caso, e non già in termini di mera probabilità statistica pur rivelatrice di “serie ed apprezzabili probabilità di successo” per l’azione impeditiva dell’evento (cfr. Sezioni unite, 10 luglio 2002, Franzese).
La decisione gravata, in uno con quella di primo grado, ha rispettato questi principi, sia allorquando ha escluso i profili di colpa [per avere il medico dei pronto soccorso assolto ai propri doveri, anche provvedendo al trasferimento del paziente presso il reparto: non gli si poteva addebitare (‘indisponibilità dei letti in quello di cardiologia], sia soprattutto, e decisivamente, allorquando ha ricostruito la causa della morte in termini tali da recidere, in ossequio al necessario vaglio controfattuale, alcuna possibilità concreta di intervento da parte dell’imputato in grado di contrastare l’esito mortale della patologia.
Non va allora dimenticato che, ai fini della responsabilità penale per un reato colposo, non è sufficiente che risulti accertata la violazione di una regola cautelare, che essa si ponga in rapporto causale con l’evento prodottosi e che questo costituisca “concretizzazione del rischio” che la regola cautelare si prefigga di contrastare: è infatti necessario anche che l’evento risulti “evitabile” dalla condotta diligente che si è mancato di tenere (Sezione IV, 20 settembre 2012, Montanaro): ciò che nella specie è stato motivatamente escluso apprezzandosi la qualità della patologia mortale, le modalità di verificazione e la tempistica che ha portato il paziente alla morte.
Al rigetto del ricorso consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

i profili di colpa [per avere il medico dei pronto soccorso assolto ai propri doveri, anche provvedendo al trasferimento del paziente presso il reparto: non gli si poteva addebitare (‘indisponibilità dei letti in quello di cardiologia], sia soprattutto, e decisivamente, allorquando ha ricostruito la causa della morte in termini tali da recidere, in ossequio al necessario vaglio controfattuale, alcuna possibilità concreta di intervento da parte dell’imputato in grado di contrastare l’esito mortale della patologia.
Non va allora dimenticato che, ai fini della responsabilità penale per un reato colposo, non è sufficiente che risulti accertata la violazione di una regola cautelare, che essa si ponga in rapporto causale con l’evento prodottosi e che questo costituisca “concretizzazione del rischio” che la regola cautelare si prefigga di contrastare: è infatti necessario anche che l’evento risulti “evitabile” dalla condotta diligente che si è mancato di tenere (Sezione IV, 20 settembre 2012, Montanaro): ciò che nella specie è stato motivatamente escluso apprezzandosi la qualità della patologia mortale, le modalità di verificazione e la tempistica che ha portato il paziente alla morte.
Al rigetto del ricorso consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna della ricorrente al pagamento delle spese

Suprema Corte di Cassazione

sezione IV

sentenza 18 marzo 2016, n. 11641
Ritenuto in fatto

La parte civile C.L. ricorre avverso la sentenza di cui in epigrafe che, confermando quella di primo grado, ha rigettato l’appello proposto dalla stessa parte civile nei confronti della sentenza del GUP che aveva mandato B.G. assolto con la formula perché il fatto non sussiste dal reato di cui all’articolo 589 c.p.
L’addebito, formalizzato a seguito di imputazione coatta, concerneva la morte del paziente C. G., intervenuta per shock di tipo cardiogeno emopericardico in paziente con dissezione dei tratto ascendente dell’aorta.
La Corte di merito escludeva l’addebito di colpa formalizzato a carico dell’imputato, medico in servizio presso il pronto soccorso, apprezzando che questi aveva agito assolvendo ai propri compiti, allorquando, verificato lo stato del paziente e effettuati gli interventi previsti per la patologia cardiaca diagnosticata, ne aveva predisposto il ricovero nel reparto di cardiologia, per le cure dei caso.
Non era dipeso dal Bollino il fatto che il ricovero era stato disposto nel reparto di chirurgia per indisponibilità di letti.
In ogni caso, il decesso era intervenuto improvvisamente e con effetti immediati e non contrastabili in ragione di evento che ne aveva provocato il rapido dissanguamento interno, che avrebbe potuto essere contrastato – in ipotesi – solo con un intervento chirurgico immediato.
Peraltro, nessun addebito poteva essere elevato al medico del pronto soccorso.
Con il ricorso si censura la decisione proponendo doglianze sul comportamento dei medico, in particolare sotto il profilo dell’erroneità della diagnosi e dell’approccio terapeutico sostanziatosi nella somministrazione di farmaci antidolorifici. Ulteriore censura viene proposta con riferimento al mancato trasferimento in altra struttura, contestandosi sul punto anche le circostanze probatorie utilizzate per la giustificazione della condotta dei sanitario.
E’ stata depositata memoria difensiva nell’interesse dell’imputato con la quale sono state contestate le deduzione della parte ricorrente sostenendo la coerenza e la logicità delle argomentazioni della sentenza impugnata. Con la medesima memoria è stata sostenuta, preliminarmente, l’invalidità della procura speciale in calce al ricorso per cassazione in quanto recante firma di un soggetto diverso rispetto a quello conferente.

Considerato in diritto

L’eccezione di carattere preliminare afferente la validità della procura speciale, sollevata con la memoria difensiva nell’interesse dell’imputato, si palesa infondata, essendo evidente che si tratta di errore materiale.
Ciò premesso, il ricorso, per ampiamente argomentato, è infondato, a fronte di doppia conforme statuizione liberatoria, laddove risulta satisfattivamente spiegata l’assenza di colpa del sanitaria e esclusa la sussistenza del nesso eziologico tra la condotta di questi e l’evento lesivo.
Come è noto, in tema di responsabilità omissiva dei medico per la morte dei paziente, la verifica dell’esistenza del nesso di causalità tra la condotta omissiva dei sanitario e l’evento lesivo presuppone l’effettuazione del cosiddetto “giudizio controfattuale” diretto a stabilire se l’azione o le condotte positive ritenute doverose ed invece omesse, nel caso concreto, ove ipotizzate come poste in essere dall’imputato, sarebbero state idonee ad evitare l’evento od a ritardarne significativamente la sopravvenienza: tale verifica deve in concreto operarsi, in termini di ragionevole certezza (“alto grado di credibilità razionale” o “probabilità logica”), secondo tutte le circostanze che connotano il caso, e non già in termini di mera probabilità statistica pur rivelatrice di “serie ed apprezzabili probabilità di successo” per l’azione impeditiva dell’evento (cfr. Sezioni unite, 10 luglio 2002, Franzese).
La decisione gravata, in uno con quella di primo grado, ha rispettato questi principi, sia allorquando ha escluso i profili di colpa [per avere il medico dei pronto soccorso assolto ai propri doveri, anche provvedendo al trasferimento del paziente presso il reparto: non gli si poteva addebitare (‘indisponibilità dei letti in quello di cardiologia], sia soprattutto, e decisivamente, allorquando ha ricostruito la causa della morte in termini tali da recidere, in ossequio al necessario vaglio controfattuale, alcuna possibilità concreta di intervento da parte dell’imputato in grado di contrastare l’esito mortale della patologia.
Non va allora dimenticato che, ai fini della responsabilità penale per un reato colposo, non è sufficiente che risulti accertata la violazione di una regola cautelare, che essa si ponga in rapporto causale con l’evento prodottosi e che questo costituisca “concretizzazione del rischio” che la regola cautelare si prefigga di contrastare: è infatti necessario anche che l’evento risulti “evitabile” dalla condotta diligente che si è mancato di tenere (Sezione IV, 20 settembre 2012, Montanaro): ciò che nella specie è stato motivatamente escluso apprezzandosi la qualità della patologia mortale, le modalità di verificazione e la tempistica che ha portato il paziente alla morte.
Al rigetto del ricorso consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Originally posted 2021-07-01 10:00:45.