AVVOCATO PENALISTA BOLOGNA FORLI CESENA RIMINI RAVENNA OMICIDIO COLPOSO AVVOCATO DIFENDE TRIBUNALE APPELLO CASSAZIONE

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Circa la definizione della nozione di malattia, nella scienza medica è ormai communis opinio che essa debba intendersi come un processo patologico evolutivo necessariamente accompagnato da una più o meno rilevante compromissione dell’assetto funzionale dell’organismo. Ne consegue che le mere alterazioni anatomiche, inidonee a interferire con il profilo funzionale dell’individuo non sono suscettibili di integrare la nozione di malattia correttamente intesa. La sola alterazione anatomica, difatti, non rappresenta ex se un presupposto indefettibile della malattia, potendosi concretizzare processi patologici del tutto indipendenti dal verificarsi di tali modificazioni. Ne consegue che le alterazioni che siano risultate prive della capacità di incidere sulla normale funzionalità dell’organismo non potranno rivestire il rango di malattia, quale evento naturalistico del reato di cui all’art. 582 c.p. intendersi come un processo patologico evolutivo necessariamente accompagnato da una più o meno rilevante compromissione dell’assetto funzionale dell’organismo. Ne consegue che le mere alterazioni anatomiche, inidonee a interferire con il profilo funzionale dell’individuo non sono suscettibili di integrare la nozione di malattia correttamente intesa. La sola alterazione anatomica, difatti, non rappresenta ex se un presupposto indefettibile della malattia, potendosi concretizzare processi patologici del tutto indipendenti dal verificarsi di tali modificazioni. Ne consegue che le alterazioni che siano risultate prive della capacità di incidere sulla normale funzionalità dell’organismo non potranno rivestire il rango di malattia, quale evento naturalistico del reato di cui all’art. 582 c.p.

Va esclusa la configurabilità sia del reato di cui all’art. 582, c.p. che di quello di violenza privata ex art. 610, c.p., nella condotta del medico, il cui intervento sul paziente abbia avuto buon fine e sia stato condotto in ossequio ai protocolli e alle regole dell’arte, a nulla rilevando in senso contrario la circostanza che il consenso informato del paziente avesse riguardato un intervento differente da quello di fatto effettuato, peraltro con successo. Indagato per reato Bologna avvocato penale

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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE IV

SENTENZA 16 luglio 2015, n. 30989

Ritenuto in fatto

Con sentenza dei 27/11/2013 la Corte di Appello di Napoli confermava la condanna di M.C. per il delitto di omicidio colposo in danno di F.A.. Veniva anche confermata la pena di anni uno di reclusione e la condanna al risarcimento del danno in favore delle parti civili da liquidare in separato giudizio.

All’imputato era stato addebitato che, alla guida della sua auto Mercedes, percorrendo via Botteghelle di Napoli, impegnando un incrocio a velocità non inferiore ai 100 k/h, era andato a collidere con altra auto (Fiat Punto) che già aveva impegnato l’incrocio, determinando in tal modo la morte della F., conducente dell’altro veicolo (acc. in Napoli il 16/10/2004, ore 23.40).

Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore lamentando la erronea applicazione della legge ed il vizio della motivazione, laddove la corte di merito, così come il giudice di primo grado, a fronte della rilevazione di una velocità elevata dell’auto dell’imputato, desunta presuntivamente da indici probatori dubbi ed incerti, non aveva preso in considerazione che l’efficacia causale dell’evento era da ricondurre alla esclusiva responsabilità della vittima, la quale non aveva rispettato il segnale di stop e non aveva allacciato la cintura di sicurezza.

Considerato in diritto

 

II ricorso è infondato.

Va premesso che la Corte di merito, conformemente al giudice di primo grado, ha ritenuto che la responsabilità dell’imputato emergesse dalle seguenti circostanze – L’incidente era avvenuto in una strada gravata da un limite di velocità di 30 k/h; – L’auto della vittima proveniva da sinistra rispetto al veicolo dell’imputato e la strada percorsa dalla F. era gravata da segnale di ‘stop’;

– Lo scontro era avvenuto al centro della carreggiata;

– La velocità dell’auto del M., al momento del fatto, era elevatissima, come si desumeva dai rilevanti danni ai veicoli; dalle deposizioni dei verbalizzanti, esperti della materia; dalla circostanza che al momento dello scontro il veicolo del M. aveva fatto un testa-coda; dalla circostanza che il corpo della vittima era stato sbalzato fuori dall’abitacolo;

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– smentita era la testi difensiva della velocità moderata, infatti, contrariamente alle deduzioni del M., l’auto Mercedes non era stata trovata con la terza marcia innestata, ma a ‘folle’. Sulla base di tali considerazione la corte distrettuale confermava la condanna. Le censure mosse dalla difesa alla sentenza sul punto della ricostruzione dell’incidente, esprimono solo un dissenso rispetto alla ricostruzione del fatto (operata in modo conforme dal giudice di primo e secondo grado) ed invitano ad una rilettura nel merito della vicenda, non consentita nel giudizio di legittimità, a fronte di una motivazione della sentenza impugnata che regge al sindacato di legittimità, non apprezzandosi nelle argomentazioni proposte quei profili di macroscopica illogicità, che soli, potrebbero qui avere rilievo.

Ciò premesso quanto alla ricostruzione dei sinistro, va ricordato che l’art. 141 del C.d.S., nel regolare la velocità di circolazione degli autoveicoli, stabilisce tra l’altro che il conducente deve sempre conservare il controllo del proprio veicolo ed essere in grado di compiere tutte le manovre necessarie in condizione di sicurezza, specialmente l’arresto tempestivo dinanzi a qualsiasi ostacolo prevedibile; inoltre deve regolare la velocità in prossimità delle intersezioni. Nell’interpretare la disposizione, questa Corte di legittimità ha avuto modo di precisare ulteriormente che, il conducente favorito dal diritto di precedenza deve comunque, in prossimità di un incrocio, moderare la velocità, per essere in grado di affrontare qualsiasi evenienza, compresa quella che non gli venga accordata la precedenza spettantegli (cfr. Cass. Sez. 4, Sentenza n. 1826 del 23/11/1990 Ud. (dep. 08/02/1991), Rv. 186307; Cass. Sez. 4, Sentenza n. 9615 del 19/03/1991 Ud. (dep. 14/09/1991), Rv. 188213). Inoltre, che il conducente favorito dal diritto di precedenza deve comunque non abusarne, non trattandosi di un diritto assoluto e tale da consentire una condotta di guida negligente e pericolosa per gli altri utenti della strada, anche se eventualmente in colpa (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 12789 del 18/10/2000 Ud. (dep. 07/12/2000), Rv. 218473).

Nel caso di specie la Corte di merito, con coerente e logica motivazione, ha evidenziato che l’imputato è sopraggiunto all’intersezione a velocità notevolmente superiore a quella consentita ed in ogni caso non adeguata a prevenire lo scontro con un veicolo che aveva già ampiamente impegnato l’incrocio, sebbene senza rispettare lo stop, determinando pertanto l’incidente con la sua condotta.

Né vale ad escludere la colposa causalità della condotta del M. la circostanza che la vittima non abbia rispettato l’obbligo di dare la precedenza, ciò in quanto è patrimonio di comune esperienza che nella circolazione stradale non può farsi affidamento sulla assoluta diligenza e rispetto delle regole degli utenti della strada, per cui la violazione dell’obbligo di precedenza non è un evento imprevedibile ed impone quindi, al conducente favorito ad un incrocio di moderare la velocità ed ispezionare la strada per evitare sinistri (cfr. Cass. Sez. 4, Sentenza n. 12361 dei 07/02/2008 Ud. (dep. 20/03/2008), Rv. 239258; Cass. Sez. 4, Sentenza n. 15561 dei 17/10/1990 Ud. (dep. 23/11/1990), Rv. 185856; Cass. Sez. 4, Sentenza n. 9420 dei 21/06/1988 Ud. (dep. 23/09/1988), Rv. 179227). Pertanto nessuna violazione di legge e difetto di motivazione è dato riscontrare laddove la Corte di merito, nell’affermare la responsabilità dell’imputato, ha rilevato da parte sua la violazione di ordinarie regole di diligenza e prudenza (colpa generica), nonchè di specifiche disposizioni del C.d.S. (colpa specifica), e che tale condotta colposa (causalmente efficiente) è stata posta in essere a fronte di un evento prevedibile ed evitabile, se solo fosse stato rispettato il limite di velocità di 30 k/h.

Quanto alla circostanza che la vittima non allacciasse la cintura di sicurezza, va anche in tal caso rammentata la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui in tema di omicidio colposo conseguente a sinistro stradale, il mancato uso, da parte della vittima, della cintura di sicurezza non vale di per sé ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del conducente di un’autovettura che, violando ogni regola di prudenza e la specifica norma del rispetto dei limiti di velocità, abbia reso inevitabile l’impatto con altra autovettura sulla quale viaggiava la vittima, e l’evento, non potendo considerarsi abnorme né del tutto imprevedibile il mancato uso delle cinture di sicurezza, il quale può, tuttavia, riflettersi sulla quantificazione della pena e sull’ammontare risarcitorio (Cass. Sez. 4, Sentenza n. 42492 del 03/10/2012 Ud. (dep. 31/10/2012), Rv. 253737).

Valutata pertanto la infondatezza delle censure, il ricorso deve essere rigettato. Segue, a norma dell’articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. IV PENALE , SENTENZA 7 luglio 2016, n.28246 – Pres. Blaiotta – est. Cenci

Ritenuto in fatto

  1. La Corte di appello di Milano ha integralmente confermato la sentenza del Tribunale di Lodi di condanna di R.M.M. per il reato di omicidio colposo di F.D. , fatto commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale, il (omissis) , decesso avvenuto il (omissis).

  2. Avverso la decisione della Corte di appello ha presentato tempestivo ricorso per cassazione il difensore dell’imputata.

La sentenza, ad avviso del ricorrente, sarebbe viziata per inosservanza o erronea applicazione dell’art. 41, comma 2, cod. pen., anche in relazione alla dedotta manifesta illogicità del contenuto della consulenza tecnica posta a base della sentenza impugnata.

Non si contesta nel ricorso il fatto che, a seguito di sinistro stradale del (omissis) , ascrivibile a colpa dell’imputata, il signor F.D. abbia riportato una frattura della testa omerale (così alla p. 2 del ricorso): si contesta invece che il successivo decesso dell’investito, intervenuto a causa di una trombo embolia polmonare massiva dopo un intervento chirurgico eseguito per sostituire la testa omerale con una protesi, sia causalmente riconducibile alla condotta colpevole di guida della signora R.M.M. . Premesso che i giudici di merito sarebbero pervenuti all’affermazione di responsabilità esclusivamente sulla base della relazione medica del consulente tecnico del P.M., che ha escluso qualsiasi responsabilità medica nello sviluppo del fenomeno trombo-embolico non rinvenendo alcun profilo di colpa del sanitari, evidenziato che al momento del ricovero, subito dopo l’incidente stradale, gli stessi sanitari avevano categoricamente escluso ogni pericolo di vita del paziente, si assume che la morte dell’investito sarebbe intervenuta come complicanza del tutto eccezionale dell’intervento chirurgico posto in essere dai sanitari di (…), con conseguente necessità di applicazione della disciplina posta dall’art. 41, comma 2, cod. pen. in tema di interruzione del nesso causale (pp. 2-3 del ricorso): si richiama, al riguardo, uno specifico passaggio (p. 14, ultimo alinea) della relazione scritta del 2 gennaio 2009 del consulente tecnico del P.M..

Si chiede, in conclusione, l’annullamento della sentenza impugnata.

Considerato in diritto

  1. I motivi di ricorso non meritano accoglimento, siccome infondati.

1.1. Premesso che è incontroverso, come ammesso pacificamente da R.M.M. e come risultante dalle sentenze di merito, che vi fu, per distrazione dell’imputata mentre era alla guida di un’autovettura, l’investimento, peraltro avvenuto sulle strisce pedonali, del passante F.D. , che, in conseguenza, riportò vari traumi, tra i quali la frattura da scoppio della testa omerale sinistra, nel ricorso, a ben vedere, si sottopone alla Corte, anzitutto, una questione relativa ad una valutazione di puro fatto – se cioè sia ravvisabile o meno nel caso di specie una colpa dei sanitari che sottoposero il paziente all’intervento chirurgico per la sostituzione protesica della testa omerale – e che è stata in entrambi i gradi di merito già affrontata e risolta nel senso dell’assenza di profili di colpa dei medici, con motivazione che appare congrua ed immune da vizi logici.

In particolare, la validità dell’argomento sviluppato nel ricorso, secondo il quale “l’evento morte provocato dalla trombo-embolia massiva contratta dall’infortunato durante il ricovero in ospedale per la cura degli esiti di una frattura della testa omerale, è stata una complicanza talmente eccezionale delle modeste lesioni subite in conseguenza dell’incidente da non poter mai e poi mai costituire fattore causale preesistente” (così p. 4 del ricorso) risulta esclusa, sempre in punto di fatto, dagli accertamenti istruttori, il cui sviluppo appare congrui, riferiti dai giudici di merito.

In particolare, nella sentenza di secondo grado (alla p. 4), si pone in luce che “come si legge nella citata consulenza, da un lato, dall’esame della notizie riportate in cartella clinica non erano emersi nella parte lesa altri processi patologici preesistenti all’evento traumatico e/o successivamente insorti, ma comunque da esso causalmente svincolati, idonei e sufficienti a causare il decesso dell’investito e, dall’altro, del tutto corretta era la scelta terapeutica per la cura della lesione scheletrica dell’arto superiore destro, avuto riguardo alla estrema gravità della frattura della testa omerale, che non avrebbe consentito un trattamento conservativo a garanzia di un quantomeno sufficiente recupero funzionale”. Conformi le valutazioni svolte a riguardo nella motivazione della sentenza di primo grado (alle pp. 5-6).

1.2. Quanto, poi, alla questione di diritto sottesa al ragionamento svolto nel ricorso, si evidenzia che, secondo pacifica giurisprudenza di legittimità, dalla quale non vi è ragione per discostarsi, nel caso di incidente stradale causativo di lesioni, anche l’ipotetica negligenza o imperizia dei medici (di cui non vi è peraltro traccia nel presente processo), persino ove di elevata gravità, non sarebbe comunque idonea ad elidere il nesso causale tra la condotta e l’evento morte, in quanto l’intervento dei sanitari costituisce, rispetto al soggetto leso, un fatto tipico e prevedibile, anche nei potenziali errori di cura, mentre ai fini della esclusione del nesso di causalità occorre un errore sanitario del tutto eccezionale e da solo determinante l’evento letale (cfr., ex plurimis, Sez. 4, n. 41293 del 04/10/2007, Taborelli, Rv. 237838: “L’eventuale errore dei sanitari nella prestazione delle cure alla vittima di un incidente stradale non può ritenersi causa autonoma ed indipendente, tale da interrompere il nesso causale tra il comportamento di colui che ha causato l’incidente e la successiva morte del ferito. (Fattispecie in cui la Corte ha escluso l’interruzione del nesso di causalità rilevando che l’errore medico non costituisce un accadimento al di fuori di ogni immaginazione, a maggior ragione nel caso in cui l’aggravamento della situazione clinica del ferito e la necessità di interventi chirurgici complessi risultino preventivabili in ragione della gravità delle lesioni determinate dall’incidente stradale”).

1.3. Il delicato tema del rischio sanitario è stato oggetto di importanti precisazioni in recente pronunzia della S.C. (Sez. 4, n. 33329 del 05/05/2015, Sorrentino e altri, Rv. 264365), che, per la rilevanza che le stesse possono assumere nel caso in esame, appare il caso di richiamare testualmente nei più significativi passaggi argomentativi:

ebbene, la questione del rischio sanitario “(…) richiede di porre alcune enunciazioni di principio, aderenti a quelle recentemente proposte dalle Sezioni unite di questa Corte (Sez. Un 24 aprile 2014, Espenhahn, Rv. 261103).

A proposito dell’art. 41 cpv. c.p., e della cosiddetta interruzione del nesso causale, evocando la precedente giurisprudenza, si è posto in luce che il garante è il gestore di un rischio; e che il termine garante viene ampiamente utilizzato nella prassi anche in situazioni nelle quali si è in presenza di causalità commissiva e non omissiva; ed ha assunto un significato più ampio di quello originario, di cui occorre acquisire consapevolezza, traendo argomento proprio dalla norma richiamata.

Si è considerato che la necessità di limitare l’eccessiva ed indiscriminata ampiezza dell’imputazione oggettiva generata dal condizionalismo è alla base di classiche elaborazioni teoriche: la causalità adeguata, la causa efficiente, la causalità umana, la teoria del rischio. Tale istanza si rinviene altresì nel controverso art. 41 cpv. c.p.. L’esigenza cui tali teorie tentano di corrispondere è quella di limitare, separare le sfere di responsabilità, in modo che il diritto penale possa realizzare la sua vocazione ad esprimere un ben ponderato giudizio sulla paternità dell’evento illecito.

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La centralità dell’idea di rischio è emersa con insistenza particolarmente nel contesto della sicurezza del lavoro… in cui, in maniera particolare, esistono diverse aree di rischio e, parallelamente, distinte sfere di responsabilità che quel rischio sono chiamate a governare… Le Sezioni unite Li hanno posto l’enunciazione che un comportamento è “interruttivo” (per restare al lessico tradizionale) non perché “eccezionale” ma perché eccentrico rispetto al rischio che il garante è chiamato a governare. Tale eccentricità renderà magari in qualche caso (ma non necessariamente) statisticamente eccezionale il comportamento ma ciò è una conseguenza accidentale e non costituisce la reale ragione dell’esclusione dell’imputazione oggettiva dell’evento. A ciò va aggiunta solo una chiosa di portata generale: l’effetto interruttivo può essere dovuto a qualunque circostanza che introduca un rischio nuovo o comunque radicalmente esorbitante rispetto a quelli che il garante è chiamato a governare.

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1.IL CONCORSO DELL’ESTRANEO NELLA BANCAROTTAFRAUDOLENTA

(…) Il tema di cui si discute è stato ripetutamente esaminato da questa Corte con riferimento al rischio terapeutico. Si può dire che l’ambito che ha determinato le maggiori discussioni sulla portata dell’art. 41 cpv., è sicuramente quello in cui l’attività di cura interagisce con gli effetti determinati dalla precedente condotta illecita, aggravandoli.

La Suprema Corte ha ripetutamente escluso che, nel caso di lesioni personali seguite da decesso della vittima dell’azione delittuosa, l’eventuale negligenza o imperizia dei medici possa elidere il nesso di causalità tra la condotta lesiva dell’agente e l’evento morte. La colpa dei medici, infatti, anche se grave, non può ritenersi causa autonoma ed indipendente rispetto al comportamento dell’agente che, provocando il fatto lesivo, ha reso necessario l’intervento dei sanitari. Infatti la negligenza o imperizia dei medici non costituisce di per sé un fatto imprevedibile, eccezionale, atipico rispetto alla serie causale precedente di cui costituisce uno sviluppo evolutivo normale anche se non immancabile (ad es. Sez. I, 9 ottobre 1995, La Paglia; Sez. I, 19 gennaio 1998, Van Custem; Sez. IV, 10 marzo 1983, Di Martino). In tale approccio l’eccezionalità viene colta in modo categoriale, astratto: per definizione essa non si configura, indipendentemente dalle contingenze del caso concreto.

(…) il nesso causale è stato escluso in un caso che presenta significative affinità con quello in esame (Sez. V, 27 gennaio 1976, Nidini, in C. E.D. Cass. n. 133819). Si era in presenza di un errore macroscopico del sanitario: una persona che viaggiava a bordo di un’auto subiva lesioni non molti gravi (frattura del femore e stato commotivo) a seguito di un incidente stradale nel quale si evidenziava la colpa del conducente; ricoverata in ospedale veniva sottoposta ad intervento chirurgico di osteosintesi gravato da errori di esecuzione (applicazione al femore fratturato di viti che, per la loro eccessiva lunghezza determinavano emorragie, infezione e cancrena); tale situazione determinava la necessità di tre emotrasfusioni; nell’esecuzione di tali trasfusioni il medico errava nell’individuazione del gruppo sanguigno con esito letale. La Corte ha ritenuto che tale finale condotta erronea, pur inserendosi nella serie causale dipendente dalla condotta dell’automobilista che provocò l’incidente, agì “per esclusiva forza propria” ed interruppe il nesso di condizionamento. Rispetto all’evento morte l’originaria condotta colposa dell’automobilista, pur costituendo un antecedente necessario per l’efficacia delle cause sopravvenute, assume non il ruolo di fattore causale ma di semplice occasione. Si tratta di una decisione senza dubbio condivisibile, visto che da un lato si è in presenza di un rischio non particolarmente grave, innescato dall’incidente; dall’altro si evidenzia non solo un errore di esecuzione dell’intervento di osteosintesi, ma anche e soprattutto di un errore gravissimo costituito dall’erronea individuazione del gruppo sanguigno, originatosi in una situazione in cui non si provvedeva alla cura della frattura ma si tentava di rimediare agli errori commessi dal chirurgo.

Una soluzione corretta, dunque, nella quale – tuttavia – piuttosto che la generica evocazione della occasionante della condotta colposa del conducente del veicolo, appare assai più persuasiva e razionale la considerazione dell’incongruenza e dell’incommensurabilità tra l’originario rischio attivato dall’incidente automobilistico e quello realizzatosi a causa del gravissimo errore consistito nella fallace individuazione del gruppo sanguigno.

(…) conclusivamente, la teoria del rischio evocata dalle Sezioni unite offre strumenti di analisi e ponderazione meno vaghi e più penetranti rispetto a quelli offerti dalla tradizione: in breve, l’individuazione del rischio quale chiave di volta per la lettura degli intrecci causali; l’intervento di fattori la cui concausalità è determinante e di significato tale da assorbire la spiegazione giuridica esclusiva dell’evento; la congruenza tra i rischi. Il fatto illecito altrui non esclude in radice l’imputazione dell’evento al primo agente, che avrà luogo fino a quando l’intervento del terzo, in relazione all’intero concreto decorso causale dalla condotta iniziale all’evento, non abbia soppiantato il rischio originario. L’imputazione non sarà invece esclusa quando l’evento risultante dal fatto del terzo possa dirsi realizzazione sinergica anche del rischio creato dal primo agente.

Tale approccio è utile anche quando la condotta illecita ha già prodotto conseguenze lesive, ma esse vengono portate ad esiti ulteriori e più gravi da condizioni sopravvenute, che possono essere costituite da comportamenti umani o da fatti naturali. Si tratta dell’ambito efficacemente tratteggiato dai casi di scuola della vittima di un attentato che muore durante il trasporto in ospedale a causa di un incidente stradale, o di un incendio sviluppatosi nell’ospedale (…).

L’approccio fondato sulla comparazione dei rischi consente di escludere l’imputazione al primo agente quando le lesioni originarie non avevano creato un pericolo per la vita, ma l’errore del medico attiva un decorso mortale che si innesta sulle lesioni di base e le conduce a processi nuovi e letali: viene creato un pericolo inesistente che si realizza nell’evento. Discorso analogo può esser fatto quando la condotta colposa del medico interviene dopo che il pericolo originario era stato debellato da precedenti cure: anche qui viene prodotto un rischio mortale nuovo.

La teoria del rischio spiega bene l’esclusione dell’imputazione del fatto nel caso dell’emotrasfusione sbagliata: vi è una tragica incommensurabilità tra la situazione non grave di pericolo determinata dall’incidente, che aveva comportato la rottura del femore, e l’esito mortale determinato dal macroscopico errore nell’individuazione del gruppo sanguigno”.

Ebbene, facendo applicazione della teoria del rischio nel caso di specie si giunge ad escludere qualsiasi interruzione del nesso causale da parte dei sanitari che ebbero in cura F.D. ed il cui intervento, in relazione al concreto decorso causale dalla condotta iniziale colposa dell’investitrice imputata all’evento-morte, stando a quanto accertato dai giudici di merito, che hanno adottato al riguardo motivazione congrua ed immune da vizi logici, non ha, a ben vedere, mai soppiantato il rischio originario e non ha assorbito la spiegazione giuridica esclusiva dell’evento: in particolare, hanno accertato i giudici di merito che l’intervento chirurgico al quale è stato sottoposto F.D. al fine di porre rimedio alle lesioni causate dall’investimento automobilistico da parte di R.M.M. – intervento la cui corretta effettuazione non è nemmeno posta in dubbio nel ricorso – era, nella concreta situazione che emergeva, necessario.

  1. Dalle considerazioni che precedono discende il rigetto del ricorso, con conseguente condanna del ricorrente alle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

 

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I PENALE – SENTENZA 15 aprile 2016, n.15774 – Pres. Cortese – est. Bonito

Ritenuto in fatto e considerato in diritto

  1. Nel corso della mattinata del 6 luglio 2010 all’interno del bagagliaio di una BMW distrutta dalle fiamme veniva rinvenuto il cadavere carbonizzato di una donna identificata in seguito in D.D.R. . Le indagini consentivano di acquisire indizi a carico di M.N. , soggetto pregiudicato e noto alle forze dell’ordine, il quale veniva sottoposto a misura cautelare della custodia in carcere, misura annullata dal Tribunale del riesame e dallo stesso tribunale confetniata, in data 15.3.2011, in seguito all’annullamento della prima ordinanza da parte della Corte di Cassazione. L’imputato, dopo iniziali proteste di innocenza, in data 28 maggio 2011 rendeva dichiarazioni confessorie, riferendo di essersi recato con l’autovettura della D.D. in un bosco dove aveva detto alla vittima di aver occultato il denaro che la stessa aveva prestato a Ma.Lu. , sindaco di (OMISSIS) , di avere, una volta qui giunti, litigato con la D.D. perché in realtà non in possesso della somma che si era impegnato a recuperare, che il litigio era degenerato e che per questo aveva aggredito la donna con un coltello colpendola 4 o 5 volte, che aveva poi trascinato la vittima per caricarla nel bagagliaio, di essersi quindi recato a casa sua, là vicino, per prendere un bidone di benzina con la quale dare fuoco all’automezzo, di aver dato corso al suo intendimento dopo aver spogliato la vittima dei gioielli indossati e dell’orologio. Il prevenuto, ripetutamente interrogato dal P.M. sulla circostanza se la vittima fosse morta quando era andato a prendere il combustibile, rispondeva di non essere in grado di dirlo. Nel corso dell’interrogatorio l’imputato accusava altresì il Ma. di averlo indotto ad eliminare la D.D. per non pagare il suo debito con la stessa e dividersi il denaro e l’oro della vittima.

  2. Sulla base dei fatti in tal guisa ricostruiti, a carico dell’imputato venivano contestati i reati di omicidio aggravato ai sensi dell’art. 577 n. 4 c.p. (capo A), di occultamento di cadavere ai sensi dell’art. 412 c.p. (capo B), di furto dei gioielli sottratti alla vittima ai sensi dell’art. 624 c.p. (capo C), di detenzione illegale di una carabina rinvenuta nel corso della perquisizione della sua abitazione (artt. 2 e 7 l. 895/1967, capo D), di calunnia in danno di Ma.Lu. (art. 368 c.p., capo E) ed all’esito del giudizio di primo grado, svoltosi nelle forme del giudizio abbreviato, il GIP del Tribunale di Biella lo condannava alla pena di trent’anni di reclusione oltre alle sanzioni accessorie previste dalla legge ed alle statuizioni in favore delle pp.cc. costituite.

Il giudice di prime cure, sulla base delle dichiarazioni confessorie dell’imputato, degli accertamenti di P.G. sui luoghi in cui si consumarono i fatti di causa e delle risultanze dell’esame autoptico, giudicate tra loro compatibili, riteneva accertato che la vittima fu colpita violentemente al capo ed al torace con pugni ovvero con un corpo contundente, che al momento in cui venne caricata nel bagagliaio della sua autovettura era ancora viva e che la morte fu cagionata dall’aspirazione del monossido di carbonio provocata dall’incendio dell’autovettura.

Secondo il GUP, pertanto, l’imputato era consapevole, al momento di appiccare il fuoco, che la vittima era ancora viva dappoiché non credibile che il suo corpo non avesse dato segni di vitalità, quali rantoli e difficoltà respiratorie indotte dal copioso sanguinamento rilevato in loco. Rilevanti in tal senso sono state poi valutate dal giudice di prima istanza le dichiarazioni rese dal prevenuto il 28.5.2011, quando ha confessato: ‘non posso dire in coscienza se R. fosse morta, non ho controllato. Non si muoveva più’.

Riteneva infine il GUP provati i reati contestati unitamente all’omicidio, di giustizia la pena come innanzi inflitta, con pena base individuata nell’ergastolo e pene complessive a titolo di continuazione comunque inferiori ad anni cinque di reclusione.

  1. Con l’appello l’imputato chiedeva di qualificare il reato sub a) come violazione degli artt. 83 e 586 c.p. con esclusione della circostanza aggravante della crudeltà, assumeva che l’imputato era certo di aver ucciso la donna con le coltellate quando la ripose nel bagagliaio, sosteneva che comunque non risultava provato il contrario e che l’imputato aveva sempre sostenuto che non intendeva uccidere ma cagionare lesioni, rilevava che la rappresentazione dei fatti deponeva per uno stato della vittima tale da giustificare l’errore dell’imputato sulla intervenuta sua uccisione all’esito dell’aggressione. Di qui le conclusioni difensive secondo cui la condotta antecedente all’incendio dell’autovettura andrebbe inquadrata nello schema del tentato omicidio, in caso contrario non compatibile comunque con la contestazione di cui al capo B). Eccepiva quindi la difesa appellante la improcedibilità dell’azione penale per il reato di furto, in assenza di querela, e si doleva del mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.

La Corte di assise di appello di Torino, con sentenza del 12 giugno 2014, in parziale riforma di quella impugnata, dichiarava l’improcedibilità dell’azione penale in relazione al reato di furto (capo C) della rubrica) per difetto di querela e confermava nel resto la decisione di prime cure ulteriormente statuendo sulle spese processuali in favore delle pp.cc..

La corte territoriale richiamava dapprima gli esiti dell’esame autoptico, secondo i quali la vittima, colpita con pugni e con un corpo contundente, era ancora viva al momento in cui venne data alle fiamme l’autovettura nel cui bagagliaio era stata riposta, per poi annotare che tali conclusioni erano in contrasto con la confessione dell’imputato, il quale ha sempre dichiarato di aver colpito la vittima con coltellate plurime, dichiarazioni da ritenersi per i giudici di secondo grado non veritiere perché non trovato il coltello e smentite le stesse dall’esame autoptico che non ha rinvenuto segni di accoltellamento. Di qui ha poi tratto la corte di merito la deduzione che la natura delle lesioni cagionate rende incompatibile l’ipotesi che il M. , a cagione di esse, abbia creduto morta la vittima, circostanza questa comunque posta in dubbio dallo stesso prevenuto, il quale ha sempre affermato di non poter dire che di essa era certo al momento in cui appiccava il fuoco, di guisa che la conclusione da trarre è che l’imputato agì nella seconda fase, quella dell’incendio, per rendere più arduo il ritrovamento del corpo della vittima, l’accertamento dei fatti e di provocarne la morte se non ancora intervenuta nella prima fase. Valorizza poi la corte territoriale il proprio convincimento valorizzando le circostanze che l’imputato fu a lungo a contatto con il corpo della D.D. , trasportata dal posto guida al bagagliaio e qui caricata, e si adoperò per privarla di numerosi monili (vari anelli, collana, orecchini, braccialetto ed orologio), condotte queste che, per il tempo e la natura delle lesioni cagionate, non poterono non rendere palese la vitalità della vittima in quei momenti.

Su tali premesse concludeva la corte ribadendo la correttezza della qualificazione giuridica data alla condotta dell’imputato con la contestazione in atti, ribadendo nel contempo la immeritevolezza delle attenuanti generiche chieste dalla difesa.

  1. Impugna per cassazione la sentenza di secondo grado l’imputato, assistito dal difensore di fiducia, il quale nel suo interesse sviluppa due motivi di ricorso.

4.1 Col primo di essi denuncia la difesa ricorrente violazione di legge sulla qualificazione giuridica dei fatti di reato contestati ai capi A) e B) ed omessa applicazione degli artt. 83 e 586 c.p., in particolare argomentando: la fattispecie in esame coincide con due noti casi dei quali in, precedenza si è occupato il giudice di legittimità, quello giudicato con sentenza del 2 maggio 1988, sez. I, imp. Auriemma e quella di cui alla sentenza 16976 del 18.3.2003, sempre sez. I; nella prima delle citate pronunce la suprema corte ha affermato che se taluno, convinto di aver cagionato la morte di una persona con una precedente condotta dolosa, ne occulti il cadavere e la morte si verifichi come conseguenza dell’azione di occultamento, egli risponderà di tentato omicidio e di omicidio colposo in concorso reale tra di loro, mentre nella seconda, nella quale è stata elaborata la c.d. teoria del ‘dolo colpito a mezza via dall’errore’, la corte di legittimità è pervenuta alle medesime conclusioni sul presupposto, in fatto, di un evento presuntivamente verificatosi e successivamente realizzatosi su tale erroneo presupposto per ulteriori comportamenti ad esso collegati; in altra pronuncia, successiva, la n. 12466 del 2007, ha invece la corte suprema affermato il principio secondo cui, se l’agente è incerto sulla produzione dell’evento letale e le manovre di occultamento sono idonee a cagionare la morte, non ancora sopravvenuta, il decesso successivo va imputato a titolo di dolo alternativo di omicidio; deve pertanto ritenersi che la giurisprudenza di legittimità abbia aderito al principio secondo cui, quando la condotta dell’agente sia consapevolmente diretta ad uccidere, ma l’evento non si verifichi per tale condotta ma per altra, successiva, consumata dallo stesso agente nella convinzione che l’evento morte si sia invece già verificato, l’errore in itinere del dolo comporta che l’omicidio non può essere imputato a tale titolo ma di colpa e la condotta precedente, quella per la quale l’agente ebbe ad erroneamente ritenere di aver raggiunto lo scopo voluto della morte della vittima, a titolo di tentato omicidio in concorso reale con l’ipotesi colposa; la premessa per evidenziare che, in ipotesi siffatte, ai fini di una corretta qualificazione dei fatti di causa, è fondamentale ed imprescindibile valutare l’elemento psicologico del reato; il caso che ci occupa è del tutto analogo a quello giudicato dalla corte di legittimità nel 2003; l’imputato ha confessato di aver colpito la vittima, portata in luogo isolato in un bosco, con un coltello tipo ‘pattada’ e, pensando di averne cagionato la morte, di averne occultato il cadavere, per errore ritenuto tale, nel bagagliaio dell’autovettura dandovi fuoco; le risultanze dell’autopsia confermano la versione dell’imputato e non permettono di affermare con certezza che il M. non si sia accorto della vitalità della D.D. al momento in cui cercò di occultarne il corpo; il M. , rendendo la sua versione confessoria, ha dichiarato che sua intenzione era quella di cagionare lesioni e non già di uccidere, circostanza questa che conferma la mancanza della sua volontà omicida per combustione; il M. , dopo la prima azione violenta, ritenne che la vittima fosse ormai priva di vita, e questa, la vittima, non dava alcun segno evidente di vitalità; come riferito dall’imputato, essa perdeva sangue, non si muoveva più e non vi fu un suo controllo sulla eventuale vitalità della povera donna, che comunque appariva inanimata; a conferma della tesi difensiva concorre l’interrogatorio del 14.6.2011, nel corso del quale l’imputato ha parlato della sua intenzione di sbarazzarsi del cadavere, della sua intenzione di gettare la macchina nel lago e della decisione di appiccarvi invece il fuoco perché il bagagliaio non si chiudeva; da qui le conferme alla ricostruzione difensiva, l’uso della parola ‘cadavere’, il fuoco appiccato non già per uccidere ma per cancellare ogni traccia; la stessa contestazione, inoltre, conferma la tesi difensiva, giacché, se accusato di aver occultato il cadavere, ciò presuppone che l’imputato, per lo stesso P.M., avesse a che fare con un corpo senza vita e non già con una vittima ancora in vita finita con il fuoco appiccato; la versione del M. è coerente con gli accertamenti eseguiti e con lo svolgersi dell’azione delittuosa; il prevenuto lasciò la vittima esanime ed andò a procurarsi la tanica di benzina e questo nella certezza che fosse ormai priva di vita, per poi trasportare il corpo della donna in una zona più appartata del bosco e qui completare l’intento criminale; nella fattispecie concreta giudicata col precedente evocato nei giudizi di merito, Cass. Sez. 1, n. 631 del 7.12.2006, i fatti sono decisivamente diversi da quelli in esame e da quelli di cui alle evocate pronunce del 1988 e del 2003, perché in essa la vittima del pestaggio fu trasportata in braccio verso il luogo ove poi annegò, di guisa che il contatto prolungato col corpo vitale non poteva non comportare la consapevolezza della sua perdurante vitalità e su tale presupposto è stata poi adottata la decisione; la tesi difensiva ha trovato conferma anche in un ulteriore precedente della suprema corte, in sez. 1, 21.2.2007, n. 12466, nella quale si legge una nuova conferma della tesi del dolo colpito a mezza via dall’errore; per essa (tesi) occorre distinguere azioni plurime, frazionate nel tempo anche se immediatamente consecutive l’una all’altra, ma differenziate quanto all’offesa del bene giuridico protetto e quanto alla rispettiva efficacia causale; questo per distinguere il dolo di un delitto rimasto allo stadio del tentativo, per la prima fase della condotta giacché non verificatosi l’evento perseguito, e la colpa per l’evento in concreto poi realizzatosi con una successiva condotta che si pone come immediato e diretto fattore eziologico dell’evento cagionato.

4.2 Col secondo motivo di impugnazione denuncia invece la difesa ricorrente violazione dell’art. 62-bis c.p. sul rilievo che le attenuanti generiche risultano negate per la brutalità della condotta, per i precedenti penali, per il comportamento processuale; in realtà l’imputato ha comunque confessato l’omicidio ed ha fornito agli inquirenti informazioni utili per il recupero dei gioielli sottratti alla vittima e per chiarire adeguatamente la vicenda; in realtà la confessione del 28.5.2011 deve essere vista nel contesto di un quadro per nulla chiarito ed ancora assai incerto, nel cui contesto l’imputato non intendeva accusare terze persone attesa la ricostruzione puntuale dell’accaduto; la gravità del delitto commesso non deve essere di ostacolo alla concessione delle invocate attenuanti e per esse ha il giudice ampia discrezionalità di utilizzare dati, fatti ed argomenti.

  1. Il ricorso è infondato.

5.1 La difesa ricorrente fonda il primo e più importante motivo di doglianza sul rilievo che l’imputato, al momento di appiccare il fuoco all’autovettura di proprietà della vittima nel cui bagagliaio ne aveva caricato il corpo esanime, non era consapevole che la stessa fosse viva, perché convinto di averla uccisa con le pugnalate in precedenza inferte durante il litigio tra loro intervenuto. Su tali presupposti in fatto deduce poi la stessa difesa l’applicabilità alla fattispecie della c.d. tesi del ‘dolo colpito a mezza via dall’errore’, sviluppata da Cass., sez. I, 18.3.2003, n. 16976, rv. 224153, ma già in precedenza affermata da Cass., sez. I, 2.5.1988, n. 10535, rv. 179560, imp. Auriemma, in casi per la difesa analoghi a quello in esame. In essi i giudici di legittimità, come chiarito in ricorso, hanno distinto la fase della condotta finalizzata ad uccidere con l’evento non prodottosi e quella della condotta finalizzata alla soppressione del corpo creduto erroneamente senza vita, viceversa risultata poi causa diretta della morte. In tali casi, rammenta ancora la difesa, concorrerebbero, secondo il superiore insegnamento, il reato di tentato omicidio e quello di omicidio colposo.

La tesi difensiva, come di palese evidenza, assume in fatto presupposti la cui ricorrenza è stata motivatamente esclusa dai giudici di merito.

In primo luogo i giudici territoriali hanno ritenuto, sulla base delle conclusioni dell’esame medico-legale sul quale la difesa dell’imputato non ha svolto censure, che la vittima non fu accoltellata, ma venne colpita con pugni e con un corpo contundente. Per i giudici dell’appello, inoltre, l’imputato era consapevole che la vittima caricata nel bagaglio fosse ancora in vita, giacché, per un verso, la stessa non era stata affatto accoltellata ripetutamente come appena detto e giacché poi, per stessa ammissione del prevenuto, la donna era stata trasportata dal posto guida, dove si trovava, all’altezza del bagagliaio e qui caricata, non prima però di essere stata privata di una collana, di un orologio, di un bracciale e di vari anelli, circostanze queste per le quali, per i giudici di merito, che sul punto esprimono un giudizio in fatto logicamente formulato, non può ragionevolmente sostenersi che l’imputato non si avvide della vitalità del corpo che trasportava a mano e che meticolosamente spogliava di ogni avere. In ipotesi del tutto analoga Cass, sez. I, n. 631 del 07/12/2006 Rv. 236560, ha avuto modo di affermare che è configurabile il dolo omicidiario nella condotta dell’agente che, dopo avere ripetutamente colpito con calci, pugni e un corpo contundente parti vitali del corpo della vittima, la trasporti sino a una spiaggia, per ivi abbandonarla bocconi sulla battigia in condizione di mare mosso che ne determinano l’annegamento. (In motivazione la Corte ha osservato che lo stretto contatto con il corpo della vittima – dopo che questa aveva perso conoscenza in conseguenza delle gravi lesioni subite costituenti concausa dell’evento letale – nella fase del trasporto e del trascinamento sino alla riva del mare aveva consentito all’imputato di percepire estremi segni di perdurante vitalità della vittima, che decedeva per asfissia da annegamento, con la conseguenza che anche quest’ultimo atto doveva ritenersi sorretto da dolo omicidiario, quanto meno nella forma del dolo eventuale). E tornando al caso in esame giova sottolineare che la difesa ricorrente nulla ha obbiettato sull’argomentare in tali sensi della corte territoriale.

Eppertanto, se è accertato che l’imputato colpì la vittima non già con un pugnale ma a mani nude e con un corpo contundente, se l’imputato stesso si rese conto di non aver ucciso la donna ma di averla semplicemente costretta all’impotenza facendole perdere i sensi a cagione delle gravissime lesioni comunque provocatole, se ancora l’imputato appiccò il fuoco mentre la vittima era ancora in vita, non può dubitarsi, da un lato, della legittimità della decisione presa in relazione alla contestazione mossa con l’azione penale, quella di omicidio volontario sostenuto dal dolo diretto e, per altro verso, che non risultano accertate le circostanze di fatto necessarie per sorreggere il sillogismo logico della difesa.

Appare infine opportuno annotare che la evidenziata ricostruzione dei fatti accreditata dai giudici territoriali non ha ricevuto alcuna critica da parte della difesa ricorrente, se non attraverso la mera contrapposizione di una ricostruzione alternativa.

5.2 Rimane da dire circa il rilievo, questo viceversa fondato, della incompatibilità logica e giuridica di ritenere ricorrente il reato omicidiario nei termini appena detti in uno con quello di cui all’art. 412 c.p., che va di conseguenza annullato senza rinvio ferma restando il regolamento sanzionatorio indicato dalla sentenza impugnata, giacché ininfluente l’espunzione del reato detto. Per la continuazione, infatti, a fronte di una pena base fissata nell’ergastolo, i giudici territoriali hanno mantenuto la pena al di sotto del limiti di anni cinque di reclusione.

5.2 Manifestamente infondato è poi il secondo motivo di doglianza. Ai fini dell’applicabilità o del diniego delle circostanze attenuanti generiche infatti, assolve all’obbligo della motivazione della sentenza il riferimento alla gravità dei fatti giudicati ed ai precedenti penali dell’imputato, ritenuti di particolare rilievo come elementi concreti della di lui personalità, nonché al suo comportamento processuale, non essendo affatto necessario che il giudice di merito compia una specifica disamina di tutti gli elementi che possono consigliare o meno una particolare mitezza nell’irrogazione della pena (Cass., Sez. V, 06/09/2002, n.30284; Cass., Sez. II, 11/02/2010, n. 18158).

5.3 Gli esiti del giudizio di legittimità giustificano infine la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali in favore della parte civile costituita, liquidate come da dispositivo.

P.T.M.

la Corte, annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all’art. 412 c.p. perché assorbito nel capo A), ferma la pena inflitta. Rigetta nel resto il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare alla parte civile V.M. le spese sostenute per questo giudizio che liquida in euro 4.000,00 oltre accessori di legge.

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V PENALE – SENTENZA 26 ottobre 2016, n.44986 – Pres. Palla – est. Settembre

Ritenuto in fatto

  1. La Corte di Assise d’appello di Roma ha, con la sentenza impugnata, confermato quella emessa – all’esito di giudizio abbreviato – dal Giudice dell’udienza preliminare del locale Tribunale, che aveva condannato M.S. per omicidio colposo, aggravato dalla previsione dell’evento, in danno di C.P. , e, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti del medesimo M. per lesioni personali colpose in danno di F.F. per mancanza di querela, rideterminando, di conseguenza, la pena inflitta all’imputato.

Secondo quanto accertato in sentenza, e non contestato, la notte del (omissis) , dopo aver consumato in vari locali alcol ed hashish, l’imputato e due giovani amiche (C. e F. , appunto, di anni 23), si ritrovarono nel garage dell’(omissis) , ove, di comune accordo, si dettero alla pratica di giochi erotici a base sadomaso. In particolare, l’accordo prevedeva l’adozione di tecniche di bondage, ossia di costrizione fisica, anche mediante legatura. In effetti, F. fu legata, da M. , col braccio destro leggermente proteso verso l’alto e col sinistro ritratto verso il corpo, parallelamente al terreno. La ragazza aveva un piede per terra e l’altro sollevato – con una legatura – a circa venti centimetri dal pavimento, nonché una corda intorno al collo, con nodo bloccato, collegata ad altre corde ancorate dietro di lei. La C. , invece, fu legata con le braccia dietro la schiena, in posizione eretta, con entrambi i piedi per terra. Anche a C. fu applicata una corda intorno al collo, con nodo bloccato, ed anche questa corda fu legata ad altre corde tese alle sue spalle. Pochi secondi dopo l’avvio della pratica C.P. accusò un malore, perse i sensi e si accasciò al suolo, mettendo in tensione, col peso del suo corpo (circa 100 kg), la corda che girava intorno al suo collo e quelle a cui la corda suddetta era collegata, nonché quelle che immobilizzavano F.F. . In conseguenza di ciò entrambe le ragazze entrarono in difficoltà respiratoria e, sebbene soccorse da M. , riportarono entrambe gravi lesioni, in conseguenza delle quali C. decedette e F. rischiò la vita.

  1. L’accusa mossa dal Pubblico Ministero a carico di M. è stata, fin dall’inizio, quella di omicidio preterintenzionale, per C. , e di lesioni volontarie gravi per F. . Il Giudice dell’udienza preliminare e la Corte d’Assise d’appello hanno ricondotto la fattispecie in esame a quella dell’omicidio colposo aggravato dalla previsione dell’evento, quanto alla C. , e a quella delle lesioni colpose gravi, quanto alla F. , ritenendo che M. non avesse accettato il rischio di procurare la morte o le lesioni alle due ragazze. Ciò in base alle seguenti considerazioni: a) la pratica era stata avviata col consenso delle vittime, non inficiato dalle modeste quantità si alcol e stupefacenti assunti in precedenza; b) il nodo intorno al collo delle donne era stato ‘bloccato’ a sufficiente distanza dalle vie respiratorie; c) M. si era immediatamente attivato per soccorrere le ragazze ed era riuscito nell’intento solo in maniera parziale (con F. ) per imprudenza e negligenza, in quanto non si era munito, preventivamente, di forbici o coltello (rinvenuto, dopo affannosa ricerca, all’interno della sua autovettura); d) M. aveva subito avvertito i carabinieri e confessato i fatti. Tutto ciò dimostrava – secondo i giudici – che la pratica sadomaso suddetta non era stata avviata da M. allo scopo di infliggere sofferenza alle donne, ma allo scopo di procacciare alle stesse, e a sé stesso, un più intenso piacere sessuale, cosicché era da escludere che la morte di C. e le lesioni alla F. fossero state conseguenza di percosse o lesioni, presupposto necessario dell’omicidio preterintenzionale e delle lesioni volontarie. Era da ravvisare, invece, il meno grave delitto di omicidio con previsione dell’evento (per C. ) e di lesioni colpose per F. , stanti le gravi imprudenze poste in essere dall’imputato (questi era alle prime armi con le tecniche di bondage; sia lui che le ragazze non erano in perfetta efficienza fisica, avendo assunto alcol e stupefacenti in precedenza, sia pure in quantità modesta; la pratica fu attuata senza le minime precauzioni del caso: vedi mancanza di strumenti da taglio a portata di mano; l’applicazione di corde intorno al collo rendeva concreta la rappresentazione di un evento letale).

  2. Contro la sentenza suddetta hanno proposto ricorso per Cassazione tutti i protagonisti processuali: Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Roma, parte civile e imputato.

3.1. Il Pubblico Ministero insiste per la riqualificazione dei fatti in termini di omicidio preterintenzionale per C. e di lesioni volontarie gravi per F. , ritenendo erronea quella operata dai giudicanti. Ciò, in base al rilievo che M. era ben consapevole dei pericoli da lui creati e del fatto che le pratiche da lui poste in essere comportavano necessariamente, per le due donne, sensazioni di dolore, se non vere e proprie abrasioni, da ricondurre alla nozione di percosse o lesioni volontarie. Per effetto di ciò la morte di C. rappresenta l’evento di condotte dolose, dirette a ferire, sicché gli va imputato per la sua prevedibilità. Il ricorrente sottolinea che, per la giurisprudenza di legittimità, il delitto di omicidio preterintenzionale ricorre anche quando gli atti diretti a commettere uno dei delitti previsti dagli articoli 581 e 582 cod. pen. – dai quali sia derivata la morte come conseguenza non voluta – siano stati posti in essere con dolo eventuale (‘accettando il rischio di cagionare con la propria condotta sensazioni dolorose e lesioni’); inoltre, che il consenso prestato dalle ragazze non può avere, nello specifico, efficacia scriminante, essendo ‘assolutamente imprevedibili le conseguenze della condotta del M. ‘, anche da parte di quest’ultimo, e che il consenso prestato dalle vittime era comunque invalido, ex art. 5 cod. civ., riguardando pratiche sadomaso poste in essere in luogo pubblico (il garage dell’Agenzia delle Entrate), e perciò sanzionate dall’art. 527 cod. pen..

3.2. La parte civile (madre di C.P. ) ricorre anch’essa per violazione dell’art. 584 cp e per l’illogicità della motivazione con cui è stata operata la diversa qualificazione del reato. Sottolinea anch’essa che il reato di omicidio preterintenzionale ricorre pur quando gli atti diretti a percuotere o ferire siano stati posti in essere con dolo eventuale (cioè, con la rappresentazione, da parte dell’agente, ‘della probabilità o semplice possibilità del verificarsi delle percosse o delle lesioni’), com’è dato – secondo la ricorrente – constatare nella specie.

Lamenta che i giudici di merito abbiano travisato il materiale probatorio (C.T. medico legale del dr. B. ; C.T. Tossicologica, a firma del dr. R. ; C.T. criminologica, a firma del prof. I. ; le dichiarazioni di L. , esperto di pratiche sadomaso; le dichiarazioni dello stesso imputato) e che abbiano ravvisato – nei fatti – la colpa con previsione, pur richiamando atti processuali che certificano l’esistenza del dolo. Infatti, aggiunge, la Corte ha riconosciuto che ‘provocare una sensazione dolorosa attraverso il soffocamento, sia pure in vista del conseguimento del successivo piacere sessuale, equivale a integrare il dolo di percosse’ ed ha richiamato la consulenza medico legale del dr. B. (che ha individuato la causa del decesso ‘nell’asfissia meccanica da impiccamento’), nonché le dichiarazioni del teste La Forgia (‘maestro’ nelle discipline del sadomasochismo, che aveva formulato l’ipotesi del breath playing) e la consulenza del prof. I. (che aveva ritenuto più plausibile l’ipotesi del legamento-soffocamento); eppure ha concluso – incoerentemente – per ritenere non provato il ‘gioco dell’asfissia’, che rimanda alla prevedibilità delle lesioni (e quindi all’omicidio preterintenzionale). Critica poi la motivazione con cui è stata ravvisata la volontarietà del consenso prestato dalle ragazze, nonostante si dia atto che le due avevano assunto alcol e stupefacenti, ed il silenzio serbato intorno alle dichiarazioni rese da M. nel corso di una inchiesta giornalistica, andata in onda il 22/1/2012, allorché riconobbe che ‘mettere le corde intorno al collo è pericoloso e non si deve fare’.

3.3. L’imputato ricorre con tre motivi. Col primo lamenta l’erronea applicazione, in relazione all’omicidio preterintenzionale, dell’art. 61, n. 3, cod. pen., nonché l’assenza di motivazione sul punto. A suo giudizio, tutti gli elementi valorizzati dai giudici di merito per ritenere provata la previsione – da parte sua dell’evento letale depongono, invece, per il carattere colposo della condotta e rilevano esclusivamente per la determinazione del grado della colpa, afferendo alla imperizia e negligenza dell’agente, e non alla possibilità di prevedere l’evento. Inoltre, si tratta di argomentazioni in parte contraddittorie e in parte fondate su presupposti erronei. Infatti, il coltello era da lui detenuto all’interno della propria autovettura, parcheggiata a pochi metri di distanza, e quindi a portata di mano, ed i nodi che serravano le corde intorno al collo delle ragazze erano ‘bloccati’, e quindi inidonei a costituire pericolo per la loro incolumità.

Inoltre, le donne poggiavano con uno o due piedi per terra, sicché non v’era pericolo ‘di restare sollevate in aria’. Tutto ciò dimostra, quindi, a suo giudizio, che egli non poteva ragionevolmente prevedere che la pratica potesse avere, in concreto, un esito fatale. Sottolinea che coessenziale all’aggravante in parola è ‘la rappresentazione o rappresentabilità concreta dell’evento’ e che la sua sussistenza deve essere oggetto di specifico accertamento, del tutto omesso, invece, nel caso specifico. Lamenta che, del tutto irragionevolmente, la Corte di merito abbia negato rilevanza – per escludere il nesso causale – al malore che colpì C.P. ; malore – del tutto imprevedibile, dovuto, verosimilmente, ad ‘una pregressa patologia clinica – che deve essere considerato la vera causa del decesso di quest’ultima.

Col secondo motivo deduce una mancanza di motivazione in ordine al giudizio di bilanciamento tra circostanze e col terzo la violazione dell’art. 133 cod. pen., dovuta al fatto che la Corte di merito ha attribuito rilevanza esclusivamente alla gravità della condotta e al grado della colpa, ‘omettendo di valutare tutti gli altri elementi positivi che avrebbero potuto permettere al giudice di contenere la pena entro limiti meno elevati’.

Considerato in diritto

I ricorsi sono tutti infondati e vanno, pertanto, rigettati.

  1. Il ricorso del Pubblico Ministero e della parte civile pongono la medesima questione di diritto e vanno, pertanto, affrontati unitariamente. A giudizio dei suddetti ricorrenti, il fatto è da qualificare in termini di omicidio preterintenzionale perché – fondamentalmente – l’imputato pose in essere atti diretti a percuotere o ferire, per cui l’evento morte (per C. ) e l’evento lesioni (per F. ) gli vanno imputati: non è ben chiaro se perché accettò il rischio del loro verificarsi, perché li previde in concreto, perché si trattava di eventi prevedibili o perché vanno loro imputati oggettivamente (le sole alternative che hanno giuridica rilevanza).

La tesi non può, comunque, essere condivisa.

1.1. Vale la pena fare, preliminarmente, chiarezza sui principi. Ai fini del delitto di omicidio preterintenzionale, l’elemento psicologico consiste nell’aver voluto (anche solo a livello di tentativo) l’evento minore (percosse o lesioni) e non anche l’evento più grave (morte), che costituisce solo la conseguenza diretta della condotta dell’agente. Questa Corte ha anche precisato – innovando rispetto a precedente giurisprudenza – che l’elemento soggettivo del delitto di omicidio preterintenzionale non è costituito da dolo e responsabilità oggettiva né dal dolo misto a colpa, ma unicamente dal dolo di percosse o lesioni, in quanto la disposizione di cui all’art. 43 cod. pen. assorbe la prevedibilità di evento più grave nell’intenzione di risultato. Pertanto, la valutazione relativa alla prevedibilità dell’evento da cui dipende l’esistenza del delitto ‘de quo’ è nella stessa legge, essendo assolutamente probabile che da una azione violenta contro una persona possa derivare la morte della stessa (Cass., n. 791 del 18/10/2012).

Elementi essenziali dell’omicidio preteintenzionale sono, pertanto, secondo l’espresso dettato normativo, ‘atti diretti’ a percuotere e/o ferire; vale a dire, atti diretti ad esercitare una coazione fisica sulla persona – riconducibili alla previsione dell’art. 581 cod. pen., ovvero a quella dell’art. 582 – che abbiano, come fine ultimo, l’inflizione di una sofferenza (sia essa – nelle percosse – una sensazione di dolore o di fastidio; ovvero – nelle lesioni – una menomazione, anche temporanea, dell’integrità fisica). In ogni caso è richiesta, quindi, una violenta manomissione della fisicità del soggetto passivo, attuata contro la volontà di quest’ultimo. Di conseguenza, l’elemento psicologico del reato di percosse o lesioni è dato dalla coscienza e volontà di serbare una condotta violenta, tale da cagionare alla vittima una sensazione di dolore (nelle percosse) o una malattia (nelle lesioni).

Un siffatto elemento psicologico è stato ragionevolmente escluso dal giudice della sentenza impugnata, il quale ha rilevato che la condotta – posta in essere da M. col consenso di C. e F. – non era diretta a procurare alcuna sofferenza alle giovani malcapitate, ma, in ipotesi, un ‘piacere’, sia pure umanamente discutibile. E tanto basta ad escludere che sia stato realizzato – da M. – il presupposto dell’omicidio preterintenzionale, giacché un’attività ontologicamente rivolta (con tutte le riserve del caso) a procurare un piacere non può essere posta sullo stesso piano di un’attività rivolta a procurare una sofferenza, per l’ontologica diversità tra esse esistente. L’ontologicità della condotta – comprensiva di elemento oggettivo e soggettivo – non muta per il fatto che, nel caso esaminato, la condotta di M. era caratterizzata (anche) da pratiche costrittive, ovvero per il fatto che l’attività da lui spiegata avrebbe potuto, prevedibilmente, provocare delle abrasioni o delle ecchimosi sul corpo delle ragazze, giacché l’elemento soggettivo dei reati in questione non può essere individuato prescindendo dall’oggetto giuridico del reato, che è dato dalla tutela della incolumità individuale (ovvero, secondo certa dottrina, anche dalla ‘signoria dell’uomo sulla propria sfera senso-percettiva’), sicché solo le condotte coscientemente rivolte ad offendere il bene suddetto realizzano la tipicità del reato. Prova ne sia che, se si dovesse avere riguardo solo all’aspetto naturalistico della condotta e alle sue conseguenze, rientrerebbero nel fatto tipico anche condotte rivolte (non all’offesa, ma) alla tutela dell’integrità fisica (come la condotta del medico che incida sui tessuti del paziente per estirpare un male; la condotta del rianimatore che schiaffeggi la persona per farla rinvenire; ecc. ecc.). Vi rientrerebbero, assurdamente, anche le pratiche sessuali ‘normali’, le quali determinano, comunque, microlesioni – generalmente impercettibili – sul corpo dei praticanti (o effetti più appariscenti – quali ecchimosi, tumefazioni o graffi – a seconda delle modalità di consumazione del rapporto o della foga in esso profusa).

1.2. Tale impostazione non contrasta con l’orientamento di legittimità, richiamato da entrambi i ricorrenti (anzi, è da esso confermata), secondo cui il delitto di omicidio preterintenzionale ricorre anche quando gli atti diretti a commettere uno dei delitti previsti dagli artt. 581 e 582 cod. pen., dai quali sia derivata, come conseguenza non voluta, la morte, siano stati posti in essere con dolo eventuale. Tale giurisprudenza è stata elaborata, infatti, proprio con riferimento a casi in cui la morte della vittima era conseguita a condotte rivolte a percuotere o ferire, poste in essere dall’agente o da un complice, ed era stata la conseguenza prevedibile della condotta tenuta (nel caso esaminato dalla sentenza n. 4237 del 11/12/2008 l’imputato aveva volontariamente sospinto, con la motrice di un camion, la vittima; nel caso esaminato dalla sentenza n. 44751 del 12/11/2008 l’imputato aveva concordato con altri l’esecuzione di una rapina, a cui era conseguita la morte del rapinato per effetto della condotta violenta del complice; nel caso esaminato dalla sentenza n. 40202 del 13/10/2010 l’imputato aveva sparato alcuni colpi di pistola contro un soggetto in fuga); vale a dire, di una condotta rivolta – comunque – a offendere il bene tutelato dagli artt. 581 e 582 cod. pen.. Conseguentemente, pertanto, e in coerenza coi principi sopra richiamati, la Suprema Corte ha ritenuto, nei casi suddetti, che l’evento dovesse essere addebitato all’autore delle percosse o delle lesioni, siccome a queste collegato causalmente. Ma è evidente che i casi passati in rassegna non sono – per le ragioni sopra esposte – assimilabili a quello di cui si discute, per l’assenza della volontà di percuotere o ferire. Inconferenti sono, pertanto, tutte le disquisizioni sulla qualificazione della pratica di cui si discute (‘bondage’ o ‘breath playing’), giacché ciò che esclude la riconduzione delle pratiche suddette al concetto di ‘attività violenta’ – inquadrabile nelle fattispecie di percosse o lesioni – è l’assenza della volontà di provocare sensazioni dolorose ai soggetti che ad esse si sottopongono. Né la natura di dette pratiche muta per il fatto che contengono elementi di costrizione, in sé neutri, o sono suscettibili di provocare sensazioni dolorose: queste sono richieste, infatti, e accettate, per imperscrutabili ragioni dell’animo umano, da coloro che si sottopongono alle pratiche in questione, per cui non sono idonee a mutare la qualificazione giuridica delle condotte da cui hanno origine.

1.3. Sotto altro profilo non può farsi a meno di considerare, poi, che i reati di lesioni e percosse presuppongono il dissenso della persona offesa rispetto alle attività violente su di lei esercitate. Dissenso insussistente nella specie, essendo certamente presente il consenso di C. e F. rispetto alle attività costrittive su di loro esercitate. Anche per questo motivo è da escludere che sia venuta ad esistenza la condizione principale per la configurabilità del delitto di omicidio preterintenzionale.

Le riserve sollevate da entrambi i ricorrenti sulla validità del consenso prestato dalle ragazze attengono, evidentemente, a questione di fatto, su cui il sindacato Corte della Corte di Cassazione può esercitarsi (esclusivamente) per la verifica della congruenza e logicità della motivazione. E la Corte territoriale, sottolineando che tutti i partecipanti al ‘gioco’ avevano assunto ‘modiche quantità’ di alcol e sostanza stupefacente e che le ragazze e M. avevano già esperienza del ‘gioco’ (circostanze, queste, nemmeno messe in discussione dai ricorrenti), ha spiegato sufficientemente perché il consenso prestato da C. e F. non fosse da ritenere invalido. Certamente non è da ritenere invalido, poi, perché (circostanza sottolineata dal Pubblico Ministero ricorrente) ‘erano assolutamente imprevedibili le conseguenze della condotta del M. ‘, trattandosi di profilo attinente alla colpa, per come si dirà, e non certo alla efficacia scriminante del consenso; ovvero per contrasto con l’art. 5 cod. civ., che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo che cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica o siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume, giacché, nella specie, il consenso prestato dalle ragazze non riguardò un atto del primo tipo, né atti del secondo tipo. È pacifico, invero, che non vi fu alcuna ‘disposizione’ del proprio corpo da parte delle ragazze, mentre il luogo prescelto per il fatto non ha alcuna incidenza sulla validità del consenso, potendo, semmai, dar luogo ad autonoma responsabilità per violazione di altre norme amministrative o penali. Tanto, a prescindere dal fatto che – data la ratio dell’art. 527 cod. pen. – ‘luogo pubblico’ non è quello di proprietà di un ente pubblico, ma quello a cui può accedere il pubblico, cosicché possa risultare violato il bene sotteso alla disposizione citata. Nella specie, nessun argomento è stato speso per spiegare perché al garage dell’Agenzia delle Entrate potessero accedere, all’ora e all’epoca del fatto, terze persone.

1.4. Di assoluta irrilevanza, infine, sulla ricostruzione dell’elemento psicologico del reato sono le dichiarazioni rese da M. nel corso della trasmissione televisiva del (OMISSIS) (allorché riconobbe – secondo la parte civile ricorrente che ‘mettere le corde intorno al collo è pericoloso e non si deve fare’). A parte il fatto che si tratta di dichiarazioni rese, secondo la stessa ricorrente, dopo l’evento per cui è processo (e, quindi, allorché anche M. aveva capito, dopo l’esperienza vissuta, che ‘è pericoloso e non si deve fare’), resta il fatto che la pericolosità della condotta rimanda alle precauzioni adoperate per fronteggiarla, e quindi, eventualmente, alla colpa; non certo al dolo.

  1. Il ricorso di M. è ugualmente infondato. La colpa cosciente è data, per unanime opinione, dalla previsione dell’evento, che l’agente ritiene di poter evitare, confidando nella sua abilità. Nella specie, il fatto che M. avesse previsto l’evento mortale – ma confidasse nella sua capacità di evitarlo – è stato dimostrato, oltre che con argomenti effettivamente poco conferenti, col sottolineare che aveva frequentato corsi di sado-masochismo, col fatto che aveva ‘bloccato’ il nodo della corda posta intorno al collo delle ragazze e con l’evidente pericolosità della situazione da lui creta, che rendevano evidente, anche a persona poco accorta, il rischio di passare dal ‘gioco’ alla tragedia. Dovendosi accertare uno stato psicologico, gli argomenti sopra esposti appaiono effettivamente dotati della carica di persuasività necessaria alla dimostrazione richiesta, perché conducenti rispetto al dato che si è inteso dimostrare, mentre le censure difensive non evidenziano nessuna incongruenza o illogicità argomentativa idonea a scardinare il ragionamento del giudicante. Le pretese ‘contraddizioni’ nel ragionamento giudiziale – riportate in parte narrativa – non sono infatti tali (il ‘nodo bloccato’ non rappresentava affatto una garanzia assoluta rispetto all’eventualità dello strangolamento; il fatto che le donne poggiassero con un piede per terra non diminuiva, sotto alcun profilo, il rischio connesso alla perdita dell’equilibrio), mentre i ‘presupposti erronei’ – da cui, secondo il ricorrente, si sarebbero mossi i giudici di merito – sono assertivi, o riguardano dati soggettivamente e liberamente interpretati (il coltello per recidere le corde non era affatto a portata di mano, se si trovava, come riconosciuto dal ricorrente, nella sua auto, ovunque questa fosse parcheggiata).

Assertiva è anche la ‘patologia clinica’ che colpì C.P. , posto che il ragionamento difensivo non poggia su alcun atto processuale (che, infatti, non viene richiamato). Del resto, la sentenza impugnata si è espressa, sul punto, con parole inequivocabili (pagg. 9-10), che il ricorrente non si è nemmeno preoccupato di confutare, sicché non può che rilevarsi la genericità – sul punto della doglianza.

2.1. Le lamentele che attengono al trattamento sanzionatorio sono inammissibili per totale genericità, in quanto si dà atto che la determinazione della pena è stata effettuata con riferimento alla gravità della condotta e al grado della colpa: vale a dire, in base ad elementi che costituiscono legittimo riferimento per l’esercizio della potestà sanzionatoria; d’altra parte, si invocano ‘altri elementi positivi’ nemmeno enunciati nella loro consistenza. Quanto al bilanciamento tra le circostanze, trattasi di giudizio che rientra nella discrezionalità del giudice e non postula un’analitica esposizione dei criteri di valutazione (C., Sez. I, 9.12.2010, n. 2668; C., Sez. II, 8.7.2010, n. 36265; C., 26.3.1990; C., Sez. IV, 10.6.1988; C., Sez. I, 18.5.1987; C., Sez. V, 8.4.1986). Pertanto, non incorre nel vizio di motivazione il giudice di appello che, nel formulare il giudizio di comparazione, dimostri di avere considerato e sottoposto a disamina gli elementi enunciati nella norma dell’art. 133 cod. pen. e gli altri dati significativi, apprezzati come assorbenti o prevalenti su quelli di segno opposto (Cass., n. 3610 del 15/1/2014). Nella specie, il riferimento alla condotta sconsiderata di M. e alla sua ‘assoluta imprudenza’ vale a illustrare il percorso seguito nel giudizio di comparazione ed esclude, pertanto, che il giudice d’appello si sia sottratto all’onere di motivazione su di lui gravante.

  1. Segue a tanto il rigetto dei ricorsi, atteso che i motivi proposti, pur se non manifestamente inammissibili, risultano infondati per le ragioni sin qui esposte; ai sensi dell’art. 592 c.p.p., comma 1, e art. 616 c.p.p le parti private ricorrenti vanno condannate al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna il ricorrente M.S. e la ricorrente parte civile P.C. al pagamento, ciascuno, delle spese processuali.

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Originally posted 2018-03-04 17:36:33.