BANCAROTTA FRAUDOLENTA AVVOCATO ESPERTO DIFESA BOLOGNA MILANO VICENZA VENEZIA PAVIA FIRENZE PADOVA VERONA

BANCAROTTA FRAUDOLENTA AVVOCATO ESPERTO DIFESA BOLOGNA MELANO VICENZA VENEZIA PAVIA FIRENZE PADOVA VERONA

In tale fondamentale arresto il Supremo Collegio rilevava, che, in pieno accordo con i principi espressi dalla giurisprudenza della Corte EDU, fermi restando i limiti derivanti dal dovere di immediata declaratoria di cause di non procedibilità o di estinzione del reato, ex art. 129 c.p.p., comma 1, il giudice di appello, investito dalla impugnazione del pubblico ministero che si dolga dell’esito assolutorio di primo grado adducendo una erronea valutazione sulla concludenza delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata nel senso dell’affermazione della responsabilità penale dell’imputato senza avere proceduto, anche d’ufficio, a norma dell’art. 603 c.p.p., comma 3, a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado.

Si tratta di una conclusione perfettamente in linea, sottolineava il Supremo Consesso, con la proposta di introduzione di una esplicitazione di un simile dovere del giudice di appello, nell’ambito di un apposito comma (4-bis) da inserire nell’art. 603 c.p.p., formulata dalla Commissione ministeriale istituita con decreto del 10 giugno 2013 per la elaborazione di interventi in tema di processo penale.

Proposta effettivamente recepita dal Legislatore, che, con la L. 23 giugno 2017, n. 103, art. 1, comma 58, ha inserito nel disposto dell’art. 603 c.p.p., il comma 3 bis, in cui si statuisce, con effetto a decorrere dal 3 agosto 2017, che “nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla prova dichiarativa, il giudice dispone” (vale a dire, è tenuto a disporre) “la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”.

 

Cassazione Penale Sez. V, Sent., (data ud. 18/02/2021) 29/07/2021, n. 29864

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VESSICHELLI Maria – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Eduardo – Consigliere –

Dott. GUARDIANO Alfredo – rel. Consigliere –

Dott. BELMONTE Maria Teresa – Consigliere –

Dott. CALASELICE Barbara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

 

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

B.S., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 24/01/2020 della CORTE APPELLO di BOLOGNA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

 

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. ALFREDO GUARDIANO;

il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. BIRRITTERI LUIGI, ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

  1. Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Bologna, in parziale riforma della sentenza con cui il tribunale di Rimini, in data 12.7.2018, aveva assolto B.S., con la formula perchè il fatto non costituisce reato, dal delitto, tra gli altri in contestazione, di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione ascrittogli nel capo A), in qualità di socio accomandatario della “(OMISSIS) SAS”, dichiarata fallita in data 17.7.2015, e di fallito in proprio, dichiarava il B. colpevole del reato de quo, condannandolo alle pene, principale ed accessorie, ritenute di giustizia.
  2. Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l’annullamento, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, lamentando vizio di motivazione, sotto il profilo del travisamento della prova testimoniale, rappresentata dalle deposizioni dei testi M.V. e C.M., nonchè della prova documentale costituita dal contenuto dei partitari esaminati dalla curatrice fallimentare.

In particolare, ad avviso del ricorrente, l’assunto della corte territoriale, secondo cui i prelievi delle somme di denaro operati dal B. avrebbero avuto natura distrattiva, in quanto non pertinenti rispetto all’attività societaria, con connesso depauperamento del patrimonio sociale, perchè privi di contropartita, risulta smentito dal contenuto delle prove innanzi indicate, non considerate dalla corte territoriale, sulle quali si fondava la decisione assolutoria del giudice di primo grado, secondo cui ogni movimentazione di denaro da parte dell’imputato era stata finalizzata al fine di garantire gli adempimenti verso i creditori. Le prove in questione, infatti, rappresentano una realtà affatto diversa: l’imputato ha utilizzato i fondi che si assume oggetto di distrazione per completare gli appartamenti costruiti in corso di allestimento al fine di locarli, in modo da poter ridurre l’esposizione debitoria nei confronti dei creditori della società.

2.1. Con requisitoria scritta del 1.2.2021, depositata sulla base della previsione del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8, che consente la trattazione orale in udienza pubblica solo dei ricorsi solo dei ricorsi per i quali tale modalità di celebrazione è stata specificamente richiesta da una delle parti, il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione chiede che il ricorso sia accolto, con conseguente annullamento con rinvio della sentenza impugnata.

  1. Il ricorso è fondato e va accolto.
  2. Al riguardo giova premettere una, sia pure sintetica, ricostruzione dell’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, formatasi sulla questione di diritto posta dal ricorrente, partendo dai principi affermati nella nota sentenza “Dasgupta” delle Sezioni Unite di questa Corte di Cassazione.

 

In tale fondamentale arresto il Supremo Collegio rilevava, che, in pieno accordo con i principi espressi dalla giurisprudenza della Corte EDU, fermi restando i limiti derivanti dal dovere di immediata declaratoria di cause di non procedibilità o di estinzione del reato, ex art. 129 c.p.p., comma 1, il giudice di appello, investito dalla impugnazione del pubblico ministero che si dolga dell’esito assolutorio di primo grado adducendo una erronea valutazione sulla concludenza delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata nel senso dell’affermazione della responsabilità penale dell’imputato senza avere proceduto, anche d’ufficio, a norma dell’art. 603 c.p.p., comma 3, a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado.

Si tratta di una conclusione perfettamente in linea, sottolineava il Supremo Consesso, con la proposta di introduzione di una esplicitazione di un simile dovere del giudice di appello, nell’ambito di un apposito comma (4-bis) da inserire nell’art. 603 c.p.p., formulata dalla Commissione ministeriale istituita con decreto del 10 giugno 2013 per la elaborazione di interventi in tema di processo penale.

Proposta effettivamente recepita dal Legislatore, che, con la L. 23 giugno 2017, n. 103, art. 1, comma 58, ha inserito nel disposto dell’art. 603 c.p.p., il comma 3 bis, in cui si statuisce, con effetto a decorrere dal 3 agosto 2017, che “nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla prova dichiarativa, il giudice dispone” (vale a dire, è tenuto a disporre) “la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”.

Nel corpo della medesima motivazione venivano affermati anche ulteriori principi, che appare opportuno ribadire.

In particolare, si è precisato, da un lato, che costituiscono prove decisive al fine della valutazione della necessità di procedere alla rinnovazione della istruzione dibattimentale delle prove dichiarative nel caso di riforma in appello del giudizio assolutorio di primo grado fondata su una diversa concludenza delle dichiarazioni rese, quelle che, sulla base della sentenza di primo grado, hanno determinato, o anche soltanto contribuito a determinare, l’assoluzione e che, pur in presenza di altre fonti probatorie di diversa natura, se espunte dal complesso materiale probatorio, si rivelano potenzialmente idonee ad incidere sull’esito del giudizio, nonchè quelle che, pur ritenute dal primo giudice di scarso o nullo valore, siano, invece, nella prospettiva dell’appellante, rilevanti da sole o insieme ad altri elementi di prova – ai fini dell’esito della condanna.

Dall’altro, che la necessità per il giudice dell’appello di procedere, anche d’ufficio, alla rinnovazione dibattimentale della prova dichiarativa nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità di una dichiarazione ritenuta decisiva, non consente distinzioni a seconda della qualità soggettiva del dichiarante.

In considerazione del valore centrale attribuito alla esigenza di procedere alla rinnovazione istruttoria, le Sezioni Unite evidenziavano, infine, come anche il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l’istruzione dibattimentale, anche d’ufficio (cfr. Cass., Sez. U., n. 27620 del 28/04/2016, rv. 267488, nonchè, nello stesso senso, in tema di giudizio abbreviato, Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, rv. 269787, Patalano).

Si è, quindi, evidenziato come, nell’ipotesi in cui sia appellata una sentenza di assoluzione, il contraddittorio deve essere implementato con il principio dell’oralità anche in appello, perchè questo è il metodo epistemologico più corretto ed idoneo a superare l’intrinseca contraddittorietà fra due sentenze che, pur sulla base dello stesso materiale probatorio, giungano ad opposte conclusioni, non apparendo influente, sotto detto aspetto, la circostanza che l’impugnazione sia proposta dal pubblico ministero piuttosto che dalla parte civile, posto che il nostro sistema processuale non prevede differenziazioni delle regole probatorie ai fini dell’accertamento della responsabilità penale e civile nel contesto unitario del processo penale, non potendosi, sotto il profilo del diritto di difesa, diversamente declinarsi le regole poste a presidio dello stesso, a seconda se vengano in rilievo profili penali o esclusivamente civili, non essendo ciò in alcun modo desumibile dai principi della Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, come sviluppati dall’interpretazione della Corte comunitaria e recepita nella Carta Costituzionale all’art. 111, nonchè dalla prospettiva posta a fondamento dell’elaborazione giurisprudenziale delle Sezioni Unite di questa Corte” (cfr. Cass., Sez. U. n. 14426 del 28/1/2019, Rv. 275112, Pavan, in motivazione).

A ciò si aggiunga, sotto diverso, ma concorrente profilo, che, come affermato dall’orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, in tema di giudizio di appello, la motivazione rafforzata, richiesta nel caso di riforma della sentenza assolutoria o di condanna di primo grado, consiste nella compiuta indicazione delle ragioni per cui una determinata prova assume una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella ritenuta dal giudice di primo grado, nonchè in un apparato giustificativo che dia conto degli specifici passaggi logici relativi alla disamina degli istituti di diritto sostanziale o processuale, in modo da conferire alla decisione una forza persuasiva superiore (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 6, n. 51898 del 11/07/2019, Rv. 278056; Cass., Sez. 3, n. 50351 del 29/10/2019, Rv. 277616).

Tanto premesso, non può non rilevarsi come la corte territoriale, nel ribaltare la decisione assolutoria del giudice di primo grado, non abbia fatto buon governo di tali principi.

Il punto focale della fattispecie contestata all’imputato è rappresentato dalla natura distrattiva o meno delle operazioni effettuate dal B., prelevando somme di denaro dalla “cassa” ovvero dal conto corrente bancario della società fallita, per un importo complessivo di 145.129,48 Euro, come descritto nel capo A) dell’imputazione.

Il giudice di primo grado, nel pronunciare sentenza di assoluzione perchè il fatto non costituisce reato, si è richiamato a un principio affermato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui in tema di bancarotta fraudolenta per distrazione, l’accertamento dell’elemento oggettivo della concreta pericolosità del fatto distrattivo e del dolo generico deve valorizzare la ricerca di “indici di fraudolenza”, rinvenibili, ad esempio, nella disamina della condotta alla luce della condizione patrimoniale e finanziaria dell’azienda, nel contesto in cui l’impresa ha operato, avuto riguardo a cointeressenze dell’amministratore rispetto ad altre imprese coinvolte, nella irriducibile estraneità del fatto generatore dello squilibrio tra attività e passività rispetto a canoni di ragionevolezza imprenditoriale, necessari a dar corpo, da un lato, alla prognosi postuma di concreta messa in pericolo dell’integrità del patrimonio dell’impresa, funzionale ad assicurare la garanzia dei creditori, e, dall’altro, all’accertamento in capo all’agente della consapevolezza e volontà della condotta in concreto pericolosa (cfr. Cass., Sez. Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017, Rv. 270763) Ad avviso del giudice di primo grado tali “indici di fraudolenza” non sono configurabili nel caso in esame, in quanto, dalle risultanze processuali, era emerso che tutte le attività poste in essere dall’imputato, imprenditore edile a capo di un gruppo avente ad oggetto la costruzione e la vendita di unità immobiliari, “erano state finalizzate alla vitalità dell’azienda, alla sua ripresa in un momento di crisi generale e alla ragionevolezza imprenditoriale suffragata da strumenti leciti, quali il concordato preventivo, la realizzazione di contratti di affitto, che effettivamente avevano prodotto utili per il 2011” (con i quali, evidenzia il tribunale, “aveva addirittura saldato una parte dei debiti”) “e la partecipazione al salvataggio della società, mediante l’impiego di propri capitali e dei capitali dei propri familiari”.

Significativa, nella prospettiva seguita dal tribunale, è la circostanza che il B., allo scopo di salvare la società, non solo era riuscito a concludere con gli istituti bancari che vantavano posizioni creditorie nei suoi confronti un concordato preventivo, ma, soprattutto, “aveva diversificato la finalizzazione degli immobili: gli appartamenti in via di costruzione erano quindi stati bloccati, preferendo dar corso all’ultimazione di quelle unità immobiliari che avrebbero potuto essere poste in locazione”, ottenendo dai relativi canoni di affitto il ricavo finanziario necessario a coprire le spese vive e parte dei debiti.

In questa prospettiva, il tribunale ha ricondotto le movimentazioni di denaro imputabili al B. alla finalità, affatto distrattiva, di “garantire gli adempimenti verso creditori”, senza tacere, per altro verso, che “a fronte di un patrimonio immobiliare attivo di circa 5 milioni di Euro”, la curatrice del fallimento “non ha saputo specificare se le fatturazioni di cui al capo A) fossero destinate a prestazioni, consulenze o attività necessarie a far proseguire utilmente la società poi dichiarata fallita, limitandosi ad asserire di aver indicato l’esistenza di tali uscite senza altro considerare o poter considerare”.

Centrale, dunque, nella fattispecie in esame, è il tema della destinazione delle somme indicate nel capo A) dell’imputazione, in quanto, come è noto, integra il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione qualunque operazione diretta a distaccare dal patrimonio sociale, senza immettervi il corrispettivo e senza alcun utile, beni ed altre attività, così da impedirne l’apprensione da parte degli organi fallimentari e causare un depauperamento del patrimonio sociale, in pregiudizio dei creditori (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 5, n. 36850 del 06/10/2020, Rv. 280106). Ed invero, il patrimonio di una società commerciale non è necessariamente intangibile, potendo configurarsi una sua diversa destinazione, qualificabile in termini di distrazione, solo se le sue – componenti siano impiegate per finalità estranee all’oggetto sociale ovvero senza remunerazione, non quando venga utilizzato per attività rientranti negli scopi dell’impresa, con accollo del relativo rischio economico, insito nella natura stessa dell’attività imprenditoriale.

Distrazione, in relazione alla quale va parametrato l’elemento soggettivo del reato, costituito dal dolo generico, per la cui sussistenza non è necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, nè lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (cfr. Cass. Sez. U., n. 22474 del 31/03/2016, Rv. 266805).

 

Orbene, entrambi i profili non vengono affrontati adeguatamente dalla corte territoriale, che, con motivazione assolutamente assertiva, si limita ad affermare, da un lato, che non risulta dimostrata la destinazione delle movimentazioni di denaro in precedenza indicate al fine di garantire gli adempimenti verso i creditori, dall’altro che tali movimentazioni, essendo prive di corrispondenza sinallagmatica, non potevano che essere ricondotte ad una finalità distrattiva, senza indicare, tuttavia, le ragioni per cui gli esborsi in questione debbano considerarsi estranei alle finalità dell’impresa.

Omissione particolarmente significativa ove si tenga presente, che, come dimostrato dal ricorrente, dai partitari che la curatrice ha affermato di avere esaminato, allegati al ricorso, si evince che gli esborsi di denaro di cui essi danno contezza sono stati indicati con la dicitura “pagamenti fornitori”, che, secondo la prospettazione difensiva, sarebbero proprio i fornitori che hanno prestato la loro opera e i loro servizi per consentire il completamento degli appartamenti dai quali il B. si riprometteva di conseguire una fonte di sostegno finanziario per la società, come evidenziato dal tribunale di Rimini.

La corte territoriale, in conclusione, è giunta a un ribaltamento della pronuncia assolutoria, senza procedere, come avrebbe dovuto, alla rinnovazione delle prove dichiarative su cui il giudice di primo grado ha fondato la sua decisione (deposizioni dei testi M.; C. e Mo.).

Sotto altro profilo il giudice di appello ha fondato, altresì, la pronuncia di condanna dell’imputato su di una motivazione incompleta, che, da un lato, non si è confrontata adeguatamente con il percorso argomentativo del giudice di primo grado; dall’altro, ha omesso di prendere in considerazione un importante elemento probatorio acquisito al processo (i partitari, di cui si è detto), potenzialmente in grado di suffragare l’assunto del tribunale di Rimini, omissione che integra il vizio di travisamento della prova per omissione, deducibile in cassazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), (cfr. Cass., Sez. 6, n. 8610 del 05/02/2020, Rv. 278457).

  1. Sulla base delle svolte considerazioni, la sentenza impugnata va annullata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della corte di appello di Bologna, che provvederà a colmare le evidenziate lacune, uniformandosi ai principi di diritto innanzi richiamati.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della corte di appello di Bologna.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 18 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2021

 

La perdita ingiustificata del patrimonio o la elisione della sua consistenza costituisce un vulnus alle aspettative dei creditori e integra, pertanto, l’evento giuridico presidiato dalla fattispecie della bancarotta fraudolenta. Tali considerazioni giustificano la, solo apparente, inversione dell’onere della prova incombente sul fallito, in caso di mancato rinvenimento di beni da parte della procedura e in assenza di giustificazione al riguardo (nel senso di dare conto di spese, perdite o oneri compatibili con il fisiologico andamento della gestione imprenditoriale), poichè, anche in ragione dell’obbligo di verità gravante sul fallito ai sensi dell’art. 8 comma 3 della legge fallimentare con riferimento alla destinazione di beni di impresa al momento in cui viene interpellato da parte del curatore, obbligo presidiato da sanzione penale, si tratta di legittima sollecitazione affinchè il diretto interessato dia adeguata dimostrazione, in quanto gestore dell’impresa, della destinazione dei beni o del loro ricavato (Sez. 5 n. 7588 del 26/01/2011, rv.249715), derivando dal prelievo di somme dalle casse sociali la valida presunzione della loro dolosa distrazione, essendone pacifica la previa disponibilità, da parte dell’imputato, accertata nella loro esatta dimensione (Sez. 5, n. 35882 del 17/06/2010 Rv. 248425). 1.3. La decisione gravata si è, dunque, conformata ai principi accreditati dalla giurisprudenza prevalente in tema di prova della bancarotta per distrazione, attestati sulla affermazione secondo cui ben può operare il meccanismo della presunzione dalla dolosa distrazione, rilevante, ai sensi dell’art. 192 c.p.p., al fine di affermare la responsabilità dell’imputato, nel caso di un ingiustificato mancato rinvenimento, all’atto della dichiarazione di fallimento, di beni e valori societari, a condizione che sia accertata la previa disponibilità, da parte dell’imputato, di detti beni o attività nella loro esatta dimensione e al di fuori di qualsivoglia presunzione (Sez. 5, n. 35882 del 17/06/2010 Rv. 248425; Rv. 248425 cit.;(Sez. 2, n. 5838 del 09/02/1995 Rv. 201517

 

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Sentenza 26 luglio 2022, n. 29850 Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. SCARLINI Enrico V. S. – Presidente – Dott. BELMONTE T. Maria – rel. Consigliere – Dott. SESSA Renata – Consigliere – Dott. SCORDAMAGLIA Irene – Consigliere – Dott. CUOCO Michele – Consigliere – ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: M.M., nato a (OMISSIS); MA.MA., nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 28/01/2021 della CORTE di APPELLO di ANCONA; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Maria Teresa BELMONTE; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. RICCARDI Giuseppe, che ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi. letta la memoria dell’avvocato Enrico Carmenati, difensore dei ricorrenti, che insiste nei motivi di ricorso, chiedendone l’accoglimento. – Udienza tenutasi ai che sensi del D.L. n. 137 del 28 ottobre 2020, art. 23 comma 8. Svolgimento del processo 1.Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Ancona, in parziale riforma della decisione del Tribunale di quella stessa città – che aveva riconosciuto i fratelli M.M. e MA.MA., nelle rispettive qualità rivestite nella società (OMISSIS) s.a.s. dichiarata fallita il (OMISSIS), colpevoli di bancarotta fraudolenta patrimoniale (capo A, limitatamente, quanto alla distrazione relativa alle somme corrisposte a Pataracchia Giovanni, all’importo di Euro 5.000, e con esclusione della distrazione delle somme versate da M.A.), ritenuta l’aggravante della pluralità dei fatti di bancarotta, di cui all’art. 219 comma 2 L.F., contestata in fatto, condannandoli alla pena di giustizia, con applicazione delle sanzioni accessorie fallimentari per la durata di anni dieci – ha rideterminato le pene accessorie fallimentari commisurandole alla pena principale, confermando nel resto la sentenza di primo grado. 2. Hanno proposto ricorso per cassazione i due imputati, con il ministero del medesimo difensore di fiducia, avvocato Enrico Carmenati, il quale svolge quattro motivi. 2.1. Con il primo, denuncia violazione di legge in relazione al requisito soggettivo del reato, sostenendo che la Corte di appello non avrebbe dimostrato il dolo specifico, nè tenuto conto, sotto tale profilo, della volontà di salvaguardia della società, avendo i ricorrenti agito non in frode dei creditori ma per evitare il dissesto. 2.2. Con il secondo motivo è denunciata l’erronea applicazione dell’art. 62 bis c.p. e correlato vizio della motivazione, in quanto mancante, nella parte in cui la Corte di appello ha negato le circostanze attenuanti generiche, in particolare, in favore di M.M., per il quale non ha considerato lo stato di incensuratezza e il ruolo minore avuto nella condotta distrattiva, rispetto al fratello, come riconosciuto dallo stesso Procuratore Generale. Invece, immotivatamente, la Corte di appello ha posto una equivalenza sanzionatoria tra i due imputati. 2.3. Il terzo motivo contesta la ravvisata sussistenza della circostanza aggravante del danno di rilevante gravità di cui al comma 1 dell’art. 219 L. Fall., mai contestata, in ordine alla quale è stato affermato che, in tema di bancarotta fraudolenta, ai fini della contestazione dell’aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità non è sufficiente, in assenza di una specifica indicazione da cui si comprenda che l’aggravante è stata contestata, nè la mera indicazione delle somme oggetto di distrazione, ancorchè di importo elevato, nè la generica menzione dell’art. 219 L. Fall., quando non sia precisato il riferimento al comma 1 di tale articolo (Sez. 5, n. 34116 del 06/05/2019, Rv. 277300 -02). 2.4. Con il quarto motivo si denuncia vizio di motivazione giacchè la sentenza impugnata non ha spiegato le ragioni della conferma della responsabilità degli imputati, nè ha replicato alle plurime doglianze formulate dagli appellanti, che avevano posto in luce come, dall’istruttoria dibattimentale, fosse emersa l’assenza di condotte distrattive, solo essendo emersa una confusa tenuta delle scritture contabili. Nè era emersa la prova della consapevole volontà di danneggiare i creditori. Motivi della decisione I ricorsi non sono fondati. 1.E’ infondato il primo motivo, e con esso il quarto, con i quali si denunciano la violazione di legge e correlati vizi della motivazione nella ricostruzione dei fatti, e nella loro sussumibilità nella fattispecie contestata di bancarotta fraudolenta patrimoniale, sostenendosi l’erroneo scrutinio degli elementi strutturali della predetta fattispecie delittuosa. Invece, la Corte di appello ha svolto lo scrutinio devoluto attenendosi a corretti e consolidati canoni ed ha motivato compiutamente sulla natura distrattiva delle condotte contestate, consistite, peraltro, in prelievi di somme di denaro per fini extrasocietari, ed in cessioni sottocosto di rami d’azienda. 1.1.E’ bene ricordare, allora, che il delitto di bancarotta distrattiva fraudolenta prefallimentare è reato di pericolo, e, pertanto, ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non è necessaria l’esistenza di un nesso causale tra i ratti di distrazione ed il successivo fallimento (Sez. 5, n. 32352 del 07/03/20.114, Tanzi, Rv. 26:L942; conf., ex plurimis, Sez. 5, n. 11095 del 13/02/2014, Ghirardelli, Rv. 262741; Sez. 5, n. 47616 del 17/07/2014, Simone, Rv. 261683; Sez. 5, n. 26542 del 19/03/2014, Riva, Rv. 260690; Sez. 5, n. 11793/14 del 05/12/2013, Marafioti, Rv. 260199; Sez. 5, n. 232 del 09/10/2012, Sistro, Rv. 254061). Trattandosi di reato di pericolo concreto, l’atto di depauperamento, incidendo negativamente sulla consistenza del patrimonio sociale (Sez. 5, n. 50081 del 14/09/2017, Zazzini, Rv. 271437), deve, dunque, risultare idoneo ad esporre a pericolo l’entità del patrimonio della società in relazione alla massa dei creditori, che deve permanere fino al tempo che precede l’apertura della procedura fallimentare, – che infatti è anche il momento consumativo della fattispecie (Sez. 5, n. 17819 del 24/03/2017, Palitta, Rv. 269562; Sez. u. n. 21039 del 2011, Loy). Come ha precisato la sentenza “Sgaramella”, in tenia di bancarotta fraudolenta per distrazione, l’accertamento dell’elemento oggettivo della concreta pericolosità del fatto distrattivo e del dolo generico deve valorizzare la ricerca di “indici di fraudolenza”, rinvenibili, ad esempio, nella disamina della condotta alla luce della condizione patrimoniale e finanziaria dell’azienda, nel contesto in cui l’impresa ha operato, avuto riguardo a cointeressenze dell’amministratore rispetto ad altre imprese coinvolte, nella irriducibile estraneità del fatto generatore dello squilibrio tra attività e passività rispetto a canoni di ragionevolezza imprenditoriale, necessari a dar corpo, da un lato, alla prognosi postuma di concreta messa in pericolo dell’integrità del patrimonio dell’impresa, funzionale ad assicurare la garanzia dei creditori, e, dall’altro, all’accertamento in capo all’agente della consapevolezza e volontà della condotta in concreto pericolosa. 1.2. La sentenza impugnata e quella di primo grado, che si integra con quella conforme di appello (Sez. 2, n. 11220 del 13/11/1997 – dep. 05/12/1997, Ambrosino, Rv. 209145), hanno correttamente valutato la sussistenza della condotta distrattiva, ricollegata a ingiustificati prelievi di consistenti importi, e alla destinazione di somme della società per finalità estranee alla stessa, adeguandosi al consolidato canone ermeneutico secondo cui la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita può essere desunta dalla mancata dimostrazione da parte dell’amministratore, della destinazione dei beni suddetti o, da generiche asserzioni, non documentate, circa la loro destinazione conforme agli scopi sociali (Sez. 5 n. 11095 del 13/02/2014, Rv. 262741; Sez. 5 n. 22894 del 17/04/2013, Rv. 255385; Sez. 5 n. 3400/05 del 15/12/2004, Rv. 231411; Sez. 5 n. 7048 del 27/11/2008, Rv. 243295). L’indirizzo si fonda sulla considerazione che, nel nostro ordinamento, l’imprenditore assume una posizione di garanzia nei confronti dei creditori, i quali confidano nel patrimonio dell’impresa per l’adempimento delle obbligazioni sociali. Da qui, la diretta responsabilità dell’imprenditore, quale gestore di tale patrimonio, per la sua conservazione ai fini dell’integrità della garanzia. La perdita ingiustificata del patrimonio o la elisione della sua consistenza costituisce un vulnus alle aspettative dei creditori e integra, pertanto, l’evento giuridico presidiato dalla fattispecie della bancarotta fraudolenta. Tali considerazioni giustificano la, solo apparente, inversione dell’onere della prova incombente sul fallito, in caso di mancato rinvenimento di beni da parte della procedura e in assenza di giustificazione al riguardo (nel senso di dare conto di spese, perdite o oneri compatibili con il fisiologico andamento della gestione imprenditoriale), poichè, anche in ragione dell’obbligo di verità gravante sul fallito ai sensi dell’art. 8 comma 3 della legge fallimentare con riferimento alla destinazione di beni di impresa al momento in cui viene interpellato da parte del curatore, obbligo presidiato da sanzione penale, si tratta di legittima sollecitazione affinchè il diretto interessato dia adeguata dimostrazione, in quanto gestore dell’impresa, della destinazione dei beni o del loro ricavato (Sez. 5 n. 7588 del 26/01/2011, rv.249715), derivando dal prelievo di somme dalle casse sociali la valida presunzione della loro dolosa distrazione, essendone pacifica la previa disponibilità, da parte dell’imputato, accertata nella loro esatta dimensione (Sez. 5, n. 35882 del 17/06/2010 Rv. 248425). 1.3. La decisione gravata si è, dunque, conformata ai principi accreditati dalla giurisprudenza prevalente in tema di prova della bancarotta per distrazione, attestati sulla affermazione secondo cui ben può operare il meccanismo della presunzione dalla dolosa distrazione, rilevante, ai sensi dell’art. 192 c.p.p., al fine di affermare la responsabilità dell’imputato, nel caso di un ingiustificato mancato rinvenimento, all’atto della dichiarazione di fallimento, di beni e valori societari, a condizione che sia accertata la previa disponibilità, da parte dell’imputato, di detti beni o attività nella loro esatta dimensione e al di fuori di qualsivoglia presunzione (Sez. 5, n. 35882 del 17/06/2010 Rv. 248425; Rv. 248425 cit.;(Sez. 2, n. 5838 del 09/02/1995 Rv. 201517 1.4. Neppure risultano fondate le doglianze difensive che attingono il profilo soggettivo, in relazione al quale si ritiene che non sono necessari, per la sussistenza del dolo generico, la consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, nè lo scopo di recare pregiudizio ai creditori (Sez. 5, n. 3229/13 del 14/12/2012, Rossetto, Rv. 253932; corf., ex plurimis, Sez. 5, n. 21846 del 13/02/2014, Bergamaschi, Rv. 260407; Sez. 5, n. 44933 del 26/09/2011, Pisani, Rv. 251214), richiedendosi piuttosto che oggetto di consapevolezza sia, in relazione alla concreta situazione della società, l’incidenza dell’atto distrattivo sulle prospettive di soddisfacimento concorsuale dei creditori (Sez. 5, n. 17819 del 24/03/2017 Rv. 269562). Come è stato già sottolineato, “la definizione del dolo generico del reato in termini di consapevolezza e volontà di determinare, col proprio comportamento distrattivo o dissipativo, un “pericolo di danno per i creditori”” si traduce nel riconoscimento che “il reato in esame punisce non già, indifferentemente e sempre, qualsiasi atto in diminuzione del patrimonio della società ma soltanto e tutti quelli che quell’effetto sono idonei a produrre in concreto, con esclusione, pertanto, di tutte le operazioni o iniziative di entità minima o comunque particolarmente ridotta e tali, soprattutto se isolate o realizzate quando la società era in bonis, da non essere capaci di comportare una alterazione sensibile della funzione di garanzia del patrimonio” (Sez. 5, n. 35093 del 04/06/2014, Sistro, Rv. 261446); fatti, questi ultimi, che si rivelano in radice – già sotto il profilo dell’elemento oggettivo – insuscettibili di essere ascritti al paradigma della fraudolenza (Sez. 5 n. 45230 del 16/09/2021., Rv. 282284). Come opportunamente evidenziato da Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017, Sgaramella, Rv. 270763, “all’estremo opposto, la casistica giurisprudenziale consegna, non sporadicamente, casi in cui la fattispecie concreta dà conto, in termini di immediata evidenza dimcstrativa (e al di fuori di qualsiasi logica presuntiva), della “fraudolenza” del patrimoniale e, dunque, non solo dell’elemento materiale, ma anche del dolo del reato in esame: ciò in ragione dei più vari fattori, quali, ad esempio, il collocarsi del singolo fatto in una sequenza di condotte di spoliazione dell’impresa poi fallita ovvero in una fase di già conclamata decozione della stessa”. 1.4.2. Nel caso in scrutinio, la Corte di appello ha evidenziato, quali “indici di fraudolenza” posti in essere in epoca prefallimentare, in uno alla natura familiare dell’impresa e alla congiunta gestione di entrambi i ricorrenti, le concrete attività distrattive costituite da ingenti prelievi, dalla vendita sottocosto di rami di azienda, da incassi non versati nelle casse sociali e da gestioni anomali di importi rilevanti, il tutto in un arco temporale in cui era già palese la condizione di dissesto economico e finanziario della società (pg. 1C) della sentenza). Non hanno mancato i giudici di merito di confutare la tesi difensiva concentratasi sul “movente” delle condotte distrattive, sottolineando come anche, in tale ottica, sia emersa la piena consapevolezza e volontà delle condotte distrattive. 1.4.3. La sentenza impugnata resiste, dunque, anche sotto tale profilo, alle censure difensive avendo la Corte di appello ricostruito in capo a entrambi i ricorrenti, attraverso un corretto ragionamento inferenziale fondato sugli indici di fraudolenza adeguatamente rappresentati, la consapevolezza di porre in essere attività distrattive di consistente rilievo economico – e dunque necessariamente depauperative della garanzie del ceto creditorio – in un momento di crisi economica già conclamata, cosicchè non è revocabile in dubbio la natura distrattiva e il dolo generico. 2.11 secondo motivo, concernente il diniego delle attenuanti generiche a M.M., è inammissibile. Premesso che, in tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purchè sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 c.p., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269), va ribadito che il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell’art. 62-bis, disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella L. 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell’imputato (Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, Starace, Rv. 270986). Nel caso in esame, la sentenza impugnata ha evidenziato l’assenza di elementi favorevoli valutabili ai fini del riconoscimento delle attenuanti generiche, tale non essendo il mero stato di incensuratezza, e la gravità delle condotte distrattive. 3. Il terzo motivo è manifestamente infondato. La Difesa lamenta la mancata contestazione dell’aggravante del danno di rilevante gravità di cui al comma 1 dell’art. 219 L. Fall., richiamandosi all’orientamento che, in tema di bancarotta fraudolenta, ha affermato come ai fini della contestazione dell’aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità non è sufficiente, in assenza di una specifica indicazione da cui si comprenda che l’aggravante è stata contestata, nè la mera indicazione delle somme oggetto di distrazione, ancorchè di importo elevato, nè la generica menzione dell’art. 219 L. Fall., quando non sia precisato il riferimento al comma 1 di tale articolo (Sez. 5, n. 34116 del 06/05/2019, Rv. 277300 -02). E, tuttavia, la sentenza impugnata ha applicato l’aggravante della pluralità dei fatti di cui al comma 2 dell’art. 219 l.f. che, invece, risulta contestata in fatto. Al riguardo, va rammentato che, nel caso in cui all’imputato siano contestati più fatti di bancarotta, la mancata contestazione esplicita della circostanza aggravante speciale di cui all’art. 219, comma 2, n. 1), L. Fall. non integra alcuna violazione dell’art. 522 c.p.p., perchè il riferimento alla predetta circostanza aggravante, in tutti i suoi elementi costitutivi, è implicitamente contenuto nella descrizione della pluralità dei reati, la cui contestazione pone l’imputato in condizione di conoscere il significato dell’accusa e di esercitare il diritto di difesa (Sez. 5, n. 33123 del 19/10/2020, Rv. 279840). 4. Al rigetto dei ricorsi consegue, ex lege, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 20 maggio 2022. Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2022