346 cod. pen. e 346 bis cod. pen.

I rispettivi ambiti delle fattispecie di cui all’art. 346 cod. pen. e 346 bis cod. pen. possono essere così ricostruiti: il traffico di influenze incrimina le condotte nelle quali le relazioni tra mediatore e pubblico agente siano esistenti e reale sia il potere di influenza del mediatore sul pubblico funzionario. Invece il millantato credito incrimina i casi in cui il potere di influenza non ci sia, siano le relazioni esistenti o inesistenti, ma tale potere è ostentato ugualmente dal millantatore, al fine di ricevere un indebito vantaggio da chi, raggirato, è configurato come vittima del reato.

La giurisprudenza di legittimità ha delineato con nettezza, fin dai più risalenti arresti sul punto, l’elemento strutturale del delitto di cui all’art. 346, comma 1, cod. pen. e il bene protetto dalla fattispecie incriminatrice, individuandoli nel comportamento del soggetto attivo che si concreti in una vanteria, cioè in un’ostentazione della possibilità di influire sul pubblico ufficiale che venga fatto apparire come persona avvicinabile, cioè sensibile a favorire interessi privati in danno degli interessi pubblici di imparzialità, di economicità e di buon andamento degli uffici, cui deve ispirarsi l’azione della pubblica amministrazione.

Tale condotta, si è precisato, deve indurre a far intendere alla vittima che il millantatore abbia la capacità di esercitare un’influenza sui pubblici poteri tale da rendere i detti principi vani e cedevoli al tornaconto personale, con la conseguenza che alla persona del danneggiato (vera parte offesa, che la norma intende proteggere) deve apparire evidente la lesione del prestigio della pubblica amministrazione che deve emettere l’atto o tenere un dato comportamento, senza che importi che siano individuati i singoli funzionari e i reali rapporti che il millantatore intrattiene con essi (Sez.6, 2645 del 27/01/2000, Agrusti, Rv. 215651).

L’accezione della condotta del millantare – che evoca immediatamente all’interprete il fingere, per vanteria, cose non vere – era stata estesa dalla giurisprudenza, rendendo configurabile il delitto di cui all’art. 346 cod. pen., anche all’ipotesi in cui il credito vantato presso il pubblico ufficiale o impiegato sia effettivamente sussistente, ma venga artificiosamente magnificato e amplificato dall’agente in modo da far credere al soggetto passivo di essere in grado di influire sulle determinazioni di un pubblico funzionario e correlativamente di poterlo favorire nel conseguimento di preferenze e di vantaggi illeciti in cambio di un prezzo per la propria mediazione (Sez. 6, n. 11317 del 18/05/1989, Canz, Rv. 181968). Si osservava che, nel delitto di millantato credito, la condotta offensiva ha ad oggetto la vanteria dell’agente di essere nelle condizioni di poter frustrare per personale tornaconto i principi che presiedono all’azione amministrativa a garanzia della collettività amministrata.

Non vengono in discussione né rilevano i rapporti reali o presunti tra l’agente ed il pubblico ufficiale, poiché l’ostentazione di tali rapporti per tornaconto personale definisce la portata offensiva del delitto in esame, essendo essa stessa idonea ad esporre a pericolo l’interesse tutelato. D’altra parte, non può non ritenersi amplificata ovvero esagerata la facoltà di intrattenere rapporti, con il pubblico ufficiale tutte le volte in cui essa venga riferita alla possibilità di determinare l’azione pubblica per il tornaconto personale (Sez. 6, n. 5071 del 04/02/1991, Manuguerra, Rv. 187561).

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Pacifico, fin dalla più risalente giurisprudenza, era anche il tratto differenziale delle ipotesi di millantato credito previste nei commi 1 e 2 dell’art. 346 cod. pen., ciascuna costituente ipotesi autonoma di reato, determinato non in ragione alla oggettiva destinazione del denaro o altra utilità data o promessa all’agente, ma alla prospettazione che l’agente ne fa al danneggiato e che consiste nel prezzo per la propria mediazione presso il pubblico ufficiale (art. 346, primo comma cod. pen.) ovvero nel costo della corruzione (art. 346, secondo comma, cod. pen.) (Sez. 6, n. 17923 del 19/03/2001, dep. 2003, Lamanda, Rv. 224514). Ai fini della sussistenza dell’ipotesi delittuosa prevista dal secondo comma dell’art. 346 cod. pen., si aggiungeva, non è necessaria né la millanteria né una generica mediazione. L’agente infatti non pone ad oggetto della propria pattuizione il proprio intervento, né richiede un compenso per sé, ma adduce come causa della controprestazione il ‘dover comprare il favore del pubblico ufficiale’ ovvero ‘il doverlo remunerare’. A fronte di tale condotta sono possibili due sole alternative: o il soggetto si appropria delle somme, ed in questo caso deve rispondere del reato di cui all’art. 346 comma 2 cod. pen., o veramente corrompe o tenta di corrompere il funzionario, ed in questo caso dovrà rispondere del reato di corruzione. Quando non vi siano elementi che dimostrino quest’ultima ipotesi, residua la prima, senza che assuma rilevanza né la millanteria del credito né l’eventuale assunta mediazione (Sez. 6, n. 4915 del 02/04/1997 – dep. 27/05/1997, Moschetti F, Rv. 208140).

Come noto la legge 190 del 16 novembre 2012 ha introdotto – in adempimento alle indicazioni provenienti dalle Convenzioni Internazionali in materia di corruzione ratificate dall’Italia – la nuova fattispecie di cui all’art. 346 bis cod. pen. che, fuori dei casi di concorso nei reati di corruzione di cui agli artt. 319 e 319 bis cod. pen., punisce la condotta di colui che, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio. A differenza del millantato credito, inoltre, viene punito anche il soggetto privato che dà o promette il denaro o il vantaggio patrimoniale, sia per il fine della prima parte che per quello della seconda (art. 346 bis, comma 2, cod. pen.). Il privato – si è osservato in dottrina – cessa, così, di essere il malcapitato ‘compratore di fumo’, beffato nel millantato credito, eventualmente da tutelare sotto il profilo dell’interesse patrimoniale leso, e diviene punibile per il pactumsceleris contratto quale controparte dell’accordo inteso a sfruttare le relazioni del mediatore, che devono dunque esistere in concreto. Dalla figura delittuosa in esame è stata espunta ogni nota di frode od inganno, polarizzando la fattispecie incriminatrice sul disvalore del mercanteggiamento dell’ingerenza nell’attività della pubblica amministrazione con lo scopo di colpire il fenomeno di intermediazione illecita tra il privato e il pubblico funzionario, finalizzato alla corruzione di quest’ultimo. Scomparsa ogni assonanza del delitto in esame con quello di truffa – assonanza che ancora connota il delitto di cui all’art. 346 cod. pen.-, l’art. 346 bis cod. pen. mira a colpire la lesione o messa in pericolo dell’immagine e dell’interesse alla trasparenza della pubblica amministrazione cui fa da sfondo la probità dei suoi funzionari.

Le indicazioni ricavabili dal complesso degli obblighi internazionali cui si è voluto corrispondere attraverso la incriminazione della condotta di traffico di influenze; la enunciazione del presupposto negativo del fatto tipico (fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli artt. 319 e 319 ter); la incriminazione anche del soggetto privato che dà o promette denaro, rendono evidente la finalità della norma incriminatrice, intesa a sanzionare un comportamento propedeutico alla commissione di una eventuale corruzione, ratio vieppiù palese ove si rifletta che la figura del trading in influence, nota nel contesto internazionale, secondo la giurisprudenza di legittimità, si poneva al di fuori della tipicità delle norme incriminatrici della corruzione contemplate dall’ordinamento, presupponendo, questa, un nesso tra il pubblico ufficiale e l’atto d’ufficio oggetto del mercimonio e non potendo essere dilatata fino al punto da comprendervi, con una operazione analogica non consentita in materia penale anche la mera venalità della carica (Sez. 6, n. 33345 del 04/05/2006, Battistella; Sez. 6, n. 5781 del 06/11/2006, Simonetti e altri; Sez. 6, n. 8043 del 12/05/1983, Amitrano, non massimate sul punto).

Con la introduzione della fattispecie si intende, così, intralciare, mediante una tecnica di tipizzazione anticipata, la realizzazione di condotte concretamente pericolose per i valori del buon andamento e dell’imparzialità dei funzionari della pubblica amministrazione, colpendo uno dei momenti anteriori a quelli dell’adozione, a vantaggio dell’istigatore iniziale, di un atto contrario ai doveri di ufficio o l’omissione/ritardo di un atto di ufficio e, cioè, la sollecitazione o offerta di denaro o altro vantaggio patrimoniale – cioè di benefici economicamente quantificabili – in vista dello sfruttamento di relazioni esistenti con il pubblico agente, momento che normalmente costituisce il primo stadio di una trattativa illecita, rispetto alla quale rimangono irrilevanti sia l’effettivo esercizio dell’influenza sia, a fortiori, il raggiungimento dell’esito voluto dall’istigatore iniziale.

Sotto altro aspetto, la collocazione della norma, che segue quella del millantato credito; la prospettazione, da parte dell’agente intermediario, della necessità di esercitare opera di mediazione verso il soggetto pubblico rispetto alle attese e richieste del privato e la stessa scansione della fattispecie incriminatrice, avvicinano la figura delittuosa in esame al reato di millantato credito e pongono la questione della individuazione degli elementi di diversificazione tra le due fattispecie e che, nel caso in esame, alla stregua del diverso inquadramento contenuto nella sentenza di primo grado e in quella di appello, è dato dalla esistenza delle relazioni con il pubblico funzionario o incaricato di pubblico servizio destinatario della mediazione, esistenza della relazione che costituisce il presupposto della mediazione e l’oggetto dello sfruttamento e che è stata valorizzata nella sentenza di primo grado come elemento di rilievo per la sussunzione del fatto nella fattispecie di cui all’art. 346 bis cod. pen. e posta a fondamento della mediazione da parte del ricorrente ovvero nella prospettazione della corruttibilità del destinatario della mediazione, rivelatasi del tutto infondata, valorizzata nella sentenza impugnata ai fini dell’inquadramento del fatto nella fattispecie di cui all’art. 346 cod. pen..

Rileva il Collegio, che la norma incriminatrice di cui all’art. 346 bis cod. pen., non precisa se il reato sia configurabile anche nel caso in cui la stessa sia effettivamente esercitata nei confronti del soggetto pubblico – in mancanza della promessa o corresponsione alcunché, ricadendosi, altrimenti nella ipotesi della istigazione alla corruzione, in caso di mancata accettazione, ovvero di corruzione, nel caso di accettazione – o debba, invece, restare unicamente a livello di prospettazione, senza che l’intermediario abbia effettivamente ad agire, scelta ermeneutica, quest’ultima, che accentua la funzione della fattispecie in esame di tutela anticipata all’imparzialità della pubblica amministrazione, punendo chi offre e chi acquista una mediazione illecita nei confronti di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio – e, dunque, ne fa commercio – a prescindere che tale mediazione possa diventare episodio corruttivo. Né la norma di cui all’art. 346 bis cod. pen. chiarisce il grado di relazione con il soggetto pubblico, necessario affinché l’esistenza possa ritenersi realizzata: al di là dell’indistinto richiamo alla esistenza, l’aggettivazione sfugge ad una più precisa descrizione, circa l’intensità e la durata, ed è idonea a ricomprendere sia rapporti occasionali e sporadici, sia rapporti stabili e duraturi. È, però, indubbio che la esistenza della relazione con il soggetto pubblico costituisce il sostrato dello sfruttamento della influenza che l’agente è in grado di esercitare per soddisfare le esigenze di un soggetto che è ben consapevole di dovere comprare i favori del pubblico ufficiale, e che per questa ragione viene punito, sicché è necessario che, nel reato in esame, lo sfruttamento delle relazioni esistenti si leghi in modo inscindibile con la dazione o la promessa del denaro o altro vantaggio patrimoniale, nel senso che lo sfruttamento costituisce la ragione per cui avviene tale dazione o tale promessa atteggiandosi l’uno come risorsa e l’altra come vantaggio. In altre parole, la dazione o la promessa costituiscono il corrispettivo dello sfruttamento di relazioni esistenti e tale sfruttamento in favore del compratore di influenze deve costituire la causa o quanto meno il motivo determinante dell’accordo con l’intermediario. Può, dunque, pervenirsi ad una prima conclusione secondo la quale l’esistenza delle relazioni tra intermediario e soggetto pubblico, che nell’ottica del patto dovranno essere sfruttate, è il presupposto del reato.

Ma la realtà della relazione non è da sola sufficiente a connotare la sussistenza del reato poiché, come accennato, la vera causa del negozio illecito tra il mediatore e il soggetto privato interessato è costituita dallo sfruttamento della esistente relazione per determinare, o perlomeno, orientare il comportamento del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio. Indubbiamente un peso specifico, in termini di capacità di influenza, possiedono alcune relazioni – si pensi alle relazioni di parentela, sentimentali, amicali, di subordinazione o di rapporto lavorativo, presenti al momento del reato rispetto ad altre, saltuarie, incostanti o desuete, ma pure esse reali, al pari di quelle di chi, occasionalmente e senza alcuna confidenza, incontra il pubblico agente, situazioni, soprattutto queste ultime, che presentano connotati di affinità con le ipotesi di millantato credito esaminate nella giurisprudenza fino all’entrata in vigore della legge 190/2012 nelle quali l’autore del reato aveva un rapporto reale con il pubblico ufficiale e, amplificando artatamente il proprio credito verso di lui, abbia indotto il soggetto passivo a credere di poter ottenere il favore e a riconoscergli il prezzo della mediazione o del corrispettivo dovuto al pubblico ufficiale o incaricato del pubblico servizio per comprarne il favore o remunerarlo.

Ne consegue che i rispettivi ambiti delle fattispecie di cui all’art. 346 cod. pen. e 346 bis cod. pen. possono essere così ricostruiti: il traffico di influenze incrimina le condotte nelle quali le relazioni tra mediatore e pubblico agente siano esistenti e reale sia il potere di influenza del mediatore sul pubblico funzionario. Invece il millantato credito incrimina i casi in cui il potere di influenza non ci sia, siano le relazioni esistenti o inesistenti, ma tale potere è ostentato ugualmente dal millantatore, al fine di ricevere un indebito vantaggio da chi, raggirato, è configurato come vittima del reato. Il compratore di influenze, per essere considerato soggetto attivo, deve essere consapevole che il potere di influenza sia esistente e che quindi il pericolo per la disfunzione dei pubblici apparati a suo vantaggio sia obiettivo concretamente perseguibile. Viceversa, la fattispecie di millantato credito verrà in rilievo in tutte le ipotesi in cui il credito sia fasullo e posticcio e, pertanto, non esista né la relazione con il pubblico ufficiale, tanto meno l’influenza.

Originally posted 2018-02-24 10:28:05.