DIFESA SEI IMPUTATO PER BANCAROTTA? TRIBUNALE MILANO, TRIBUNALE PAVIA, TRIBUNALE BOLOGNA, TRIBUNALE RAVENNA TRIBUNALE RIMINI, TRIBUNALE FORLI, TRIBUNALE VICENZA ,TRIBUNALE PADOVA, CHIAMA UN AVVOCATO ESPERTO SUBITO 

reclutamento di donne, con la promessa di utilità personali e/o economiche o con la corresponsione di somme di denaro, al fine di far loro esercitare la prostituzione in contesti privati durante cene e ricevimenti

PENALE MILITARE AVVOCATO ESPERTO: INSUBORDINAZIONE REATO

reclutamento di donne, con la promessa di utilità personali e/o economiche o con la corresponsione di somme di denaro, al fine di far loro esercitare la prostituzione in contesti privati durante cene e ricevimenti

LE DECISIONI DI PRIMO GRADO E Appello

aveva ritenuto integrate le diverse fattispecie di reato di violazione della L. n. 75 del 1958, art. 3, comma 1, n. 4 e art. 4, comma 1, n. 7 contestate, in relazione alla condotta di reclutamento di donne, con la promessa di utilità personali e/o economiche o con la corresponsione di somme di denaro, al fine di far loro esercitare la prostituzione in contesti privati durante cene e ricevimenti nelle residenze di B.S., e nei confronti di-uomini politici pugliesi e di dirigenti di imprese pubbliche e private. Secondo, il Tribunale, era risultata dimostrata la condotta di reclutamento, di cui alla L. n. 75 del 1958, art. 3, comma 1 consistita nel rintraccio delle persone da fare prostituire e nell’avviarle al cliente per l’esercizio della prostituzione con le modalità concordate o che queste avevano accettato di concordare direttamente con il fruitore della prestazione (pag. 29), e aveva ritenuto configurabili “plurimi reati unici” in relazione a condotte di reclutamento poste in essere nei confronti del medesimo soggetto passivo, mediante ingaggi che, intervenuto il primo, si rivelavano poi fondati sulla incondizionata disponibilità della prostituta a rispondere alle chiamate successive del ricorrente per ottenere di partecipare nuovamente a serate presso le residenze di B.S. (pag. 662), con riferimento ai capi L e AA; R e F, H; E e D, J; C e O; L e S; S e T; I e U, T e V; B, Z e AB; G, V e AD; S, T e AF; AE e AF; D e AE. Secondo il Tribunale “quando la condotta di reclutamento di una escort (cui fa riferimento il reato unico) incrocia la condotta di reclutamento in danno di altra o più escort, cioè quando il reato risulta aggravato L. n. 75 del 1958, ex art. 4, n. 7, anche il reato unico, nella sua interezza, risulta aggravato ex art. 4, n. 7 Legge Merlin”, con conseguenze sulla determinazione del termine di prescrizione del reato, ritenuto non maturato, e, assorbita la condotta di favoreggiamento in quella di reclutamento, ritenuta sussistente la circostanza aggravante di cui alla L. n. 75 del 1958, art. 4, comma 1, n. 7 del fatto commesso ai danni di più persone, con riferimento ai capi S, U, L, R, T, V, E, I, AE, AF, applicato l’aumento per la continuazione, aveva condannato il ricorrente alla pena di anni sette e mesi dieci di reclusione e Euro 3.000,00 di multa, limitatamente alle condotte di reclutamento in relazione ai capi B, C, D, E, F, G, H, I, 3, L, N, O, P, R, S, T, U, V, AA, AB, AD, AE, AF. 1.2. Investita dell’impugnazione, tra gli altri, di T.G., la Corte territoriale è pervenuta all’epilogo sopra riportato (cfr. supra, sub p. 1) ritenendo che, ferma la ricostruzione in punto di fatto come operata dal Tribunale, non si potesse configurare l’unicità del reato, essendo tale qualificazione giuridica inconciliabile con la natura istantanea del delitto di reclutamento di cui alla L. n. 75 del 1958, art. 3 comma 1, n. 4. Secondo la corte territoriale la fattispecie si era perfezionata con il singolo e puntuale accordo finalizzato all’attività prostitutiva della persona reclutata la cui disponibilità a ricollocarsi in favore del cliente era meramente eventuale e, quindi, insufficiente di per sè a supportare l’unicità del reato ravvisata dal Tribunale. Per effetto delle diversa qualificazione giuridica, stabilita l’autonomia ontologica delle varie fattispecie di reato ritenute unitarie dal Tribunale ed esclusa la trasposizione della circostanza aggravante, per effetto della configurata unicità del reato, con riguardo alle singole fattispecie in cui la stessa non era formalmente stata contestata, la Corte d’appello ha dichiarato non doversi procedere con riguardo ai reati non aggravati di cui ai capi B, C, D, F, G, H, J, N, O, P, Z, AA, AB ed AD essendo ormai decorso il termine di prescrizione, di cui agli artt. 157-161 c.p., di anni sette e mesi sei oltre il periodo di sospensione del corso della prescrizione pari ad un anno, mesi undici e giorni sedici, ed ha confermato la penale responsabilità dell’imputato T. per le fattispecie di reato aggravate di cui ai capi S, U, L, R, T, V, E, I, AE, AF, riducendo la pena nella misura sopra indicata.

Argomenta il ricorrente l’errata interpretazione della legge penale, segnatamente della L. n. 75 del 1958, art. 4, comma 1 n. 7 là dove la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che l’espressione “ai danni di” fosse da intendersi “nei confronti di”, così non potendo venire in rilievo l’assenza di “danno” cagionato alle persone offese, liberamente prostituitesi, e, a fronte della conseguente non configurabilità della circostanza aggravante in oggetto, dovendo considerarsi la maturata prescrizione di alcune delle condotte contestate. Secondo il ricorrente, l’equivalenza semantica della espressione “ai danni di” rispetto a quella “nei confronti di” si risolverebbe in una inammissibile applicazione analogica in malam partem. L’indicazione lessicale indicherebbe, invece, una precisa opzione normativa, rappresentativa di una necessaria componente di danno, che non potrebbe essere sovvertita dall’interprete. La prospettazione, pur suggestiva, non può essere condivisa. Questa Terza Sezione, anche con una recente e condivisibile pronuncia, ha già affermato il principio secondo cui la locuzione “ai danni”, contenuta nella L. n. 75 del 1958, art. 4, nn. 2, 5, 7 e 7-bis ai fini della configurabilità delle circostanze aggravanti, non indica un danno concreto, patrimoniale o anche morale, ma esprime l’offesa (oggetto generico), che assume carattere di maggiore gravità quando il fatto è commesso in danno delle persone indicate nella citata disposizione, equivalendo detta espressione a “in confronto di” (Sez. 3, n. 2918 del 25/11/2020, dep. 2021, H., Rv. 280827 – 01; in precedenza, anche Sez. 3, n. 125 del 25/01/1967, Polettini, Rv. 103839-01). In altri termini, muovendo dalla constatazione che, secondo la giurisprudenza di legittimità (Sez. 3, n. 5768 del 19/07/2017, dep. 2018, C., Rv. 272694), l’interesse tutelato dalla norma penale non è costituito dalla pubblica morale nè dalla libertà morale di chi esercitata il meretricio, ma dalla dignità della persona nello svolgimento dell’attività sessuale e per la cui salvaguardia non possono valere forme di contrattazione, di mercimonio e atti dispositivi, i quali abbiano una rilevanza patrimoniale, la giurisprudenza qui riaffermata giunge a ritenere, così restando isolato un apparentemente difforme remoto orientamento (Sez.3, n. 803 del 13/05/1968, Nummari, Rv. 108633-01), che l’espressione “ai danni di” altro non significhi che “nei confronti di” o “nei riguardi di”. Tale conclusione appare del tutto condivisibile anche con riguardo alla condotta di reclutamento che, diversamente dal caso scrutinato in cui veniva in rilievo la condotta di sfruttamento e favoreggiamento, viene qui in rilievo

ARGOMENTA IL DIFENSORE

La dimensione riservata escluderebbe tuttavia che il fenomeno esponga all’imbarazzo sociale la destinataria ed eliderebbe qualsiasi innesco offensivo in relazione al contesto relazionale e alla dignità. Al contrario, l’offensività in concreto, nell’ottica della protezione dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili, così come richiesto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 141 del 2019, non ricorrerebbe al cospetto di condotte di reclutamento indirizzate a soggetto liberamente autodeterminatosi. Infine, in modo contraddittorio, il medesimo profilo del “non parlare chiaro” sarebbe stato adoperato per pervenire all’assoluzione dell’imputato F.. Sotto un terzo profilo, la sentenza impugnata sarebbe censurabile anche nella parte in cui ha ravvisato il dolo del reato. La Corte territoriale, pur avendo precisato che il delitto presuppone il dolo specifico, avrebbe poi ritenuto sussistente il dolo nella forma eventuale in capo all’imputato, che aveva procurato la possibilità di interagire in contesti di intimità fisica con le donne, prospettando il carattere incerto della prestazione sessuale. Argomenta il ricorrente che tale conclusione sarebbe errata in diritto in quanto il dolo specifico non sarebbe compatibile con quello eventuale ovvero, al più, potrebbe convivere solo con riguardo agli elementi del fatto ad esso estranei e non in ordine all’oggetto del profilo finalistico dell’azione delittuosa. 2.2.2. Con il secondo motivo si deduce la violazione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione all’erronea applicazione della legge penale nonchè delle altre norme giuridiche, anche sovranazionali, di cui si deve tenere conto nell’applicazione della legge penale di cui alla L. n. 75 del 1958, art. 4 comma 1, n. 7 anche in relazione all’art. 25 Cost., nonchè all’illogicità della motivazione sull’affermazione della responsabilità penale per il reato di cui ai capi E, I, R, S, T, U, V, AE e AF. La Corte di appello avrebbe ritenuto l’equazione concettuale tra l’espressione “ai danni di più persone”, testualmente contenuta nella norma penale di cui sopra, e quella “nei confronti di più persone”. Tale equazione si risolverebbe in una applicazione analogica della disposizione penale in malam partem. Per la configurazione dell’aggravante, invece, occorrerebbe che l’azione di reclutamento sia stata necessariamente offensiva nei confronti di più soggetti passivi, profilo che non sussisterebbe nel caso di specie nel quale, peraltro, è stato negato il risarcimento dei danni. Secondo il ricorrente la dizione normativa dal punto di vista semantico e lessicale sarebbe indice di un’opzione normativa ben precisa che non potrebbe essere sovvertita dall’interpretazione data dalla Corte territoriale e ciò in quanto il legislatore ha, in altri contesti, impiegato il termine “nei confronti di”.

La decisione di Cass. pen., Sez. III, Sent., (data ud. 18/10/2021) 23/12/2021, n. 47059

La lesione della dignità della persona che, secondo la Corte costituzionale, costituisce il parametro per la valutazione della rilevanza penale delle condotte parallele della libera e consapevole prostituzione, postula che tale valutazione avvenga attraverso una diversa valutazione prospettica, ovvero quella della condotta posta in essere dall’imputato, condotta che, per le modalità in cui si è estrinsecata, dovrebbe, di per se stessa, essere rivelatrice della lesione in concreto della dignità della persona. Dunque, non è tanto la percezione della persona offesa a potere rilevare nel giudizio di offensività, ciò che finirebbe per introdurre valutazioni soggettive in contrasto con l’indicazione proveniente dalla Corte costituzionale in ordine alla, evidentemente necessaria, natura oggettiva della lesione della dignità umana, quanto le modalità concrete della condotta reclutativa a dovere rilevare positivamente nel formulato giudizio di offensività concreta. Ed in tal senso la Corte territoriale ha, a pag. 26 della sentenza, correttamente ritenuto lesive della dignità umana le direttive comportamentali impartite, ad esempio, a T.S. (mettiti un vestitino nero, corto…mettilo scollato che… quello che fa vedere le curve) a V.I. (vestitino nero sobrio che però metta in mostra le tue forme; cfr. pag. 221 della sentenza del Tribunale) e le volgari espressioni usate nell’ingaggio di G.B. (amore vestiti proprio a mignotta… mettiti vestito nero corto altezza fica… si deve vedere il pelo appena, appena) contenute nei dialoghi intercettati. Ed ancora, a delineare la concretezza dell’offensività della condotta è il generale contesto nel quale la stessa si è sviluppata, per come emersa dagli innumerevoli dialoghi intercettati tra l’imputato e le ragazze reclutate, tra lo stesso e i compartecipi ( F., V. e B.) e tra l’imputato T. e B.S., contesto, cioè, in cui la scelta di prostituirsi appare essersi significativamente manifestata in un ambito nel quale la donna può essere “scambiata”, ovvero “data in prestito” da un fruitore della prestazione sessuale ad altro, come icasticamente rappresentato dall’espressione “la patonza deve girare” contenuta nella conversazione del 10/10/2008, ore 16.40 (cfr. pag. 238 della sentenza del Tribunale). Le modalità di reclutamento del T., per come accertate, sono state dunque correttamente ritenute lesive della dignità delle persone offese, proprio sulla scorta del dictum del Giudice delle leggi. Ed infatti, come già osservato, il giudizio di necessaria offensività in concreto sviluppato dalla Corte territoriale ha seguito il tracciato del giudice delle leggi, senza essere contaminato da valutazioni di ordine morale, esulanti dall’applicazione della legge penale, là dove la pronuncia del Giudice costituzionale, nel rigettare la questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice a quo (la Corte barese), chiedeva proprio a quel giudice l’indagine sulla valutazione dell’offensività nella sua dimensione concreta. Sul punto, va peraltro rilevato che detta ratio decidendi non è stata neppure oggetto di specifica critica censoria da parte della difesa dell’imputato che si è limitata a sindacare la prima parte della motivazione là dove la Corte territoriale ha dato appunto rilevanza alla percezione soggettiva della lesione della dignità, contestando la valenza della “ritrosia a parlare chiaro”, mentre è rimasta priva di critica la decisione nella parte in cui la stessa ha tratto, dalle modalità della condotta di reclutamento più sopra esemplificate, la concreta offensività della condotta dell’imputato. Nè a questa Corte compete, come sollecitato dalla difesa, un rinnovato giudizio di offensività in concreto delle condotte reclutative poste in essere dal T., anche sostituendosi alla valutazione operata dal giudice del merito, ma solo la valutazione che quel giudizio, formulato dal giudice del merito, sia congruo, aderente al dato probatorio e non manifestamente illogico, come in effetti è. Le valutazioni espresse dalla sentenza impugnata, in quanto coerenti, sul piano logico, con una esauriente analisi delle risultanze probatorie acquisite, si sottraggono, in altri termini, al sindacato di legittimità. Consegue, da tutto ciò, l’infondatezza, anche sotto tale profilo, del motivo di ricorso. 3.2. Il ricorrente ha dedotto, altresì, sotto un terzo profilo, il vizio di motivazione sulla ricorrenza dell’elemento soggettivo del reato di cui alla L. n. 75 del 1958, art. 3, comma 1, n. 4 là dove la sentenza, dopo aver rilevato la connotazione in termini di dolo specifico della norma incriminatrice, ha argomentato l’assoluta compatibilità concettuale della rappresentazione dell’evento prostitutivo come eventuale con la natura specifica del dolo del reato. Ha censurato, il ricorrente, l’affermazione della Corte territoriale secondo cui il perseguimento del fine specifico del delitto di reclutamento della prostituzione non può essere infirmato dalla natura incerta della prestazione sessuale. La censura non ha pregio in forza delle seguenti considerazioni. Come già chiarito sopra, è affermazione costante nella giurisprudenza di legittimità che il delitto di reclutamento di prostitute si esaurisce e si consuma nell’attività di ricerca di persone da ingaggiare e in quella di persuasione delle medesime a recarsi in un determinato luogo per l’esercizio della prostituzione, nulla rilevando, a tale fine, che a siffatta attività sia seguito l’effettivo esercizio della prostituzione (Sez. 6, n. 4137 del 07/12/2006, B, Rv. 235605 – 01; Sez. 3, n. 15217 del 20/10/2016, Rv. 269485 – 01; Sez. 3, n. 12999 del 12/11/2014, Rv. 262993 – 01). La fattispecie di reclutamento si perfeziona dunque con il raggiungimento dell’accordo in merito alla finalità prostitutiva con la persona disposta a recarsi in un luogo e ivi rimanervi per il tempo necessario, esaurendosi la condotta dell’agente nel rintracciare la donna e avviarla alla prostituzione per conto del cliente per il quale ha agito, non essendo necessaria alcuna altra attività, avendo già realizzato la condotta di reato, nè essendo necessaria l’avvenuta prostituzione e la prova dell’avvenuta retribuzione. Sicchè l’ingaggio prostitutivo si perfeziona con il consenso della persona designata ad offrire i propri favori sessuali ad una terza persona, non rilevando che l’attività prostitutiva e la sua retribuzione siano avvenute. Si tratta di una fattispecie di pericolo, che si perfezione con l’accordo in vista del quale il soggetto reclutato è disposto a recarsi in un luogo per offrire una prestazione sessuale. Ne consegue che il dolo specifico va evidentemente accertato al momento dell’accordo intervenuto, che deve avere di mira la prestazione sessuale che il soggetto reclutato intende offrire ad un terzo in esecuzione dell’accordo. E’ dunque fuori dall’ambito del dolo specifico l’atto prostitutivo che può anche non intervenire e che non incide sul reato già perfezionatosi. In questo senso deve essere pertanto letta la motivazione della Corte territoriale nella parte in cui ha affermato la compatibilità della rappresentazione dell’evento prostitutivo con la natura specifica del dolo del reato, sicchè il perseguimento del fine specifico al momento del perfezionamento dell’accordo reclutativo, non viene poi contraddetto dall’incertezza della prestazione sessuale, che non è richiesta per la consumazione del reato e qualora realizzata, al pari della retribuzione, costituisce, al più, la dimostrazione ex post della finalità della condotta. 4. Anche il secondo motivo di ricorso non mostra ragioni di fondatezza. Argomenta il ricorrente l’errata interpretazione della legge penale, segnatamente della L. n. 75 del 1958, art. 4, comma 1 n. 7 là dove la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che l’espressione “ai danni di” fosse da intendersi “nei confronti di”, così non potendo venire in rilievo l’assenza di “danno” cagionato alle persone offese, liberamente prostituitesi, e, a fronte della conseguente non configurabilità della circostanza aggravante in oggetto, dovendo considerarsi la maturata prescrizione di alcune delle condotte contestate. Secondo il ricorrente, l’equivalenza semantica della espressione “ai danni di” rispetto a quella “nei confronti di” si risolverebbe in una inammissibile applicazione analogica in malam partem. L’indicazione lessicale indicherebbe, invece, una precisa opzione normativa, rappresentativa di una necessaria componente di danno, che non potrebbe essere sovvertita dall’interprete. La prospettazione, pur suggestiva, non può essere condivisa. Questa Terza Sezione, anche con una recente e condivisibile pronuncia, ha già affermato il principio secondo cui la locuzione “ai danni”, contenuta nella L. n. 75 del 1958, art. 4, nn. 2, 5, 7 e 7-bis ai fini della configurabilità delle circostanze aggravanti, non indica un danno concreto, patrimoniale o anche morale, ma esprime l’offesa (oggetto generico), che assume carattere di maggiore gravità quando il fatto è commesso in danno delle persone indicate nella citata disposizione, equivalendo detta espressione a “in confronto di” (Sez. 3, n. 2918 del 25/11/2020, dep. 2021, H., Rv. 280827 – 01; in precedenza, anche Sez. 3, n. 125 del 25/01/1967, Polettini, Rv. 103839-01). In altri termini, muovendo dalla constatazione che, secondo la giurisprudenza di legittimità (Sez. 3, n. 5768 del 19/07/2017, dep. 2018, C., Rv. 272694), l’interesse tutelato dalla norma penale non è costituito dalla pubblica morale nè dalla libertà morale di chi esercitata il meretricio, ma dalla dignità della persona nello svolgimento dell’attività sessuale e per la cui salvaguardia non possono valere forme di contrattazione, di mercimonio e atti dispositivi, i quali abbiano una rilevanza patrimoniale, la giurisprudenza qui riaffermata giunge a ritenere, così restando isolato un apparentemente difforme remoto orientamento (Sez.3, n. 803 del 13/05/1968, Nummari, Rv. 108633-01), che l’espressione “ai danni di” altro non significhi che “nei confronti di” o “nei riguardi di”. Tale conclusione appare del tutto condivisibile anche con riguardo alla condotta di reclutamento che, diversamente dal caso scrutinato in cui veniva in rilievo la condotta di sfruttamento e favoreggiamento, viene qui in rilievo. Ciò in quanto le condotte previste dall’art. 3 cit. devono essere interpretate secondo la ratio della normativa penale di tutela della libertà sessuale, con gli – individuati limiti della pronuncia della Corte costituzionale n. 141 del 2019, secondo cui l’attività sessuale, pur liberamente svolta, non costituisce forma di estrinsecazione della libertà di autodeterminazione sessuale, quale diritto inviolabile di cui all’art. 2 Cost., ma costituisce una particolare forma dell’attività economica privata che incontra i limiti di cui all’art. 41 Cost., tra cui il divieto che questa possa recare danno alla dignità. Ed allora proprio l’individuato limite, ovvero la dignità della persona la cui lesione o messa in pericolo deve essere indagata in concreto, stante la indicata necessità di verifica dell’offensività della condotta al fine di individuare sulla base di circostanze specifiche le condotte che si rilevino prive di ogni potenzialità lesiva, secondo il dictum della Corte costituzionale, rivela l’infondatezza della tesi difensiva secondo cui la libera e consapevole prostituzione, proprio per tale connotazione, non arrecherebbe alcun danno, e ciò in quanto lo stesso deve essere individuato in quello cagionato dal reato e, in tale prospettiva, non vi è alcuna incompatibilità logica nell’affermata equazione dell’espressione “ai danni di” rispetto a quella “nei confronti di”, essendo evidente il maggior danno cagionato dal reato allorchè vi sia una pluralità di soggetti passivi, e cioè, appunto, quando il reato sia commesso nei confronti di più persone. Allo stesso modo, e per le stesse ragioni, nessuna incompatibilità logica o contraddizione risulta esservi con la circostanza che il Tribunale abbia ritenuto insussistente un danno patrimoniale cagionato alle parti civili respingendo la domanda di risarcimento avanzata. Nè il richiamo ad altre fattispecie penali, nelle quali si rinverrebbe l’uso dei distinti lemmi “ai danni di” e “nei confronti di”, il che dimostrerebbe che il legislatore non avrebbe delineato una equivalenza concettuale degli stessi, è dirimente poichè non tiene conto della mutata tecnica espressiva del legislatore negli anni più recenti rispetto al legislatore degli anni ‘50. La prospettata questione di legittimità costituzionale appare pertanto manifestamente infondata. 4.1. Venendo al caso in esame, la decisione della Corte territoriale è, dunque, conforme ai principi qui richiamati ed è correttamente motivata là dove, a pag. 20, la sentenza impugnata ha ritenuto la sussistenza della circostanza aggravante di cui alla L. n. 75 del 1958, art. 4 comma 1, n. 7 in presenza di condotte di reclutamento nei confronti di più persone, così aderendo all’indirizzo interpretativo sopra richiamato. 5. Sulla base di tali ragioni il ricorso dell’imputato è infondato e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali. 6. Consegue, in definitiva, a tutto quanto esposto che, mentre va dichiarato inammissibile il ricorso della parte civile, vanno rigettati i ricorsi del Procuratore Generale e dell’imputato, con le conseguenti ulteriori statuizioni. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso della parte civile che condanna al pagamento delle spese processuali e al versamento di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. Rigetta il ricorso del Procuratore generale. Rigetta il ricorso di T.G. che condanna al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge. Conclusione Così deciso in Roma, il 18 ottobre 2021.

Cass. pen., Sez. III, Sent., (data ud. 18/10/2021) 23/12/2021, n. 47059 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ANDREAZZA Gastone – Presidente – Dott. DI STASI Antonella – Consigliere – Dott. GAI Emanuela – rel Consigliere – Dott. MENGONI Enrico – Consigliere – Dott. ZUNICA Fabio – Consigliere – ha pronunciato la seguente: SENTENZA sui ricorsi proposti da: Procuratore generale presso la Corte d’appello di Bari; D.P., nata a (OMISSIS), parte civile; T.G., nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 16/09/2020 della Corte d’appello di Bari; visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal consigliere dott. Emanuela Gai; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Ludi Giordano, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso della parte civile, l’accoglimento del ricorso del Procuratore generale e il rigetto del ricorso dell’imputato; udito per la parte civile l’Avv. P. Rago, che depositando conclusioni scritte e nota spese ha insistito nell’accoglimento del ricorso; uditi per l’imputato i Difensori Avv. N. Quaranta, e Avv. V. Manes, che hanno chiesto il rigetto del ricorso del Procuratore generale e l’inammissibilità del ricorso della parte civile insistendo nell’accoglimento del ricorso dell’imputato. I difensori della parte civile e dell’imputato hanno depositato memorie scritte. Svolgimento del processo 1. La Corte d’appello di Bari, con sentenza in data 16/09/2020, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Bari, appellata, tra gli altri, da T.G., ha, per quanto qui di rilievo, dichiarato non doversi procedere nei confronti di T.G. in relazione ai reati ascritti ai capi B, C, D, F, G, H, 3, N, O, P, Z, AA, AB ed AD perchè estinti per prescrizione e, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in misura equivalente all’aggravante di cui alla L. n. 75 del 1958, art. 4, comma 1, n. 7, ha rideterminato la pena irrogata per i reati di cui ai capi S, U, L, R, T, V, E, I, AE, AF nella misura di anni due e mesi dieci di reclusione e Euro 1.500,00 di multa, con revoca delle pene accessorie. 1.1. Il Tribunale di Bari, all’esito della ricostruzione della vicenda nella sua dimensione storico fattuale sulla scorta dell’istruttoria probatoria espletata, aveva ritenuto integrate le diverse fattispecie di reato di violazione della L. n. 75 del 1958, art. 3, comma 1, n. 4 e art. 4, comma 1, n. 7 contestate, in relazione alla condotta di reclutamento di donne, con la promessa di utilità personali e/o economiche o con la corresponsione di somme di denaro, al fine di far loro esercitare la prostituzione in contesti privati durante cene e ricevimenti nelle residenze di B.S., e nei confronti di-uomini politici pugliesi e di dirigenti di imprese pubbliche e private. Secondo, il Tribunale, era risultata dimostrata la condotta di reclutamento, di cui alla L. n. 75 del 1958, art. 3, comma 1 consistita nel rintraccio delle persone da fare prostituire e nell’avviarle al cliente per l’esercizio della prostituzione con le modalità concordate o che queste avevano accettato di concordare direttamente con il fruitore della prestazione (pag. 29), e aveva ritenuto configurabili “plurimi reati unici” in relazione a condotte di reclutamento poste in essere nei confronti del medesimo soggetto passivo, mediante ingaggi che, intervenuto il primo, si rivelavano poi fondati sulla incondizionata disponibilità della prostituta a rispondere alle chiamate successive del ricorrente per ottenere di partecipare nuovamente a serate presso le residenze di B.S. (pag. 662), con riferimento ai capi L e AA; R e F, H; E e D, J; C e O; L e S; S e T; I e U, T e V; B, Z e AB; G, V e AD; S, T e AF; AE e AF; D e AE. Secondo il Tribunale “quando la condotta di reclutamento di una escort (cui fa riferimento il reato unico) incrocia la condotta di reclutamento in danno di altra o più escort, cioè quando il reato risulta aggravato L. n. 75 del 1958, ex art. 4, n. 7, anche il reato unico, nella sua interezza, risulta aggravato ex art. 4, n. 7 Legge Merlin”, con conseguenze sulla determinazione del termine di prescrizione del reato, ritenuto non maturato, e, assorbita la condotta di favoreggiamento in quella di reclutamento, ritenuta sussistente la circostanza aggravante di cui alla L. n. 75 del 1958, art. 4, comma 1, n. 7 del fatto commesso ai danni di più persone, con riferimento ai capi S, U, L, R, T, V, E, I, AE, AF, applicato l’aumento per la continuazione, aveva condannato il ricorrente alla pena di anni sette e mesi dieci di reclusione e Euro 3.000,00 di multa, limitatamente alle condotte di reclutamento in relazione ai capi B, C, D, E, F, G, H, I, 3, L, N, O, P, R, S, T, U, V, AA, AB, AD, AE, AF. 1.2. Investita dell’impugnazione, tra gli altri, di T.G., la Corte territoriale è pervenuta all’epilogo sopra riportato (cfr. supra, sub p. 1) ritenendo che, ferma la ricostruzione in punto di fatto come operata dal Tribunale, non si potesse configurare l’unicità del reato, essendo tale qualificazione giuridica inconciliabile con la natura istantanea del delitto di reclutamento di cui alla L. n. 75 del 1958, art. 3 comma 1, n. 4. Secondo la corte territoriale la fattispecie si era perfezionata con il singolo e puntuale accordo finalizzato all’attività prostitutiva della persona reclutata la cui disponibilità a ricollocarsi in favore del cliente era meramente eventuale e, quindi, insufficiente di per sè a supportare l’unicità del reato ravvisata dal Tribunale. Per effetto delle diversa qualificazione giuridica, stabilita l’autonomia ontologica delle varie fattispecie di reato ritenute unitarie dal Tribunale ed esclusa la trasposizione della circostanza aggravante, per effetto della configurata unicità del reato, con riguardo alle singole fattispecie in cui la stessa non era formalmente stata contestata, la Corte d’appello ha dichiarato non doversi procedere con riguardo ai reati non aggravati di cui ai capi B, C, D, F, G, H, J, N, O, P, Z, AA, AB ed AD essendo ormai decorso il termine di prescrizione, di cui agli artt. 157-161 c.p., di anni sette e mesi sei oltre il periodo di sospensione del corso della prescrizione pari ad un anno, mesi undici e giorni sedici, ed ha confermato la penale responsabilità dell’imputato T. per le fattispecie di reato aggravate di cui ai capi S, U, L, R, T, V, E, I, AE, AF, riducendo la pena nella misura sopra indicata. 2. Avverso la sentenza hanno presentato ricorso il Procuratore generale della Corte d’appello di Bari, l’imputato T. e la parte civile D.P., a mezzo dei difensori di fiducia e ne hanno chiesto l’annullamento per i seguenti motivi enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1. 2.1. Il Procuratore generale deduce, con un articolato motivo di ricorso, la violazione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione all’erronea applicazione della legge penale là dove la Corte territoriale avrebbe escluso la configurazione dell’unicità dei reati con riferimento alle condotte di reclutamento compiute in danno di una determinata donna alla quale era stato richiesto di rendersi disponibile a prestazioni sessuali ed ha erroneamente, per l’effetto, dichiarato la prescrizione dei reati non aggravati, nonchè l’erronea applicazione della legge penale nella determinazione della pena base detentiva per la violazione più grave del reato continuato e nella determinazione degli aumenti di pena per la continuazione del reato. Sotto il primo profilo, premesso che l’impugnazione è limitata ai capi D, F, H, i, AA e AD per i quali, per effetto dell’esclusione dell’unicità del reato, è stata pronunciata declaratoria di prescrizione, la Corte territoriale non avrebbe fatto corretta applicazione dei principi reiteratamente espressi dalla giurisprudenza di legittimità in tema. La Corte d’appello avrebbe in particolare erroneamente escluso l’unicità di reati in presenza di incondizionata disponibilità delle escort a rispondere alle chiamate successive dell’imputato per partecipare alle serate nel corso delle quali avveniva l’attività prostitutiva. Secondo il ricorrente, il reclutamento di una persona al fine di farla prostituire, sebbene non sia un reato necessariamente a condotta plurima, potendosi esaurire anche in un’unica condotta “reclutativi”, sarebbe, tuttavia, compatibile con plurime condotte ripetute nel tempo, da ricondurre ad, un unico reato in ragione del rapporto che viene instaurato con una specifica persona, disposta a prestazioni sessuali verso un terzo estraneo al rapporto e della incondizionata disponibilità della prostituta a rispondere alle “chiamate successive”. In tale evenienza, che sarebbe stata riscontrata dal Tribunale, le plurime condotte di reclutamento perderebbero la loro autonomia per diventare segmenti di un unico rapporto soggettivo di ingaggio. Sempre secondo il ricorrente, la Corte territoriale non avrebbe fatto corretta applicazione dei principi espressi da una recente sentenza di legittimità (Sez. 3, n. 20847 del 13/02/2020, Rv. 279705-01) che valorizzerebbe il rapporto intersoggettivo che intercorre tra reclutatore e donna ingaggiata ai fini della individuazione dell’unicità del reato. In tale ambito, la Corte d’appello avrebbe errato nell’identificare il “fatto” con le “condotte” di reclutamento, laddove la circostanza aggravante di cui all’art. 4, n. 7 Legge citata, produce l’effetto sostanziale di rendere unico il fatto posto in essere mediante più condotte di reclutamento anche ai danni di persone diverse, pure se in tempi diversi. Sotto altro profilo, la sentenza impugnata sarebbe affetta anche da vizio di motivazione in quanto non spiegherebbe perchè la valutazione del primo giudice che ha ricondotto plurime condotte di reclutamento nell’ambito di un unico reato L. n. 58 del 1975, ex art. 3, comma 1, n. 4, in diversi casi aggravato dal fatto che l’azione era compiuta nei confronti di più donne – fosse errata o non condivisibile, essendosi limitata al mero richiamo di precedenti giurisprudenziali neppure pertinenti. La parcellizzazione dei “reati unici” compiuta dalla sentenza impugnata che li ha valutati singolarmente, avrebbe riverberato i propri effetti sulla determinazione del tempo necessario a prescrivere con la conseguente declaratoria di prescrizione dei reati parcellizzati non aggravati. Sotto altro connesso profilo l’errata interpretazione della legge penale avrebbe influito sul trattamento sanzionatorio e sulla determinazione della pena detentiva per il reato più grave e sulla misura degli aumenti per la continuazione. 2.2. Il ricorso nell’interesse dell’imputato T. articola due motivi. 2.2.1. Con il primo motivo di ricorso si deduce, quanto ai reati di cui ai capi di imputazione sub E, I, R, 5, T, U, V, AE e AF, la violazione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione all’erronea applicazione della legge penale nonchè delle altre norme giuridiche, anche sovranazionali, di cui si deve tenere conto nell’applicazione della legge penale di cui alla L. n. 75 del 1958, art. 3 comma 1, n. 4, anche in relazione all’art. 25 Cost., nonchè all’illogicità della motivazione sull’affermazione della responsabilità penale. Sotto un primo profilo non sarebbe configurabile il delitto di reclutamento in assenza di un’attività che deve presentare i tratti di una abitualità delle condotte prostitutive, che devono essere compiute “con continuità e regolarità” nei riguardi di richieste di prestazioni sessuali dei clienti. La condotta tipica, pertanto, dovrebbe presentare i tratti di una abitualità delle condotte di prostituzione. Per ravvisare il reclutamento sarebbe necessario ravvisare una sorta di arruolamento tendenzialmente duraturo o di inquadramento nell’ambito del quale l’attività “prostitutiva” sia svolta con continuità e regolarità. Tale connotazione tipica sarebbe stata completamente disattesa. Anzi, la Corte di appello avrebbe sostenuto la natura istantanea del delitto di reclutamento. La necessità che l’attività prostitutiva sia svolta con “continuità e regolarità”, nei riguardi di prestazioni sessuali dei clienti, sarebbe un’interpretazione rispettosa del principio di tipicità in una prospettiva compatibile con la Costituzione. In via subordinata, nel caso in cui la Corte di legittimità non ritenesse di aderire all’interpretazione della condotta di reclutamento in termini di condotta abituale, si chiede di sollevare questione di legittimità costituzionale della L. n. 75 del 1958, art. 3, comma 1 n. 4, sotto il profilo della tassatività e determinatezza della fattispecie non esaminata nella pronuncia della Corte costituzionale n. 141 del 2019 che ha scrutinato solo la diversa condotta di favoreggiamento, nè nella successiva sentenza n. 278 del 2019 che ha avuto ad oggetto la tolleranza abituale. Sotto altro profilo, la sentenza impugnata sarebbe censurabile là dove avrebbe escluso la concreta inoffensività delle vicende sottostanti i capi E, I, R, S, T, U, V, AE e AF. Nel rammentare che la Corte costituzionale, con la citata pronuncia n. 141 del 2019, nel ritenere che la fattispecie in esame non fosse di per sè contrastante con il principio di offensività in astratto, ha espressamente sottolineato che “in rapporto alla disciplina vigente, resta dall’altra parte ferma, in ogni caso, l’operatività del principio di offensività nella sua proiezione concreta e, dunque, il potere-dovere del giudice comune di escludere la configurabilità del reato in presenza di condotte che, in rapporto alle specifiche circostanze, si rivelino concretamente prive di ogni potenzialità lesiva”, la Corte territoriale, nel compimento del vaglio concreto a lei rimesso, avrebbe, con motivazione illogica, escluso l’inoffensività delle condotte di reclutamento a fronte di una libera e consapevole scelta della donna di prostituirsi ed avrebbe così immotivatamente escluso che le condotte de qua non avessero concreta potenzialità lesiva. La Corte territoriale avrebbe escluso che l’offesa riguardasse il versante della sicurezza e della salute in relazione al libero esercizio della prostituzione e avrebbe ravvisato la messa in pericolo della dignità umana nei contatti intermediativi intercettati tra i giudicabili e le destinatarie della attivazione “reclutativa”. Tale profilo sarebbe stato illogicamente, ed anche contraddittoriamente, desunto dalla ritrosia “a parlare chiaro” della scelta di prostituirsi. La dimensione riservata escluderebbe tuttavia che il fenomeno esponga all’imbarazzo sociale la destinataria ed eliderebbe qualsiasi innesco offensivo in relazione al contesto relazionale e alla dignità. Al contrario, l’offensività in concreto, nell’ottica della protezione dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili, così come richiesto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 141 del 2019, non ricorrerebbe al cospetto di condotte di reclutamento indirizzate a soggetto liberamente autodeterminatosi. Infine, in modo contraddittorio, il medesimo profilo del “non parlare chiaro” sarebbe stato adoperato per pervenire all’assoluzione dell’imputato F.. Sotto un terzo profilo, la sentenza impugnata sarebbe censurabile anche nella parte in cui ha ravvisato il dolo del reato. La Corte territoriale, pur avendo precisato che il delitto presuppone il dolo specifico, avrebbe poi ritenuto sussistente il dolo nella forma eventuale in capo all’imputato, che aveva procurato la possibilità di interagire in contesti di intimità fisica con le donne, prospettando il carattere incerto della prestazione sessuale. Argomenta il ricorrente che tale conclusione sarebbe errata in diritto in quanto il dolo specifico non sarebbe compatibile con quello eventuale ovvero, al più, potrebbe convivere solo con riguardo agli elementi del fatto ad esso estranei e non in ordine all’oggetto del profilo finalistico dell’azione delittuosa. 2.2.2. Con il secondo motivo si deduce la violazione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in relazione all’erronea applicazione della legge penale nonchè delle altre norme giuridiche, anche sovranazionali, di cui si deve tenere conto nell’applicazione della legge penale di cui alla L. n. 75 del 1958, art. 4 comma 1, n. 7 anche in relazione all’art. 25 Cost., nonchè all’illogicità della motivazione sull’affermazione della responsabilità penale per il reato di cui ai capi E, I, R, S, T, U, V, AE e AF. La Corte di appello avrebbe ritenuto l’equazione concettuale tra l’espressione “ai danni di più persone”, testualmente contenuta nella norma penale di cui sopra, e quella “nei confronti di più persone”. Tale equazione si risolverebbe in una applicazione analogica della disposizione penale in malam partem. Per la configurazione dell’aggravante, invece, occorrerebbe che l’azione di reclutamento sia stata necessariamente offensiva nei confronti di più soggetti passivi, profilo che non sussisterebbe nel caso di specie nel quale, peraltro, è stato negato il risarcimento dei danni. Secondo il ricorrente la dizione normativa dal punto di vista semantico e lessicale sarebbe indice di un’opzione normativa ben precisa che non potrebbe essere sovvertita dall’interpretazione data dalla Corte territoriale e ciò in quanto il legislatore ha, in altri contesti, impiegato il termine “nei confronti di”. Del resto, quando il legislatore ha inteso riferirsi alla sola qualità soggettiva del soggetto passivo del reato lo ha esplicitato come nelle ipotesi di cui ai n. 3 e 4 dell’art. 4 comma 1, cit.; dunque, nelle diverse ipotesi, tra cui il n. 7, in cui il legislatore ha invece introdotto il lemma normativo “ai danni di”, lo stesso avrebbe inteso correlare la configurabilità dell’aggravante alla ricorrenza del requisito della dannosità che, invece, la Corte territoriale ha ritenuto irrilevante. Anche in altre fattispecie normative il legislatore ha specificato la locuzione “nei confronti di”, come nell’art. 609 ter c.p., comma 1, n. 1, e comma 2, in un contesto nel quale la fattispecie a base violenta incorpora in sè una inevitabile componente di danno nei riguardi del soggetto passivo, situazione che, invece, non è ravvisabile nella fattispecie di reclutamento punita dalla legge “Merlin” tenuto conto che l’attività prostitutiva, come è noto, non è sanzionata ex se. Per tale ragione, secondo il ricorrente, sarebbe del tutto irrazionale, in relazione alle condotte parallele rispetto a tale lecita attività, prevedere un aggravamento di pena connesso alla ravvisabilità di un pregiudizio di danno nei confronti di persone esercenti tale lecita attività. Nella prospettiva del raffronto sistemico, viceversa, il legislatore ha inserito la locuzione “in danno di” con riferimento a fattispecie aggravate, come ad esempio, in quelle degli artt. 612 ter e 572 c.p., nelle quali la condotta ha in sè un profilo di danno alla persona. Ciò costituirebbe la riprova che il legislatore, lungi dal delineare equazioni concettuali, ha fatto riferimento a situazioni diverse, richiedendo la dimostrazione del danno ove previsto. Diversamente opinando, si dovrebbe porre la questione di legittimità costituzionale della L. n. 75 del 1958, art. 4, comma 1, n. 4 (ed anche dei n. 2, 5 e 7 bis) per contrasto con l’art. 25 Cost., per difetto di tassatività e determinatezza e per irragionevole equiparazione del lemma normativo “ai danni di” con quello “nei confronti di” in rapporto agli artt. 609 ter c.p., 612 ter c.p. e 572 c.p.. 3. Avverso la sentenza della Corte d’appello di Bari del 16/09/2020 ha proposto, in data 06/07/2021, ricorso per cassazione, qui riunito, anche il difensore di D.P.. Il difensore della parte civile ha, innanzi tutto, precisato essere oggetto dell’impugnazione l’ordinanza della Corte d’appello del 19/02/2020, richiamata nella sentenza impugnata, stante il suo carattere extra ordinem, in quanto emessa in violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost., art. 76 c.p.p., comma 2, e art. 81 c.p.p., per manifesto sviamento ed eccesso di potere giurisdizionale. L’abnormità del provvedimento produrrebbe effetti sulla sentenza impugnata e, per tali ragioni, chiede l’annullamento di quest’ultima per abnormità. In estrema sintesi, premesso che, con ordinanza resa nel dibattimento di appello, in data 19/02/2020, la Corte territoriale aveva dichiarato tardivo l’appello delle parti civili D.P. e D.N.M.T. e disposto l’estromissione delle stesse, che la ricorrente aveva impugnato per abnormità tale ordinanza con la quale era stata estromessa dal giudizio di appello e che, con sentenza della Corte di cassazione, resa il 02/12/2020, detta ordinanza era stata annullata senza rinvio limitatamente all’estromissione della parte civile, la parte civile argomenta che anche la sentenza sarebbe abnorme per sviamento di potere. In altre parole, l’ordinanza in questione altro non sarebbe che il risultato di un potere attribuito dalla legge al giudice, ma da questi esercitato al di fuori dei confini consentiti, avendo determinato, quale conseguenza del suo esercizio, l’estromissione della parte civile regolarmente costituita in violazione del principio di immanenza della stessa, principio non applicato dalla Corte barese. La parte civile avrebbe invece avuto buona ragione di rimanere all’interno del processo, ai sensi dell’art. 76 c.p.p., comma 2, e di non vedersi precluso l’esercizio del diritto a far valere la propria pretesa risarcitoria. Tale decisione sarebbe del tutto illogica, singolare ed arbitraria avendo travalicato i propri limiti non essendo mai stata esclusa la parte civile per assenza dei requisiti ex art. 81 c.p.p., essendo anche in contrasto con il principio di immanenza della parte civile. La Corte territoriale avrebbe illegittimamente deciso di proseguire il giudizio di appello e pronunciare sentenza in data 16/09/2020 nonostante l’intervenuto ricorso per cassazione proposto, nelle more, avverso l’ordinanza di estromissione. A fronte del rigetto della Procura generale di Bari della richiesta della parte civile di impugnare la sentenza ex artt. 570 e 572 c.p.p. e avendo ricevuto la notificazione dell’avviso dell’udienza fissata davanti alla Corte di cassazione del 20/07/2021, alla luce della sentenza della medesima Corte di cassazione n. 20365/2021, dep. il 24/05/2021, la ricorrente parte civile impugna quindi la sentenza del 16/09/2020, sia agli effetti civili sia per nullità che per carenza di motivazione e per ottenere un giudizio in ordine alle statuizioni civili, essendo stata illegittimamente estromessa da quel giudizio e non avendo così potuto svolgere alcuna attività difensiva. La già ricordata sentenza della Corte di cassazione, che ha riconosciuto l’abnormità dell’ordinanza de qua, cristallizzerebbe altresì l’abnormità della sentenza della Corte d’appello di Bari e la sua nullità per la totale assenza della parte civile e per carenza della motivazione circa l’estromissione della parte civile, estromissione adottata mediante richiamo per relationem dell’ordinanza del 19/02/2020. Chiede quindi la conferma della condanna con riguardo ai capi di imputazione T e V dell’imputato T. e di V.M. con condanna al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti, nonchè di quelli morali da liquidarsi in separato giudizio; chiede inoltre che il giudice di rinvio proceda alla rinnovazione dell’istruttoria secondo quanto indicato nel ricorso. Chiede inoltre l’annullamento della sentenza impugnata per abnormità. 4. Successivamente, Il difensore di parte civile ha depositato memorie scritte in data 03-05/07/2021, 27/09/2021, e memoria di replica in data 11/10/2021. I difensori dell’imputato, inoltre, hanno depositato memoria scritta di replica alle conclusioni del Procuratore generale e della parte civile. Motivi della decisione 1. Seguendo l’ordine logico dei ricorsi, va, in primo luogo, scrutinato il ricorso della parte civile dal cui accoglimento discenderebbe l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata. Il ricorso della parte civile, riunito all’odierno procedimento penale, originariamente fissato all’udienza del 20 luglio 2021 e rinviato all’odierna udienza onde consentire la trattazione unitaria dei ricorsi, è inammissibile. D.P., nell’articolato, ripetitivo e, a tratti, non sempre chiaro ricorso per cassazione, intende impugnare essenzialmente l’ordinanza dibattimentale pronunciata dalla Corte d’appello di Bari in data 19/02/2021, con la quale la stessa era stata estromessa dal processo nel quale era costituita parte civile, per abnormità e, in conseguenza, la sentenza della Corte d’appello, pronunciata in data 16/09/2020, perchè ritenuta anch’essa abnorme per sviamento di potere poichè, nella sostanza, l’estromissione della medesima dal processo avrebbe precluso l’esercizio di ogni attività difensiva nel procedimento penale nel quale era costituita parte civile. 1.1. Vanno anzitutto precisati i dati rilevanti per la decisione. La ricorrente ha, a suo tempo, impugnato, con ricorso per cassazione, l’ordinanza della Corte d’appello di Bari, emessa in data 19/02/2020, che aveva dichiarato inammissibile l’appello proposto dalla parte civile per tardività ed estromesso la stessa dal processo, denunciandone l’abnormità in relazione al punto concernente l’estromissione della parte civile. Con sentenza n. 20365 pronunciata in data 2 dicembre 2020 (dep. in data 25 maggio 2021), questa Corte ha annullato senza rinvio la suddetta ordinanza limitatamente alla estromissione dal giudizio della parte civile D.P.. Nella motivazione, la Corte ha dato atto che la Corte di appello di Bari si era pronunciata in merito all’eccezione difensiva degli imputati avente ad oggetto la tardività dell’appello proposto nell’interesse della parte civile D.P. (e di altra parte civile non ricorrente) in ordine al rigetto, in primo grado, della domanda di risarcimento per assenza del danno, e, nel rilevare la tardività dell’appello, proposto fuori termine, aveva dichiarato inammissibile l’impugnazione e, contestualmente, disposto l’estromissione dal giudizio di secondo grado di entrambe le parti civili, rilevando che la statuizione di rigetto della domanda risarcitoria da parte del Tribunale privava le parti civili di un interesse attuale e concreto alla loro partecipazione, non potendo più essere rimossa la statuizione del primo giudice. La Corte, precisato che la questione sulla tardività dell’appello non era oggetto di censura, quanto all’estromissione della parte civile dal giudizio di secondo grado, unico profilo di impugnazione dell’ordinanza dibattimentale, ha ritenuto che tale decisione fosse abnorme stante il necessario rispetto del principio di immanenza della parte civile. Con il presente ricorso, dunque, come già premesso, la parte civile impugna nuovamente l’ordinanza dibattimentale e, per l’effetto, la sentenza della Corte d’appello di Bari, lamentando l’abnormità di questa per l’illegittima estromissione pronunciata. 1.2. Così esposta la vicenda processuale, va anzitutto preso atto della inammissibilità del ricorso nella parte in cui viene nuovamente impugnata l’ordinanza del 19/02/2020 già annullata senza rinvio da questa Corte, Deve essere inoltre chiaro che, non essendo mai stata impugnata, neppure con il presente ricorso, che mai vi fa cenno, la pronuncia di inammissibilità dell’appello per tardività dello stesso, è preclusa, in questa sede, come ha anche osservato il Procuratore generale in udienza, ogni valutazione circa la fondatezza o meno della domanda risarcitoria rigettata in primo grado e rispetto alla quale l’impugnazione in grado di appello è stata dichiarata inammissibile perchè appunto tardiva. Sul punto vi è infatti la preclusione del giudicato ormai non rimovibile, e va subito rilevata l’inammissibilità del ricorso nelle parti in cui la ricorrente, senza avere appunto impugnato espressamente la decisione di inammissibilità dell’appello proposto quanto alla esclusione del danno, tenta di rimettere in gioco la questione e fa valere la pretesa risarcitoria finanche arrivando a chiedere, nella memoria difensiva del 24 settembre 2021, la condanna ad una provvisionale con ampi richiami a pronunce giurisprudenziali non invocabili nel caso in esame stante il rigetto della domanda di risarcimento dei danni. Nè, a diversa conclusione, può pervenirsi invocando l’applicazione del principio di immanenza della parte civile. Sin dalla pronuncia di Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, Clarke, Rv. 203430 – 01, il principio di immanenza della costituzione di parte civile comporta che l’assenza nel procedimento di appello non può interpretarsi come comportamento equivalente a revoca tacita o presunta, non essendo riconducibile in alcuna delle specifiche ipotesi previste dall’art. 82 c.p.p., comma 2, con la conseguenza, affermata dalla decisione del Supremo Collegio, che la Corte territoriale, nel riformare la sentenza di assoluzione pronunciata dal Tribunale, rettamente provvede ad emettere le statuizioni relative agli interessi civili e, nonostante la mancata comparizione nel giudizio di appello, a liquidare le spese di rappresentanza sostenute dalla parte civile nel giudizio di primo grado. Si tratta, all’evidenza di pronuncia resa in un caso in cui, nel giudizio di appello, vi era stata condanna al risarcimento del danno, da cui l’affermato principio secondo cui l’assenza della parte civile, non equivalendo a revoca tacita, non poteva pregiudicare la stessa nel vedere riconosciuto il diritto ad ottenere le statuizioni civili in suo favore. Ma appare del tutto chiara la differenza rispetto al caso in esame nel quale, per la dichiarata tardività dell’atto di appello, non impugnata, è divenuta definitiva la sentenza del Tribunale che aveva rigettato la domanda di risarcimento dei danni per assenza dei relativi presupposti. Come osservato da Sez. 5, n. 1461 del 10/11/2010, Messineo, Rv. 249096 – 01, con argomenti del tutto condivisibili, il principio della “immanenza” della costituzione di parte civile è destinato a produrre i propri effetti in favore di questa, anche in presenza dell’appello del solo Procuratore della Repubblica, soltanto quando la decisione di secondo grado sia favorevole all’impugnante, e cioè di condanna. Si è quindi chiarito che, in tale ipotesi, la parte civile ha diritto a vedere riconosciute le proprie pretese risarcitorie, ove ne sussistano i presupposti di merito. Ciò comporta, a contrario, che quando i presupposti di merito sono stati negati e la parte civile ha impugnato tale decisione, ma tale impugnazione sia stata dichiarata, come nella specie, con pronuncia definitiva, inammissibile, la stessa non può proporre ricorso per cassazione volto nella sostanza a rimettere in discussione la negata pretesa risarcitoria non impugnata a suo tempo. In tale ipotesi non viene quindi più in rilievo il principio di immanenza della parte civile assumendo rilievo, viceversa, il fatto che la sentenza di primo grado sia stata dalla parte civile appellata con gravame dichiarato inammissibile, con la conseguenza che nei suoi riguardi si è prodotto l’effetto del giudicato. Tale principio si pone sulla scia di pronunce giurisprudenziali, ancora di recente ribadite, secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione proposto dalla parte civile avverso la sentenza d’appello, quando la stessa non abbia impugnato la decisione assolutoria di primo grado, confermata dalla Corte d’appello a seguito di impugnazione proposta dal solo P.M. (Sez. 5, n. 315 del 14/11/2017, P.G. in proc. Geraci, Rv. 271926 – 01; Sez. 6, n. 35678 del 07/07/2015, P.C. in proc. C, Rv. 265003 – 01; Sez. 6, n. 35513 del 21/05/2013, Spadavecchia, Rv. 256091 – 01; Sez. 6, n. 49497 del 13/10/2009, P.C. in proc. Tamai, Rv. 245477 – 01). Principio che non può non valere, ai fini che qui interessano, anche per il caso di appello proposto dalla parte civile, dichiarato inammissibile con decisione non impugnata dalla stessa. E ciò in quanto, quando l’azione civile sia inserita nel processo penale, ove la parte civile intenda ottenere una pronuncia diversa da quella emessa dal giudice di primo grado, in quanto ritenuta lesiva dei suoi interessi, ha l’onere di impugnare tale decisione e di non accontentarsi dell’impugnazione proposta dal titolare dell’azione penale. Ove l’impugnazione non venga proposta o, laddove proposta, venga dichiarata come nel caso in esame. inammissibile per tardività, non è invocabile il principio di immanenza della parte civile che si risolverebbe in una richiesta di revisione della pretesa risarcitoria su cui si è formato il giudicato. 1.3. Appare inoltre non pertinente il profilo di abnormità della sentenza, conseguente all’abnormità dell’ordinanza dibattimentale. Sotto un primo profilo, tenuto conto che è stato già riconosciuto il profilo di abnormità dell’ordinanza limitatamente all’estromissione della parte civile, non potrebbe certamente reputarsi abnorme l’ordinanza di inammissibilità anche in punto di dichiarata tardività dell’appello. Del resto, non potrebbe certamente costituire sviamento di potere, secondo la prospettazione difensiva, la legittima valutazione della Corte territoriale della ammissibilità dell’impugnazione, essendo suo pieno potere quello di valutare la tempestività della stessa, nè potrebbe configurarsi l’abnormità dell’ordinanza per essere la stessa stata pronunciata nel corso del dibattimento, non determinando ciò alcuna stasi del procedimento a fronte della sua piena impugnabilità. 1.4. Resta solo da valutare il dedotto profilo della violazione dei diritti di difesa nel procedimento di secondo grado per essere stata la parte civile estromessa illegittimamente, come già riconosciuto da questa Corte con la sentenza sopra ricordata. Occorre chiedersi quale sia la conseguenza dell’accertata illegittimità dell’estromissione posto che la pronuncia di annullamento della Corte di cassazione, che ha ritenuto abnorme il provvedimento di estromissione della parte civile, è stata resa a giudizio di appello concluso. Non certo quella di rimettere in discussione la pretesa risarcitoria già respinta dal Tribunale, nè, tanto meno, di consentire di far avanzare le richieste di rinnovazione dell’istruttoria presenti in ricorso. Non è, infatti, più in discussione la pronuncia di rigetto della richiesta di risarcimento dei danni ormai preclusa dalla definitività della decisione che ha statuito sulla tardività dell’impugnazione della parte civile avverso la predetta pronuncia di rigetto del Tribunale. La domanda risarcitoria non può, in altri termini, essere veicolata attraverso il presente ricorso per cassazione. Rimane da valutare la circostanza che la parte civile avrebbe dovuto essere presente nel giudizio di appello in virtù del principio di immanenza della stessa, come riconosciuto da questa Corte che ha, sul punto, peraltro, chiarito i limiti di partecipazione al processo essendo stato significativamente precisato non avere questa “titolo per far valere in sede penale la pretesa civilistica”, precisando che “la facoltà di partecipare al processo, sia pure con uno spettro più limitato di poteri di intervento, deriva infatti pur sempre dall’immanenza della costituzione” “conservando questa (ovvero la parte civile illegittimamente estromessa) l’interesse a partecipare al processo di secondo grado, anche solo nella veste di semplice persona offesa dal reato”. 1.5. Così definito da tale pronuncia, in termini generali e di principio, il perimetro entro il quale la parte estromessa può dolersi della mancata partecipazione, occorre, tuttavia, domandarsi quale conseguenza sia derivata, nel caso in esame, dalla sua mancata presenza nel giudizio ed eventualmente quale vizio ciò abbia prodotto sulla sentenza pronuncia in sua assenza. Nel caso in esame, deve allora rilevarsi che la mancata partecipazione al giudizio di secondo grado della ricorrente quale persona offesa non ha prodotto alcuna lesione ai suoi diritti avendo la Corte d’appello confermato l’affermazione di responsabilità del T. in relazione ai capi T e V che coinvolgono la ricorrente estromessa, con conseguente mancanza di ogni concreto ed attuale interesse all’impugnazione, del resto non rappresentati, come necessario, in ricorso. In altri termini, il suo mancato intervento ad adiuvandum non ha comportato conseguenze pregiudizievoli di sorta, in ogni caso neppure rappresentate. In definitiva, mentre il potere di immanenza della parte civile ha come presupposto logico la affermazione della pretesa civilistica accolta, è residuato solamente, nella specie, come ritenuto da questa Corte, un limitato potere di intervento nella veste di semplice persona offesa dal reato, intervento la cui preclusione non può essere lamentata in alcun modo a fronte della condanna penale comunque intervenuta in relazione ai reati aventi come soggetto passivo la D.. La sentenza non è dunque certamente abnorme e, del resto, l’eventuale annullamento della sentenza al fine di consentire alla ricorrente, con i limitati poteri che la legge assegna alla persona offesa del reato, di svolgere l’attività difensiva diretta a contrastare la pretesa avversaria sarebbe inutiliter datum posto che la Corte territoriale ha, come detto, confermato l’affermazione di responsabilità per i capi T e V. Nè può ritenersi, sotto altro profilo, che la ricorrente abbia subito un pregiudizio conseguente al mancato pagamento delle spese del procedimento poichè alla stessa, in ragione del rigetto della domanda risarcitoria, queste non erano dovute. Si rammenta che il pagamento delle spese del procedimento consegue là dove la parte abbia svolto un’attività diretta a contrastare la avversa pretesa a tutela dei propri interessi di natura civile risarcitoria (Sez. 5, n. 30743 del 26/03/2019, Rv. 277152 – 01); viceversa, non può essere riconosciuto il pagamento delle spese sostenute nel procedimento in assenza di una pretesa risarcitoria da far valere, come avvenuto nel caso in esame. Conclusivamente, il ricorso della parte civile è inammissibile con tutte le conseguenze di legge. 2. Il ricorso del Procuratore generale non è fondato sulla base delle seguenti ragioni. La condotta di reclutamento di cui alla L. n. 75 del 1958, art. 3, comma 1, n. 4, è stata identificata, sin dalle risalenti pronunce degli anni ‘60, nell’ingaggio di persone per l’esercizio della prostituzione e si concreta nell’attività di ricerca dell’agente e nella persuasione della donna ingaggiata, mediante la rappresentazione dei guadagni realizzabili, a recarsi in un determinato luogo per prostituirsi (Sez. 3, n. 587 del 08/05/1967, Rv. 104886 – 01). Anche in tempi più recenti, e nel solco dell’indirizzo interpretativo sopra evidenziato, si è affermato che la condotta di reclutamento si realizza quando l’agente si attiva al fine di collocare la vittima dell’azione delittuosa nella disponibilità di chi intende trarre vantaggio dall’attività di meretricio ed è, pertanto, integrata da una qualsiasi attività, effettuata anche su scala molto modesta, di ricerca della persona da ingaggiare e di persuasione della medesima, mediante la rappresentazione dei vantaggi realizzabili, a recarsi in un determinato luogo e a rimanervi per un certo tempo al fine di prestarsi, con continuità e regolarità, alle richieste di prestazioni sessuali dei clienti (Sez. 3, n. 15217 del 20/10/2016, Rv. 269485 – 01; Sez. 3, n. 12999 del 12/11/2014, Vasile, Rv. 262993 – 01; Sez. 6, n. 4137 del 07/12/2006, B., Rv. 235605 – 01). L’ingaggio può avvenire per conto dello stesso agente o per conto altrui. Quando l’ingaggio si esaurisce nell’opera di intermediazione non è affatto necessario che la prostituta rimanga nella disponibilità del reclutante anche per brevissimo tempo: l’agente, una volta rintracciata la donna e avviatala, non ha da svolgere alcuna altra attività, avendo già realizzato in pieno il fine propostosi (Sez. 3, n. 587 del 08/05/1967, Rv. 104886 – 01 che richiama le sentenze n. 103979, 104535, 104626 anno 1967). Il reclutamento si differenzia dal delitto di induzione per l’assenza della necessaria opera di persuasione, che può anche non sussistere, essendo sufficiente che l’agente si attivi al fine di “collocare” la vittima dell’azione delittuosa nella disponibilità del soggetto che intende trarre vantaggio dall’attività di meretricio, non richiedendosi affatto, a differenza del delitto di induzione, che l’agente svolga, al fine di fare prostituire la persona, opera di persuasione di questa o di rafforzamento di un suo iniziale proposito (Sez. 3, n. 11835 del 04/12/2007, Rv. 239332 – 01). Quanto all’individuazione del momento consumativo del reato, il delitto di reclutamento di prostitute si esaurisce e si consuma nell’attività di ricerca di persone da ingaggiare e in quella di persuasione delle medesime a recarsi in un determinato luogo per l’esercizio della prostituzione, a nulla rilevando, a tale fine, che a siffatta attività sia seguito poi l’effettivo esercizio della prostituzione (Sez. 6, n. 4137 del 07/12/2006, B, Rv. 235605 – 01). Le prime pronunce, risalenti alla fine degli anni ‘60 del secolo scorso, erano state emesse in un contesto nel quale la condotta di reclutamento veniva, per lo più, in rilievo in ambiti nei quali l’attività dell’agente era diretta ad avviare la prostituta a svolgere l’attività di meretrico all’interno delle case di prostituzione; non di meno, a fronte del mutato contesto in cui viene oggi esercitata la prostituzione, la condotta di reclutamento non è mutata negli elementi costitutivi, come individuati nell’elaborazione giurisprudenziale già ricordata, di attività dell’agente di ricerca della persona da ingaggiare e di persuasione della medesima, mediante la rappresentazione dei vantaggi realizzabili, a recarsi in un determinato luogo e a rimanervi per un certo tempo al fine di prestarsi alle richieste di prestazioni sessuali dei clienti, condotta, in altri termini, diretta alla ricerca della persona che presta il consenso, in vista dei vantaggi ottenibili, allo svolgimento di attività prostitutive in favore di un terzo. 2.1. Stando ai principi reiteratamente espressi, a cui il Collegio intende dare continuità, la fattispecie di reclutamento si perfeziona, dunque, con il raggiungimento dell’accordo in merito alla finalità prostitutiva con la persona disposta a recarsi in un luogo e ivi rimanervi per il tempo necessario, esaurendosi. la condotta dell’agente nel rintracciare la donna e avviarla alla prostituzione per conto del cliente per il quale ha agito, non essendo necessaria alcuna altra attività, essendosi così già realizzato la condotta di reato, nè essendo necessari l’effettivo esercizio dell’attività di prostituzione e la prova dell’avvenuta retribuzione. Si tratta, pertanto, di una fattispecie istantanea la cui condotta si esaurisce con il perfezionamento dell’accordo e dell’ingaggio prostitutivo con la persona disposta a recarsi in un luogo al fine di esercitare l’attività prostitutiva. Ne consegue che la condotta volta ad ottenere, mediante accordi successivi, la disponibilità della medesima persona a svolgere l’attività prostitutiva, anche nei confronti del medesimo cliente, integra un nuovo reato, unificato dal vincolo della continuazione stante la medesimezza del disegno criminoso, ogni qual volta la condotta reclutativa dell’agente abbia avuto un’autonoma e nuova incidenza causale in vista dell’accordo prostitutivo nuovamente raggiunto con il soggetto disposto a recarsi in un luogo per la prestazione prostitutiva. In altri termini, qualora l’agente ponga in essere un’attività diretta ad ottenere un nuovo ingaggio con la manifestazione di un nuovo consenso in relazione al tipo, luogo e condizioni dell’attività prostitutiva da svolgere in favore di terzi, si realizza un nuovo reato di reclutamento. Si vuol dire, dunque, che ciò che connota la rilevanza penale del fatto di reclutamento è il raggiungimento dell’accordo tra l’intermediario e la persona ingaggiata disposta a prostituirsi in vista di vantaggi realizzabili attraverso l’attività medesima, accordo che, una volta perfezionatosi (nel tempo e nel luogo in cui è avvenuto) esaurisce la condotta punita dalla norma incriminatrice. Ogni nuovo accordo, anche con la medesima persona in favore del medesimo (eventuale) cliente, costituisce un autonomo reato (commesso nel luogo e nel tempo in cui è avvenuto) mentre là dove, per le modalità del fatto concreto, si possa ritenere che l’accordo sia già di per sè comprensivo di una serie ripetuta di prestazioni, sarà, evidentemente, configurabile l’unicità del reato. La linea di discrimine è, dunque, costituita dall’autonoma causalità della condotta dell’agente, volta al rintraccio di un soggetto e all’accordo con il medesimo a fini di ingaggio a fini prostitutivi ed è volto ad ottenere l’espressione del consenso della persona reclutata in vista dell’ingaggio stesso nel luogo e con le modalità (eventuali) concordate e la cui disponibilità a ricollocarsi in favore del medesimo cliente è meramente eventuale. 2.2. Rilevano, dunque, in altri termini, le circostanze dell’accordo: là dove le circostanze dell’accordo rivelino una messa a disposizione già acquisita per l’ingaggio futuro con modi e tempi concordati il reato si perfeziona ab origine nel momento e nel luogo dell’intervenuto accordo ed è tale da ricomprendere tutte le programmate condotte prostitutive oggetto di esso, essendo dunque le stesse null’altro che meri momenti esecutivi dell’accordo originario, mentre, là dove l’agente ponga in essere attività dirette ad ottenere un nuovo accordo, si realizzano diversi reati unificati tra loro dal vincolo della continuazione. 2.3. Alla luce di tali premesse, non è allora condivisibile l’approccio interpretativo del ricorrente. Non è invocabile, come assume il Procuratore generale, la giurisprudenza di legittimità espressa con riguardo alle condotte di induzione e favoreggiamento. La L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 3, comma 1, della delinea un reato a più norme (induce, favorisce, sfrutta) aventi, ciascuna di esse, elementi che le rendono differenti tra di loro e la cui realizzazione integra, di norma, il concorso di reati, diversamente dalla norma che descriva una pluralità di condotte tra loro fungibili. L’art. 3 cit. non configura, cioè, una sola fattispecie criminosa a manifestazioni plurime, ma prevede più reati strutturalmente autonomi (Sez. 3, n. 28196 dell’11/06/2015, D., Rv.276050; Sez. 3, n. 3420 del 12/06/1975, Rv. 133370 – 01). Si tratta, dal punto di vista dommatico, di una disposizione a più norme e non di norma a più fattispecie, che preveda cioè unicità di reato con possibilità di plurime qualificazioni della condotta dell’agente (Sez. 3, n. 532 del 21/04/1967, Rv. 104850 – 01 che richiama Sez. 3, n. 2885 del 19/12/1966, B., Rv. 103485 01; Sez. 3, n. 524 del 21/04/1967, L, Rv. 104843 – 01). Se dunque, per quanto qui di rilievo, l’art. 3 prevede una pluralità di reati strutturalmente autonomi, non è applicabile la giurisprudenza elaborata per le fattispecie di induzione e/o favoreggiamento alla diversa condotta di reclutamento che presenta tratti ontologicamente differenti. Viceversa, a delineare il paradigma normativo del reclutamento sovviene la costante giurisprudenza di legittimità che, sin dalle lontane pronunce, ha definito in termini chiari e costanti la condotta punita ed è a questa elaborazione giurisprudenziale che l’interprete deve uniformarsi anche dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 142 del 2019, che ha respinto la questione di legittimità costituzionale della norma incriminatrice. Sulla base di tali ragioni il ricorso del Procuratore generale, che appare ripropositivo di quanto affermato dal Tribunale, non è dunque fondato. Va aggiunto, peraltro, che il fatto di ricostruire la condotta di reclutamento quale reato unitario dovrebbe condurre a ritenere, come già evidenziato, che il reato si consumi, non già, come ritenuto dal ricorrente (e, ancor prima, dal Tribunale), con l’ultimo degli atti esecutivi dell’accordo pattuito, ma, al contrario, con la stessa stipulazione di quest’ultimo, sì che il termine di prescrizione decorrerebbe, a ben vedere, da esso. Non è, in altri termini, giuridicamente corretto ritenere che, data l’unitarietà del reato, la consumazione di questo avvenga con l’ultimo degli atti di esecuzione dell’ingaggio, affermazione, questa, che sarebbe corretta, invece, solo in presenza di un reato abituale o eventualmente abituale. 2.4. La decisione impugnata, invece, si pone in linea con i principi reiteratamente espressi dalla giurisprudenza di legittimità là dove, diversamente dalla pronuncia del Tribunale, affermata la natura di reato istantaneo che si perfeziona con l’accordo in forza del quale un soggetto si rende disponibile, in vista di vantaggi anche di natura economica, a recarsi in un posto e ivi rimanere per lo svolgimento dell’attività prostitutiva, trae le conseguenze giuridiche in presenza di accordi reclutativi autonomi successivi al primo e collocati in momenti temporalmente distinti anche quanto al luogo di consumazione dell’attività prostitutiva. 2.5. E’ evidente come la questione diventi, dunque, questione di puro fatto. Là dove l’accordo, in vista dell’ingaggio prostitutivo, per le sue concrete manifestazioni, comprenda in sè il consenso a tutte lè prestazioni future della stessa persona ingaggiata senza necessità di espressione di nuovo consenso, gli ulteriori atti, trovando causa nell’originario accordo, restano privi di autonoma rilevanza penale; diversamente, qualora l’agente ponga in essere ogni volta un’attività diretta ad ottenere il consenso all’ingaggio prostitutivo in vista di una prestazione precisamente individuata, anche nelle sue modalità attuative e/o in contesti temporali e spaziali specificamente individuati, attività che assume autonoma incidenza causale sulla formazione del consenso del soggetto ingaggiato, si è presenza di altrettanti reati di reclutamento quante sono le autonome attività di intermediazione e/o persuasione di una persona a recarsi in un luogo ed ivi trattenersi per lo svolgimento di una prestazione prostitutiva. Sul piano dell’accertamento di fatto, la sentenza impugnata ha individuato gli indici rivelatori dell’autonoma rilevanza penale dei successivi accordi nei confronti del medesimo soggetto disponibile a prostituirsi: le circostanze concrete dell’approccio dell’agente che rivelano un rinnovato consenso all’ingaggio prostitutivo, ottenuto in conseguenza dell’azione dell’agente in vista di una determinata prestazione da compiere, le circostanze spaziali e temporali oggetto dell’accordo e specificate in questo, la diversità di soggetti in favore dei quali avviene l’ingaggio, la distanza cronologica di ciascuna delle conversazioni tra le parti coinvolte dirette all’ingaggio, sono state correttamente lette come indici di altrettante condotte di reclutamento. Anche la ricostruzione in fatto della sentenza impugnata degli ingaggi prostitutivi nei confronti della stessa persona reclutata (unici per i quali, evidentemente, può porsi la questione di diritto) è stata argomentata dalla Corte d’appello con motivazione che non presta il fianco a lievi di illogicità ed è corretta in diritto. Secondo la sentenza impugnata, l’ingaggio prostitutivo era posto in essere in vista della specifica serata, nella quale erano reclutate più persone, alcune delle quali già reclutate in occasione di precedenti serate, oggetto di singole contestazioni, ma con autonoma attività di persuasione volta all’ingaggio e diretta ad ottenere il consenso della persona ingaggiata mediante la prospettazione di vantaggi personali. Ne consegue che, con riferimento ai capi di imputazione, oggetto di impugnazione da parte del Procuratore generale di Bari, per i quali, in dipendenza della ritenuta natura istantanea del reato di reclutamento della prostituzione e dell’autonomia degli ingaggi successivi al primo, era stata dichiarata la prescrizione del reato, la sentenza impugnata è immune da censure e il ricorso del Procuratore generale deve essere rigettato. Viceversa, va aggiunto sin d’ora, con riguardo ai capi di imputazione per i quali è stata confermata la pronuncia di condanna, impugnati dal solo ricorrente T., che la sentenza impugnata, sulla scorta dei sopra indicati indici di autonomia dell’ingaggio prostitutivo, ha argomentato come la notevole distanza temporale intercorrente tra gli episodi di reclutamento ascritti al T. nei riguardi di C.C.C. nei capi H, F, e R, intercorrendo tra il primo e secondo episodio un intervallo di dieci mesi e tra il secondo e il terzo un lasso di oltre cinque mesi (cfr. pag. 14) escludesse che la pratica reclutativa del T. svolta in occasione del primo accordo avesse conservato effetti persuasivi a distanza complessiva di oltre un anno ai fini della valutazione delle condotte quale reato unitario in luogo, invece, come corretto, di una pluralità di reati di reclutamento. Allo stesso modo, la Corte territoriale ha ritenuto l’autonoma rilevanza penale degli ingaggi prostitutivi del capo AF e dell’ingaggio prostitutivo, per la serata del (OMISSIS), del capo R. Anche in questo caso la Corte territoriale ha escluso che l’accordo raggiunto con la Caci potesse trovare origine in precedenti accordi reclutativi in ragione del considerevole lasso temporale rispetto al reclutamento del capo F avvenuto nel (OMISSIS). Per altri episodi l’unitarietà del reato è stata esclusa dalla Corte d’appello, ritenendo dimostrata l’autonomia del reclutamento delle donne per ogni singola serata, in ragione delle circostanze di fatto in cui si è concretizzata l’attività dell’imputato di ingaggio, per la serata del (OMISSIS), svolta nei confronti delle persone indicate nell’imputazione di cui al capo E, ingaggio prostitutivo in cui l’imputato aveva reclutato (per il tentativo di reclutamento di A.M. è stato assolto in primo grado) L.F., N. e B.. L’imputato si era attivato fattivamente offrendosi di pagare le spese di viaggio e di accompagnamento a (OMISSIS), circostanze dimostrative del fatto che l’accordo in questione non poteva farsi risalire a quelli precedenti, avendo posto in essere, l’imputato, attività diretta ad ottenere l’adesione delle donne per la specifica serata. In relazione poi al capo I, secondo la sentenza impugnata, proprio la ricostruzione dell’ingaggio prostitutivo di T.S. avrebbe dimostrato l’autonomia di ciascun accordo (cfr. pag. 38) nel quale, per l’occasione, si inserisce l’invito all’acquisto di un nuovo abito per l’occasione serale con B.S. del (OMISSIS). Ma non solo: come osserva la Corte territoriale, per ottenere l’ingaggio prostitutivo per la serata del (OMISSIS) (capo I), organizzata dal T., costui aveva dovuto fare opera di persuasione affinchè la T. rifiutasse l’invito, proveniente direttamente da B.S., per accogliere, invece, il proprio invito per la stessa serata, segno evidente che il raggiunto accordo con la T. non poteva trovare causa in un precedente accordo. L’imputato, con la condotta descritta, avrebbe, dunque, ricercato e ottenuto un accordo autonomo e distinto rispetto a quelli precedenti, integrante un singolo reato di reclutamento. Per la stessa serata, l’imputato, ottenuto il consenso di B. circa la presenza di S.F., si premurava di contattarla al fine di ottenere la sua presenza alla serata. Anche in questo caso la condotta dell’imputato è stata correttamente ritenuta connotata da autonoma incidenza causale rispetto all’accordo con la S. che integra il reato contestato. Allo stesso modo, quanto al capo L, respinta la censura difensiva in punto di fatto e riconosciuta la condotta di ingaggio prostitutivo di D.M., C. e N., la frenetica attività posta in essere dall’imputato per reperire delle donne per la serata del (OMISSIS), in cui larga parte delle trattative riguarda il pernottamento o meno nella casa di B.S., dimostra, anche in questo caso, l’autonomia dell’accordo prostitutivo con le tre donne nel quale la condotta del T. ha avuto una evidente autonomia rispetto a precedenti inviti per altre serate. Sempre in ragione delle circostanze in cui si è concretizzato l’accordo, si fonda la responsabilità penale per il capo U di reclutamento per la serata del (OMISSIS) di T.S. e tale M.. In questa occasione, la Corte evidenzia le direttive “comportamentali” per la singola serata che sono, a giudizio della stessa, indice dell’autonoma condotta reclutativa dell’imputato. Stesso discorso vale per il reclutamento del capo S, per la serata dell'(OMISSIS) e per i capi T e V per le serate del (OMISSIS) e (OMISSIS) e, infine, per il capo AE, attività di reclutamento in favore di un dirigente di (OMISSIS) in, cui oltre alla diversità del cliente, rilevano le circostanze spazio – temporale dell’ingaggio prostitutivo. In conclusione, tenuto conto degli accertamenti in punto di fatto, esclusi dall’ambito cognitivo di questa Corte, la ravvisata autonomia ontologica delle singole condotte reclutative è stata argomentata dalla Corte territoriale con motivazione che non presta il fianco a rilievi di illogicità ed è corretta in diritto, senza che, del resto, nessuna censura sul punto sia stata svolta dal ricorrente. Consegue a tutto quanto sin qui esposto il rigetto del ricorso. 3. Il ricorso nell’interesse di T.G. non è fondato sulla base delle seguenti ragioni. 3.1. Non è fondato, anzitutto, sotto tutte le prospettazioni difensive, il primo motivo di ricorso, motivo che è anche in parte connotato da genericità estrinseca rispetto alla sentenza impugnata. Sotto un primo profilo, il ricorrente deduce l’errata applicazione della legge penale là dove la Corte territoriale non avrebbe considerato che il delitto di reclutamento della prostituzione implica l’individuazione di un contegno di ricerca e di persuasione a recarsi in un determinato luogo e a rimanervi per un certo tempo al fine di corrispondere con “continuità e regolarità” alle richieste di prestazioni sessuali dei clienti. Tra gli elementi tipici della fattispecie, secondo il ricorrente, vi sarebbe indefettibilmente il carattere abituale della condotta, che sarebbe insussistente nel caso in scrutinio. La corretta costruzione giuridica, secondo cui il reato de quo dovrebbe essere connotato dall’abitualità della condotta, come sostiene la difesa, si imporrebbe anche per il necessario rispetto del principio di tassatività della fattispecie. Come sopra argomentato, tuttavia, (cfr. p. 2.3.), la L. n. 75 del 1958, art. 3 prevede una disposizione a più norme e, tra queste, il reato di reclutamento ha natura di reato istantaneo, natura, invero, mai messa in discussione dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente dalle altre fattispecie di reati come lo sfruttamento e il favoreggiamento (quest’ultimo eventualmente abituale) della prostituzione, connotate da abitualità della condotta. La necessità che l’attività prostitutiva sia svolta con “continuità e regolarità”, come argomenta il ricorrente, e che si collega al riferimento contenuto nelle pronunce della Corte, a partire dalle più risalenti nel tempo e, in modo tralatizio, riportato in quelle successive pronunziate in un diverso contesto storico, non vale a mutare la natura istantanea del delitto di reclutamento, che si consuma con il raggiungimento dell’accordo e che è del tutto indipendente, come più volte sottolineato da questa Corte, e come già più sopra ricordato, dalla successiva prestazione dell’attività prostitutiva. La natura istantanea del reato non è mai stata oggetto di rivisitazione nel tempo e non è mai stata, del resto, messa in discussione. Le più risalenti pronunce di questa Corte furono, peraltro, rese in un contesto storico nel quale l’attività prostitutiva era, per lo più, realizzata in contesti molto diversi da quelli attuali (si pensi solo all’esercizio nelle case di prostituzione ove venivano reclutate le donne). Non di meno, ritiene il Collegio che, anche nel mutato contesto sociale, che registra sia forme tipiche di induzione, sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione in contesti di criminalità organizzata, sia, come nel caso in esame, attività di reclutamento a fini prostitutivi di soggetti che liberamente intendono svolgere la prostituzione, i requisiti della condotta di reclutamento, come elaborati dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. p. 2.), mantengano piena validità e siano pienamente compatibili con il principio di tassatività della fattispecie, non essendo necessaria, per le ragioni appena dette, la sussistenza di una ripetitività delle prestazioni. Ancor prima, deve aggiungersi, l’argomentare del ricorrente è comunque frutto di un equivoco interpretativo: il principio di tassatività è rivolto al legislatore e riguarda la descrizione del fatto tipico, sia esso costruito quale reato istantaneo, abituale o permanente. La previsione di una condotta istantanea o abituale o permanente della fattispecie non ha nulla a che vedere con il principio di tassatività nel senso che non riguarda la “costruzione dogmatica” della fattispecie. Non è, in altri termini, il requisito di abitualità a far ritenere il fatto tipico come rispettoso dell’art. 25 Cost.; e non è la qualificazione giuridica della condotta (sia essa istantanea o abituale) a determinare la violazione del principio di tassatività, ma la “tipicità” di questo, ovvero la descrizione del fatto in forma chiara e precisa cioè, quanto al caso in esame, la descrizione della condotta di reclutamento. Per “reclutamento” si intende, secondo l’indirizzo ermeneutico della giurisprudenza di legittimità, l’ingaggio per l’esercizio della prostituzione, indipendentemente dal fatto che la persona ingaggiata sia già dedita a tale attività o fino a quel momento estranea ad essa, non essendo necessaria alcuna altra attività, in quanto in tal modo già realizzata la condotta di reato. La condotta di reclutamento si realizza, in specie, allorchè l’agente si attivi al fine di collocare la persona nella disponibilità del soggetto che intende trarre vantaggio dall’attività di meretricio. Per l’integrazione del reato è, quindi, sufficiente un’attività di ricerca della persona da ingaggiare e di persuasione della medesima, mediante la rappresentazione dei vantaggi realizzabili, a recarsi in un determinato luogo e a rimanervi per un certo tempo al fine di esaudire le richieste di prestazioni sessuali dei clienti. L’accordo tra l’intermediario e il soggetto che intende svolgere l’attività di prostituzione in vista di vantaggi, indica il momento consumativo del reato e lo esaurisce, non essendo necessaria alcuna altra attività, avendo già realizzato la condotta di reato, nè essendo necessaria l’avvenuta prostituzione e la prova dell’avvenuta retribuzione. L’indirizzo ermeneutico espresso dalla giurisprudenza di legittimità ha, inoltre, trovato condivisione e avallo anche nel Giudice delle leggi che, nella sentenza n. 141 del 2019, lo ha espressamente richiamato (p. 4.3 del considerato in diritto). Nè può ritenersi sussistente la violazione del principio di tipicità/determinatezza della fattispecie alla luce dell’interpretazione della condotta di reclutamento che è stata data dalla giurisprudenza di legittimità e tenuto conto dei parametri del sindacato di costituzionalità in tema (cfr. p. 8 del considerato in diritto) secondo cui “l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti “elastici”, non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo” (sentenza n. 25 del 2019; nello stesso senso, sentenze n. 172 del 2014, n. 282 del 2010, n. 21 del 2009, n. 327 del 2008 e n. 5 del 2004)”. Ritiene, il Collegio che non vi siano dunque ragioni di sorta per sollevare questione di legittimità costituzionale della L. n. 75 del 1958, art. 3, comma 1, n. 4 sotto il profilo della tassatività e determinatezza della fattispecie. La questione risulta manifestamente infondata alla luce dell’interpretazione di cui alla pronuncia appena ricordata che, in conformità all’orientamento di questa Corte, ha individuato i connotati specifici della condotta di reclutamento che permettono al destinatario della norma di avere ben chiari i requisiti precettivi della stessa. Va rammentato, del resto, al riguardo, che una legge non è incostituzionale sol perchè è possibile darne una interpretazione incostituzionale, ma unicamente quando non sia possibile darne un’interpretazione conforme alla Costituzione. 3.1.2. Anche il lamentato vizio di motivazione sulla offensività in concreto delle vicende processuali sottese ai capi di imputazione per cui vi è stata affermazione di responsabilità ed invocato sotto il secondo profilo sempre del primo motivo di ricorso, non è fondato ed è anche in parte generico là dove non si confronta con l’intera ratio decidendi. La questione è stata affrontata dai giudici dell’impugnazione e risolta in modo congruo e corretto sì che la motivazione non appare censurabile. Come è noto, la Corte d’appello di Bari, con ordinanza del 7 febbraio 2018, sollevava questione di legittimità costituzionale, per asserito contrasto con gli artt. 2, 3, 13 Cost., art. 25 Cost., comma 2, artt. 27 e 41 Cost., della L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 3, comma 1, n. 4, prima parte e n. 8 (Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui), nella parte in cui configura come illecito penale il reclutamento e il favoreggiamento della prostituzione “volontariamente e consapevolmente esercitata”. Con la sentenza n. 141 del 2019, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale della L. 20 febbraio 1958, n. 75, art. 3, comma 1, nn. 4) e 8), (c.d. Legge Merlin), nella parte in cui si attribuisce rilevanza penale alla condotta di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione “volontariamente e consapevolmente esercitata”, e ha delineato il perimetro della rilevanza penale delle condotte di reclutamento e favoreggiamento (che nella specie è divenuta priva di rilievo in quanto per l’unico capo di imputazione – capo N – è intervenuta sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato) con riferimento, in particolare, della incriminazione delle cosiddette “condotte parallele” che, senza rappresentare una soluzione costituzionalmente imposta rientra “nel ventaglio delle possibili opzioni di politica criminale, non contrastanti con la Costituzione”. Nel ricordare come la legge Merlin configuri la prostituzione come attività in sè lecita, la Corte Costituzionale, disatteso l’assunto del giudice remittente secondo cui la prostituzione volontaria rappresenterebbe una “modalità autoaffermativa della persona umana, che percepisce il proprio sè in termini di erogazione della propria corporeità e genitalità (e del piacere ad essa connesso) verso o contro la dazione di diversa utilità” (v. p. 5.2.), da cui l’esclusione dalla copertura della garanzia apprestata dall’art. 2 Cost. in quanto non è possibile ritenere che la prostituzione volontaria partecipi della natura di diritto inviolabile, e valutata la questione sollevata con riferimento alla violazione dell’art. 41 Cost., che garantisce la libera iniziativa economica, che non può svolgersi in modo da recare danno alla sicurezza, libertà e dignità umana, ha chiarito che, quanto alla “concorrente finalità di tutela della dignità umana, è incontestabile che, nella cornice della previsione dell’art. 41 Cost., comma 2, il concetto di “dignità” ò vada inteso in senso oggettivo: non si tratta, di certo, della “dignità soggettiva”, quale la concepisce il singolo imprenditore o il singolo lavoratore. E’, dunque, il legislatore che – facendosi interprete del comune sentimento sociale in un determinato momento storico – ravvisa nella prostituzione, anche volontaria, una attività che degrada e svilisce l’individuo, in quanto riduce la sfera più intima della corporeità a livello di merce a disposizione del cliente”. Ed è la dignità umana o della persona, ha proseguito la Corte costituzionale, a costituire il bene giuridico protetto dalle disposizioni penali della L. n. 75 del 1958 secondo l’indirizzo giurisprudenziale di legittimità espresso dalle più recenti pronunce. Si legge, infatti, al p. 7.2. del considerato in diritto, che, secondo i più recenti arresti, “il bene protetto dalla L. n. 75 del 1958 non sarebbe nè la morale pubblica, nè la libera autodeterminazione sessuale della persona che esercita il meretricio, la quale, se fosse conculcata contro la sua volontà, darebbe luogo a ben diversi reati. La tutela si focalizzerebbe, invece, soltanto sulla dignità della persona esplicata attraverso lo svolgimento dell’attività sessuale, che non potrebbe costituire materia di contrattazioni (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenze 17 novembre 2017-30 marzo 2018, n. 14593 e 19 luglio 20177 febbraio 2018, n. 5768)”. Da queste premesse ha proseguito rilevando che l’incriminazione delle “condotte parallele” alla prostituzione non rappresenta una soluzione costituzionalmente imposta. Ha poi chiarito che, se è consentita al legislatore la creazione di fattispecie di pericolo, anche presunto, cioè tali da punire qualunque condotta a sostegno dello svolgimento dell’attività di prostituzione, ai fini dell’incriminazione delle cosiddette “condotte parallele”, resta comunque ferma l’operatività del principio di offensività della singola condotta presa in considerazione, “nella sua proiezione concreta e, dunque, il potere-dovere del giudice comune di escludere la configurabilità del reato in presenza di condotte che, in rapporto alle specifiche circostanze, si rivelino concretamente prive di ogni potenzialità lesiva” (cfr. p. 7.3 del considerato in diritto). Da cui la conclusione che la valutazione che spetta al giudice può concludersi in un giudizio di esclusione della responsabilità. Dunque, spetta al giudice del merito, pur a fronte di una astratta offensività, nell’ottica della protezione dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili e delle stesse persone che esercitano la prostituzione per scelta, la valutazione della offensività in concreto della singola condotta presa in considerazione, valutazione che può concludersi con un giudizio di esclusione della responsabilità. 3.1.3. Così delineato il perimetro della valutazione dell’offensività concreta delle “condotte parallele” di reclutamento poste in essere dall’imputato, la decisione della Corte territoriale poggia su una duplice ratio decidendi che è solo in parte censurata dalla difesa dell’imputato. La Corte territoriale ha argomentato che la pur libera prostituzione lede la dignità della persona in quanto la mercificazione della corporeità impedisce alla sessualità di essere se stessa, di essere finalizzata a garantire il pieno sviluppo della persona, giacchè la dignità umana viene offesa allorquando la sessualità perde la propria connotazione spontanea che – secondo la Corte – rappresenta l’indefettibile premessa per un suo esercizio finalizzato alla sviluppo della persona in contrapposizione alla mercificazione sicchè il rapporto intimo viene ad essere snaturato in favore del terzo fruitore allorchè si accompagni al versamento di un corrispettivo; alla reciprocità dell’appagamento sessuale si sostituisce la corrispettività della prestazione contro denaro così degradando l’incontro di paritaria intimità in quello in cui l’una è solo lo strumento dell’altra con lesione della propria dignità (cfr. pag. 22). Lo sviluppo argomentativo della Corte territoriale si dipana nel solco tracciato dalla Corte costituzionale che aveva escluso la prospettata lesione dell’art. 2 Cost. e collocato l’attività di libera e consapevole prostituzione nell’ambito della tutela di iniziativa economica privata di cui all’art. 41 Cost., che non può essere esercitata in modo da arrecare danno alla dignità umana, sicchè la libera attività di prostituzione trova un limite nella dignità della persona. La Corte territoriale ha, tuttavia, argomentato la sussistenza dell’offensività in concreto attraverso un percorso argomentativo che, solo in parte, appare conforme al dictum del Giudice delle leggi. Secondo la Corte territoriale l’utilizzo di un linguaggio “non chiaro” (cfr. pag. 25), e la richiesta di anonimato delle persona ingaggiate, emergenti dai dialoghi tra l’imputato T. e i computati, e da quelli tra T. e le singole persone ingaggiate, sarebbero elementi dimostrativi del fatto che proprio le stesse persone, che liberamente si prostituivano e venivano reclutate dall’imputato per le serate, percepivano il pericolo della lesione della loro dignità come derivante dalla conoscenza della loro attività all’esterno della stretta cerchia in cui avveniva la prostituzione sì che chiedevano non solo l’anonimato ma anche rassicurazioni sulla riservatezza assoluta della serata. Seguendo l’argomentazione del giudice territoriale, dunque, nella tutela della dignità rientrerebbero anche i profili della riservatezza e della reputazione. Tale conclusione non è, tuttavia, a giudizio della Corte, condivisibile avendo riguardo in particolare alle linee dettate da giudice delle leggi. La lesione della dignità della persona che, secondo la Corte costituzionale, costituisce il parametro per la valutazione della rilevanza penale delle condotte parallele della libera e consapevole prostituzione, postula che tale valutazione avvenga attraverso una diversa valutazione prospettica, ovvero quella della condotta posta in essere dall’imputato, condotta che, per le modalità in cui si è estrinsecata, dovrebbe, di per se stessa, essere rivelatrice della lesione in concreto della dignità della persona. Dunque, non è tanto la percezione della persona offesa a potere rilevare nel giudizio di offensività, ciò che finirebbe per introdurre valutazioni soggettive in contrasto con l’indicazione proveniente dalla Corte costituzionale in ordine alla, evidentemente necessaria, natura oggettiva della lesione della dignità umana, quanto le modalità concrete della condotta reclutativa a dovere rilevare positivamente nel formulato giudizio di offensività concreta. Ed in tal senso la Corte territoriale ha, a pag. 26 della sentenza, correttamente ritenuto lesive della dignità umana le direttive comportamentali impartite, ad esempio, a T.S. (mettiti un vestitino nero, corto…mettilo scollato che… quello che fa vedere le curve) a V.I. (vestitino nero sobrio che però metta in mostra le tue forme; cfr. pag. 221 della sentenza del Tribunale) e le volgari espressioni usate nell’ingaggio di G.B. (amore vestiti proprio a mignotta… mettiti vestito nero corto altezza fica… si deve vedere il pelo appena, appena) contenute nei dialoghi intercettati. Ed ancora, a delineare la concretezza dell’offensività della condotta è il generale contesto nel quale la stessa si è sviluppata, per come emersa dagli innumerevoli dialoghi intercettati tra l’imputato e le ragazze reclutate, tra lo stesso e i compartecipi ( F., V. e B.) e tra l’imputato T. e B.S., contesto, cioè, in cui la scelta di prostituirsi appare essersi significativamente manifestata in un ambito nel quale la donna può essere “scambiata”, ovvero “data in prestito” da un fruitore della prestazione sessuale ad altro, come icasticamente rappresentato dall’espressione “la patonza deve girare” contenuta nella conversazione del 10/10/2008, ore 16.40 (cfr. pag. 238 della sentenza del Tribunale). Le modalità di reclutamento del T., per come accertate, sono state dunque correttamente ritenute lesive della dignità delle persone offese, proprio sulla scorta del dictum del Giudice delle leggi. Ed infatti, come già osservato, il giudizio di necessaria offensività in concreto sviluppato dalla Corte territoriale ha seguito il tracciato del giudice delle leggi, senza essere contaminato da valutazioni di ordine morale, esulanti dall’applicazione della legge penale, là dove la pronuncia del Giudice costituzionale, nel rigettare la questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice a quo (la Corte barese), chiedeva proprio a quel giudice l’indagine sulla valutazione dell’offensività nella sua dimensione concreta. Sul punto, va peraltro rilevato che detta ratio decidendi non è stata neppure oggetto di specifica critica censoria da parte della difesa dell’imputato che si è limitata a sindacare la prima parte della motivazione là dove la Corte territoriale ha dato appunto rilevanza alla percezione soggettiva della lesione della dignità, contestando la valenza della “ritrosia a parlare chiaro”, mentre è rimasta priva di critica la decisione nella parte in cui la stessa ha tratto, dalle modalità della condotta di reclutamento più sopra esemplificate, la concreta offensività della condotta dell’imputato. Nè a questa Corte compete, come sollecitato dalla difesa, un rinnovato giudizio di offensività in concreto delle condotte reclutative poste in essere dal T., anche sostituendosi alla valutazione operata dal giudice del merito, ma solo la valutazione che quel giudizio, formulato dal giudice del merito, sia congruo, aderente al dato probatorio e non manifestamente illogico, come in effetti è. Le valutazioni espresse dalla sentenza impugnata, in quanto coerenti, sul piano logico, con una esauriente analisi delle risultanze probatorie acquisite, si sottraggono, in altri termini, al sindacato di legittimità. Consegue, da tutto ciò, l’infondatezza, anche sotto tale profilo, del motivo di ricorso. 3.2. Il ricorrente ha dedotto, altresì, sotto un terzo profilo, il vizio di motivazione sulla ricorrenza dell’elemento soggettivo del reato di cui alla L. n. 75 del 1958, art. 3, comma 1, n. 4 là dove la sentenza, dopo aver rilevato la connotazione in termini di dolo specifico della norma incriminatrice, ha argomentato l’assoluta compatibilità concettuale della rappresentazione dell’evento prostitutivo come eventuale con la natura specifica del dolo del reato. Ha censurato, il ricorrente, l’affermazione della Corte territoriale secondo cui il perseguimento del fine specifico del delitto di reclutamento della prostituzione non può essere infirmato dalla natura incerta della prestazione sessuale. La censura non ha pregio in forza delle seguenti considerazioni. Come già chiarito sopra, è affermazione costante nella giurisprudenza di legittimità che il delitto di reclutamento di prostitute si esaurisce e si consuma nell’attività di ricerca di persone da ingaggiare e in quella di persuasione delle medesime a recarsi in un determinato luogo per l’esercizio della prostituzione, nulla rilevando, a tale fine, che a siffatta attività sia seguito l’effettivo esercizio della prostituzione (Sez. 6, n. 4137 del 07/12/2006, B, Rv. 235605 – 01; Sez. 3, n. 15217 del 20/10/2016, Rv. 269485 – 01; Sez. 3, n. 12999 del 12/11/2014, Rv. 262993 – 01). La fattispecie di reclutamento si perfeziona dunque con il raggiungimento dell’accordo in merito alla finalità prostitutiva con la persona disposta a recarsi in un luogo e ivi rimanervi per il tempo necessario, esaurendosi la condotta dell’agente nel rintracciare la donna e avviarla alla prostituzione per conto del cliente per il quale ha agito, non essendo necessaria alcuna altra attività, avendo già realizzato la condotta di reato, nè essendo necessaria l’avvenuta prostituzione e la prova dell’avvenuta retribuzione. Sicchè l’ingaggio prostitutivo si perfeziona con il consenso della persona designata ad offrire i propri favori sessuali ad una terza persona, non rilevando che l’attività prostitutiva e la sua retribuzione siano avvenute. Si tratta di una fattispecie di pericolo, che si perfezione con l’accordo in vista del quale il soggetto reclutato è disposto a recarsi in un luogo per offrire una prestazione sessuale. Ne consegue che il dolo specifico va evidentemente accertato al momento dell’accordo intervenuto, che deve avere di mira la prestazione sessuale che il soggetto reclutato intende offrire ad un terzo in esecuzione dell’accordo. E’ dunque fuori dall’ambito del dolo specifico l’atto prostitutivo che può anche non intervenire e che non incide sul reato già perfezionatosi. In questo senso deve essere pertanto letta la motivazione della Corte territoriale nella parte in cui ha affermato la compatibilità della rappresentazione dell’evento prostitutivo con la natura specifica del dolo del reato, sicchè il perseguimento del fine specifico al momento del perfezionamento dell’accordo reclutativo, non viene poi contraddetto dall’incertezza della prestazione sessuale, che non è richiesta per la consumazione del reato e qualora realizzata, al pari della retribuzione, costituisce, al più, la dimostrazione ex post della finalità della condotta. 4. Anche il secondo motivo di ricorso non mostra ragioni di fondatezza. Argomenta il ricorrente l’errata interpretazione della legge penale, segnatamente della L. n. 75 del 1958, art. 4, comma 1 n. 7 là dove la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che l’espressione “ai danni di” fosse da intendersi “nei confronti di”, così non potendo venire in rilievo l’assenza di “danno” cagionato alle persone offese, liberamente prostituitesi, e, a fronte della conseguente non configurabilità della circostanza aggravante in oggetto, dovendo considerarsi la maturata prescrizione di alcune delle condotte contestate. Secondo il ricorrente, l’equivalenza semantica della espressione “ai danni di” rispetto a quella “nei confronti di” si risolverebbe in una inammissibile applicazione analogica in malam partem. L’indicazione lessicale indicherebbe, invece, una precisa opzione normativa, rappresentativa di una necessaria componente di danno, che non potrebbe essere sovvertita dall’interprete. La prospettazione, pur suggestiva, non può essere condivisa. Questa Terza Sezione, anche con una recente e condivisibile pronuncia, ha già affermato il principio secondo cui la locuzione “ai danni”, contenuta nella L. n. 75 del 1958, art. 4, nn. 2, 5, 7 e 7-bis ai fini della configurabilità delle circostanze aggravanti, non indica un danno concreto, patrimoniale o anche morale, ma esprime l’offesa (oggetto generico), che assume carattere di maggiore gravità quando il fatto è commesso in danno delle persone indicate nella citata disposizione, equivalendo detta espressione a “in confronto di” (Sez. 3, n. 2918 del 25/11/2020, dep. 2021, H., Rv. 280827 – 01; in precedenza, anche Sez. 3, n. 125 del 25/01/1967, Polettini, Rv. 103839-01). In altri termini, muovendo dalla constatazione che, secondo la giurisprudenza di legittimità (Sez. 3, n. 5768 del 19/07/2017, dep. 2018, C., Rv. 272694), l’interesse tutelato dalla norma penale non è costituito dalla pubblica morale nè dalla libertà morale di chi esercitata il meretricio, ma dalla dignità della persona nello svolgimento dell’attività sessuale e per la cui salvaguardia non possono valere forme di contrattazione, di mercimonio e atti dispositivi, i quali abbiano una rilevanza patrimoniale, la giurisprudenza qui riaffermata giunge a ritenere, così restando isolato un apparentemente difforme remoto orientamento (Sez.3, n. 803 del 13/05/1968, Nummari, Rv. 108633-01), che l’espressione “ai danni di” altro non significhi che “nei confronti di” o “nei riguardi di”. Tale conclusione appare del tutto condivisibile anche con riguardo alla condotta di reclutamento che, diversamente dal caso scrutinato in cui veniva in rilievo la condotta di sfruttamento e favoreggiamento, viene qui in rilievo. Ciò in quanto le condotte previste dall’art. 3 cit. devono essere interpretate secondo la ratio della normativa penale di tutela della libertà sessuale, con gli – individuati limiti della pronuncia della Corte costituzionale n. 141 del 2019, secondo cui l’attività sessuale, pur liberamente svolta, non costituisce forma di estrinsecazione della libertà di autodeterminazione sessuale, quale diritto inviolabile di cui all’art. 2 Cost., ma costituisce una particolare forma dell’attività economica privata che incontra i limiti di cui all’art. 41 Cost., tra cui il divieto che questa possa recare danno alla dignità. Ed allora proprio l’individuato limite, ovvero la dignità della persona la cui lesione o messa in pericolo deve essere indagata in concreto, stante la indicata necessità di verifica dell’offensività della condotta al fine di individuare sulla base di circostanze specifiche le condotte che si rilevino prive di ogni potenzialità lesiva, secondo il dictum della Corte costituzionale, rivela l’infondatezza della tesi difensiva secondo cui la libera e consapevole prostituzione, proprio per tale connotazione, non arrecherebbe alcun danno, e ciò in quanto lo stesso deve essere individuato in quello cagionato dal reato e, in tale prospettiva, non vi è alcuna incompatibilità logica nell’affermata equazione dell’espressione “ai danni di” rispetto a quella “nei confronti di”, essendo evidente il maggior danno cagionato dal reato allorchè vi sia una pluralità di soggetti passivi, e cioè, appunto, quando il reato sia commesso nei confronti di più persone. Allo stesso modo, e per le stesse ragioni, nessuna incompatibilità logica o contraddizione risulta esservi con la circostanza che il Tribunale abbia ritenuto insussistente un danno patrimoniale cagionato alle parti civili respingendo la domanda di risarcimento avanzata. Nè il richiamo ad altre fattispecie penali, nelle quali si rinverrebbe l’uso dei distinti lemmi “ai danni di” e “nei confronti di”, il che dimostrerebbe che il legislatore non avrebbe delineato una equivalenza concettuale degli stessi, è dirimente poichè non tiene conto della mutata tecnica espressiva del legislatore negli anni più recenti rispetto al legislatore degli anni ‘50. La prospettata questione di legittimità costituzionale appare pertanto manifestamente infondata. 4.1. Venendo al caso in esame, la decisione della Corte territoriale è, dunque, conforme ai principi qui richiamati ed è correttamente motivata là dove, a pag. 20, la sentenza impugnata ha ritenuto la sussistenza della circostanza aggravante di cui alla L. n. 75 del 1958, art. 4 comma 1, n. 7 in presenza di condotte di reclutamento nei confronti di più persone, così aderendo all’indirizzo interpretativo sopra richiamato. 5. Sulla base di tali ragioni il ricorso dell’imputato è infondato e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali. 6. Consegue, in definitiva, a tutto quanto esposto che, mentre va dichiarato inammissibile il ricorso della parte civile, vanno rigettati i ricorsi del Procuratore Generale e dell’imputato, con le conseguenti ulteriori statuizioni. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso della parte civile che condanna al pagamento delle spese processuali e al versamento di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. Rigetta il ricorso del Procuratore generale. Rigetta il ricorso di T.G. che condanna al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge. Conclusione Così deciso in Roma, il 18 ottobre 2021.

Originally posted 2022-07-13 08:22:49.