LIMITE MINIMO 8 ANNI ANTICOSTITUZIONALE

SPACCIO STUPEFACENTI CORTE COSTITUZIONALE ART 73 LIMITE MINIMO 8 ANNI ANTICOSTITUZIONALE

Con ordinanza del 17 marzo 2017 (reg. ord. n. 113 del 2017), la Corte d’appello di Trieste ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), per contrasto con gli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, nella parte in cui, per effetto della sentenza n. 32 del 2014 della Corte Costituzionale, prevede la pena minima edittale di otto anni anziché di quella di sei anni introdotta con l’art. 4-bis del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2006, n. 49.

L’ordinanza, quindi, riferisce che il difensore dell’imputato, proprio sul presupposto che detto trattamento edittale è «rivissuto per effetto dell’intervento della Corte costituzionale in un contesto normativo affatto diverso», ha eccepito, sulla scorta di analoghi argomenti già posti a sostegno della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Rovereto il 3 marzo 2016 (reg. ord. n. 100 del 2016), l’illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, chiedendo la sospensione del giudizio in attesa della decisione della Corte costituzionale.
2.– Su tali basi, la Corte d’appello triestina ha ritenuto che sussistano i presupposti per sollevare le questioni di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 25, 3 e 27 Cost., dell’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, nella parte in cui detta disposizione prevede – a seguito della sentenza n. 32 del 2014 – la pena minima edittale di otto anni di reclusione.
3.– In punto di rilevanza, la Corte rimettente afferma di condividere la qualificazione giuridica del fatto-reato data dal giudice di primo grado corrispondente al delitto di cui all’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, ostando alla sua sussumibilità nell’ambito della cosiddetta «lieve entità» una serie di elementi, quali la quantità di sostanza stupefacente (quasi cento grammi netti di cocaina), rivelatasi, all’analisi tossicologica, dotata di elevata percentuale di purezza (57%) e idonea al confezionamento di ben 375 dosi; le circostanze del traffico, involgente fornitori d’oltre oceano, con modalità di trasferimento pianificate per impedire il rinvenimento dello stupefacente; la condotta dell’imputato, che, dopo essersi procurato, appena un mese prima, oltre cento grammi di cocaina (benché di peggiore qualità), accettava di ricevere una nuova consistente fornitura; il rinvenimento nella sua abitazione di 3.700 euro in contanti, verosimilmente non riconducibili a guadagni e risparmi.
4.– In punto di non manifesta infondatezza, la Corte rimettente ha rilevato il contrasto della norma censurata in relazione a distinti parametri costituzionali.
4.1.– In primo luogo, l’ordinanza denuncia una violazione del principio della riserva di legge in materia penale, di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. A tal fine, richiamandosi all’ordinanza della Corte di cassazione, sezione sesta penale, del 12 gennaio 2017, con cui la Suprema Corte aveva a sua volta sollevato un’analoga questione di legittimità costituzionale (decisa da questa Corte con ordinanza n. 184 del 2017 nel senso della manifesta inammissibilità), la Corte d’appello rimettente rileva che, proprio in virtù del citato principio della riserva di legge, gli interventi in materia penale volti ad ampliare le fattispecie di reato o a inasprire le sanzioni appartengono al monopolio esclusivo del legislatore, di modo che in tali casi non vi sarebbe spazio di azione per sentenze manipolative in malam partem della Corte costituzionale. Di qui la questione di legittimità costituzionale sul vigente art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, volta a ripristinare il più mite trattamento sanzionatorio, già introdotto nel 2006, da sei a venti anni di reclusione.
4.2.– In secondo luogo, la Corte rimettente evidenzia il difetto di ragionevolezza della dosimetria della pena prevista dal vigente art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, che emergerebbe nel raffronto con il trattamento sanzionatorio previsto per il fatto di lieve entità (da sei mesi a quattro anni di reclusione) dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 e con quello previsto per le cosiddette «droghe leggere» (da due a sei anni di reclusione) dall’art. 73, comma 4, del d.P.R. n. 309 del 1990. Il giudice rimettente evidenzia che, nonostante la linea di demarcazione «naturalistica» tra le fattispecie «ordinaria» e «lieve» sia talvolta non netta, il «confine sanzionatorio» dell’una e dell’altra incriminazione è invece troppo e, quindi, irragionevolmente, distante (intercorrendo ben quattro anni di pena detentiva fra il minimo dell’una e il massimo dell’altra). Pertanto, il trattamento sanzionatorio sensibilmente diverso tra le fattispecie che si pongono sul confine tra l’ipotesi lieve e l’ipotesi ordinaria determina un rapporto non ragionevole con il disvalore della condotta.
Su tali basi è opinione del giudice rimettente che il riscontrato iato sanzionatorio fra le raffrontate fattispecie, «ordinaria» e «lieve», sia del tutto irragionevole e in quanto tale oggettivamente contrastante con l’art. 3 Cost., anche tenuto conto della sussistenza nell’ordinamento di ulteriori norme, quale può essere la disposizione punitiva del fatto di lieve entità (art. 73, comma 5) o quella riguardante le droghe “leggere” (art. 73, comma 4), che possono offrire la grandezza predefinita che consente alla Corte costituzionale di rimediare all’irragionevole commisurazione della pena

In definitiva, fermo restando che non spetta alla Corte determinare autonomamente la misura della pena (sentenza n. 148 del 2016), l’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale che riguardano l’entità della punizione risulta condizionata non tanto dalla presenza di un’unica soluzione costituzionalmente obbligata, quanto dalla presenza nel sistema di previsioni sanzionatorie che, trasposte all’interno della norma censurata, garantiscano coerenza alla logica perseguita dal legislatore (sentenza n. 233 del 2018). Nel rispetto delle scelte di politica sanzionatoria delineate dal legislatore e ad esso riservate, occorre, infatti, evitare che l’ordinamento presenti zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale proprio in ambiti in cui è maggiormente impellente l’esigenza di assicurare una tutela effettiva dei diritti fondamentali, tra cui massimamente la libertà personale, incisi dalle scelte sanzionatorie del legislatore.
Alla luce di tali principi, le questioni prospettate dalla Corte d’appello di Trieste superano il vaglio di ammissibilità, avendo individuato nell’ordinamento quale soluzione costituzionalmente adeguata, benché non obbligata, l’abbassamento del minimo edittale per il fatto previsto dal comma 1 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 da otto a sei anni, misura a suo tempo prevista dall’art. 4-bis del d.l. n. 272 del 2005 e tuttora in vigore, come pena massima, ai sensi del comma 4 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 per la fattispecie ordinaria delle droghe “leggere” di cui alle tabelle II e IV previste dall’art. 14 del d.P.R. n. 309 del 1990, come sostituito dall’art. 1, comma 3, del citato d.l. n. 36 del 2014, come convertito.
4.3.– D’altra parte, l’intervento di questa Corte non è ulteriormente differibile, posto che è rimasto inascoltato il pressante invito rivolto al legislatore affinché procedesse «rapidamente a soddisfare il principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio, risanando la frattura che separa le pene previste per i fatti lievi e per i fatti non lievi dai commi 5 e 1 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990», anche in considerazione «dell’elevato numero dei giudizi, pendenti e definiti, aventi ad oggetto reati in materia di stupefacenti» (sentenza n. 179 del 2017).
Da ultimo, ma non per importanza, deve aggiungersi che la questione in esame attiene a diritti fondamentali, che non tollerano ulteriori compromissioni, ragion per cui reiterate sono state le richieste di intervento rivolte a questa Corte dai giudici di merito e di legittimità.
5.– Nel merito le questioni sono fondate.

Questa Corte ha già avuto modo di evidenziare che la divaricazione di ben quattro anni venutasi a creare tra il minimo edittale di pena previsto dal comma 1 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e il massimo edittale della pena comminata dal comma 5 dello stesso articolo «ha raggiunto un’ampiezza tale da determinare un’anomalia sanzionatoria» (sentenza n. 179 del 2017) all’esito di una articolata evoluzione legislativa e giurisprudenziale che occorre richiamare per sommi capi.
5.1.– L’originario art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 differenziava il trattamento sanzionatorio dei reati aventi ad oggetto le droghe “pesanti” (puniti al comma 1 con la reclusione da otto a venti anni e con la multa) rispetto a quello dei reati aventi ad oggetto le droghe “leggere” (puniti al comma 4 con la reclusione da due a sei anni e con la multa). La stessa distinzione tra droghe “pesanti” e “leggere” era riproposta anche per i fatti di lieve entità, in relazione ai quali il comma 5 del medesimo art. 73 stabiliva un’attenuante ad effetto speciale cosiddetta autonoma o indipendente, che puniva con la reclusione da uno a sei anni i fatti concernenti le droghe “pesanti” e da sei mesi a quattro anni quelli relativi alle droghe “leggere”, oltre alle rispettive sanzioni pecuniarie.
Il d.l. n. 272 del 2005, con l’art. 4-bis (poi dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza n. 32 del 2014), aveva soppresso la distinzione fondata sul tipo di sostanza stupefacente, comminando la pena della reclusione da sei a venti anni e la multa per i fatti non lievi, nonché la pena della reclusione da uno a sei anni e la multa per i casi in cui fosse applicabile l’attenuante del fatto di lieve entità.
Con l’art. 2, comma 1, lettera a), del successivo decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2014, n. 10, è stato sostituito il comma 5 dell’art. 73, trasformando la circostanza attenuante del fatto di lieve entità in fattispecie autonoma di reato e riducendo il limite edittale massimo della pena detentiva da sei a cinque anni di reclusione. Tale modifica non è stata intaccata dalla sentenza n. 32 del 2014, a seguito della quale hanno ripreso vigore le disposizioni dell’art. 73 nella originaria formulazione.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Giorgio LATTANZI;
Giudici: Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), promosso dalla Corte d’appello di Trieste, nel procedimento penale a carico di J.F. C.M. con ordinanza del 17 marzo 2017, iscritta al n. 113 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 23 gennaio 2019 il Giudice relatore Marta Cartabia.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 17 marzo 2017 (reg. ord. n. 113 del 2017), la Corte d’appello di Trieste ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), per contrasto con gli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, nella parte in cui, per effetto della sentenza n. 32 del 2014 della Corte Costituzionale, prevede la pena minima edittale di otto anni anziché di quella di sei anni introdotta con l’art. 4-bis del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2006, n. 49.
Le questioni sono state sollevate nell’ambito di un giudizio avente ad oggetto una fattispecie di detenzione di circa cento grammi di cocaina, occultati all’interno di tre condensatori per computer, contenuti all’interno di un pacco proveniente dall’Argentina. Il giudice di prime cure ha ritenuto che la sostanza stupefacente fosse destinata in via prevalente alla cessione a terzi, così escludendo, tenuto conto della quantità di tale sostanza sequestrata e di altri elementi di contesto, la possibilità di inquadrare il fatto nell’ipotesi di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990. In esito a giudizio abbreviato, l’imputato è stato condannato alla pena di anni quattro di reclusione e 14.000 euro di multa, previo riconoscimento delle attenuanti generiche e l’applicazione della diminuente per il rito.
1.1.– L’ordinanza precisa che il difensore dell’imputato, pur non contestando la responsabilità penale per il fatto ascritto, ne ha chiesto la riqualificazione, ai sensi del citato art. 73, comma 5. In via subordinata, permanendo la qualificazione giuridica del fatto di cui all’imputazione, ha posto in dubbio la legittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990. La difesa privata si duole del fatto che tale disposizione prevede oggi, all’esito di una tortuosa evoluzione normativa, un trattamento sanzionatorio con limite edittale minimo di otto anni di reclusione, pari al doppio del massimo previsto per il reato minore. Infatti, a seguito della sentenza n. 32 del 2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. n. 272 del 2005, come convertito, ha ripreso applicazione l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 nel testo anteriore alle modifiche apportate con le disposizioni dichiarate incostituzionali, così dando luogo a una grave incoerenza sistematica con i commi 5 e 5-bis.
1.2.– L’ordinanza, quindi, riferisce che il difensore dell’imputato, proprio sul presupposto che detto trattamento edittale è «rivissuto per effetto dell’intervento della Corte costituzionale in un contesto normativo affatto diverso», ha eccepito, sulla scorta di analoghi argomenti già posti a sostegno della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Rovereto il 3 marzo 2016 (reg. ord. n. 100 del 2016), l’illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, chiedendo la sospensione del giudizio in attesa della decisione della Corte costituzionale.
2.– Su tali basi, la Corte d’appello triestina ha ritenuto che sussistano i presupposti per sollevare le questioni di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 25, 3 e 27 Cost., dell’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, nella parte in cui detta disposizione prevede – a seguito della sentenza n. 32 del 2014 – la pena minima edittale di otto anni di reclusione.
3.– In punto di rilevanza, la Corte rimettente afferma di condividere la qualificazione giuridica del fatto-reato data dal giudice di primo grado corrispondente al delitto di cui all’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, ostando alla sua sussumibilità nell’ambito della cosiddetta «lieve entità» una serie di elementi, quali la quantità di sostanza stupefacente (quasi cento grammi netti di cocaina), rivelatasi, all’analisi tossicologica, dotata di elevata percentuale di purezza (57%) e idonea al confezionamento di ben 375 dosi; le circostanze del traffico, involgente fornitori d’oltre oceano, con modalità di trasferimento pianificate per impedire il rinvenimento dello stupefacente; la condotta dell’imputato, che, dopo essersi procurato, appena un mese prima, oltre cento grammi di cocaina (benché di peggiore qualità), accettava di ricevere una nuova consistente fornitura; il rinvenimento nella sua abitazione di 3.700 euro in contanti, verosimilmente non riconducibili a guadagni e risparmi.
4.– In punto di non manifesta infondatezza, la Corte rimettente ha rilevato il contrasto della norma censurata in relazione a distinti parametri costituzionali.
4.1.– In primo luogo, l’ordinanza denuncia una violazione del principio della riserva di legge in materia penale, di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. A tal fine, richiamandosi all’ordinanza della Corte di cassazione, sezione sesta penale, del 12 gennaio 2017, con cui la Suprema Corte aveva a sua volta sollevato un’analoga questione di legittimità costituzionale (decisa da questa Corte con ordinanza n. 184 del 2017 nel senso della manifesta inammissibilità), la Corte d’appello rimettente rileva che, proprio in virtù del citato principio della riserva di legge, gli interventi in materia penale volti ad ampliare le fattispecie di reato o a inasprire le sanzioni appartengono al monopolio esclusivo del legislatore, di modo che in tali casi non vi sarebbe spazio di azione per sentenze manipolative in malam partem della Corte costituzionale. Di qui la questione di legittimità costituzionale sul vigente art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, volta a ripristinare il più mite trattamento sanzionatorio, già introdotto nel 2006, da sei a venti anni di reclusione.
4.2.– In secondo luogo, la Corte rimettente evidenzia il difetto di ragionevolezza della dosimetria della pena prevista dal vigente art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, che emergerebbe nel raffronto con il trattamento sanzionatorio previsto per il fatto di lieve entità (da sei mesi a quattro anni di reclusione) dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 e con quello previsto per le cosiddette «droghe leggere» (da due a sei anni di reclusione) dall’art. 73, comma 4, del d.P.R. n. 309 del 1990. Il giudice rimettente evidenzia che, nonostante la linea di demarcazione «naturalistica» tra le fattispecie «ordinaria» e «lieve» sia talvolta non netta, il «confine sanzionatorio» dell’una e dell’altra incriminazione è invece troppo e, quindi, irragionevolmente, distante (intercorrendo ben quattro anni di pena detentiva fra il minimo dell’una e il massimo dell’altra). Pertanto, il trattamento sanzionatorio sensibilmente diverso tra le fattispecie che si pongono sul confine tra l’ipotesi lieve e l’ipotesi ordinaria determina un rapporto non ragionevole con il disvalore della condotta.
Su tali basi è opinione del giudice rimettente che il riscontrato iato sanzionatorio fra le raffrontate fattispecie, «ordinaria» e «lieve», sia del tutto irragionevole e in quanto tale oggettivamente contrastante con l’art. 3 Cost., anche tenuto conto della sussistenza nell’ordinamento di ulteriori norme, quale può essere la disposizione punitiva del fatto di lieve entità (art. 73, comma 5) o quella riguardante le droghe “leggere” (art. 73, comma 4), che possono offrire la grandezza predefinita che consente alla Corte costituzionale di rimediare all’irragionevole commisurazione della pena.
4.3.– Connesso a quanto appena esposto è l’ultimo motivo denunciato dalla Corte rimettente, ossia il contrasto del trattamento sanzionatorio attualmente previsto dall’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990 «con il principio di proporzionalità e il principio di colpevolezza e di necessaria finalizzazione rieducativa della pena, riconducibile al disposto degli artt. 3 e 27 Cost.».
A tal fine, l’ordinanza richiama la sentenza di questa Corte n. 236 del 2016, secondo cui «l’art. 3 Cost. esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali». L’ordinanza richiama anche le pronunce di questa Corte n. 251 del 2012 e n. 341 del 1994, onde sostenere che la pena per definirsi giusta e, così, svolgere la funzione rieducativa verso cui deve tendere in applicazione dell’art. 27 Cost., va adeguata all’effettiva responsabilità penale, in modo da assicurare la piena proporzionalità fra offesa, da una parte, e qualità e quantità della sanzione, dall’altra. Sicché una pena ingiustificatamente aspra tradirebbe, al contempo, il principio di proporzionalità della pena, sancito dall’art. 3 Cost., e quello della finalità rieducativa della stessa, posto dal richiamato art. 27 Cost.
4.4.– Alla luce di quanto sin qui esposto, l’ordinanza di rimessione ribadisce che nell’ordinamento sono rinvenibili misure della pena che consentono alla Corte di emendare i vizi della disposizione censurata senza sovrapporsi al ruolo del Parlamento e chiede di rispristinare il trattamento sanzionatorio già introdotto nel 2006 in modo da ridurre il minimo edittale da otto a sei anni di reclusione.
5.– Con atto depositato il 26 settembre 2017, è intervenuto nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili, alla luce dei principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 179 del 2017, secondo cui alla denunciata incongruenza normativa può porsi rimedio attraverso una pluralità di soluzioni tutte costituzionalmente legittime.
A differenza di quanto opinato dal giudice a quo, l’interveniente ritiene che non possa ritenersi che l’unica soluzione all’uopo idonea sia quella di rispristinare il trattamento sanzionatorio già introdotto nel 2006, così riducendo il minimo edittale da otto a sei anni di reclusione.
Pertanto, ravvisata la necessità di rispettare il primato delle valutazioni del legislatore sulla congruità dei mezzi per raggiungere un fine costituzionalmente necessario, il Presidente del Consiglio dei ministri conclude chiedendo l’inammissibilità delle sollevate questioni di legittimità costituzionale.
Considerato in diritto
1.– Con ordinanza iscritta al n. 113 del registro ordinanze 2017, la Corte d’appello di Trieste ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), per contrasto con gli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, nella parte in cui, per effetto della sentenza n. 32 del 2014 di questa Corte, prevede la pena minima edittale di otto anni anziché di quella di sei anni introdotta con l’art. 4-bis del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2006, n. 49.
La disposizione censurata punisce con la pena edittale minima di otto anni di reclusione i casi “non lievi” di coltivazione, produzione, fabbricazione, estrazione, raffinazione, vendita, offerta o messa in vendita, cessione o ricezione, a qualsiasi titolo, distribuzione, commercio, acquisto, trasporto, esportazione, importazione, procacciamento ad altri, invio, passaggio o spedizione in transito, consegna per qualunque scopo o comunque di illecita detenzione, senza l’autorizzazione di cui all’art. 17 e fuori dalle ipotesi previste dall’art. 75 (si tratta dei casi di destinazione all’uso personale), di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle I e III previste dall’art. 14 (cosiddette droghe “pesanti”) dello stesso d.P.R. n. 309 del 1990 (d’ora in avanti anche: Testo unico sugli stupefacenti).
1.1.– La Corte d’appello di Trieste ritiene che la previsione della pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni in luogo di quella di sei anni introdotta con l’art. 4-bis del d.l. n. 272 del 2005, come modificato, violi anzitutto l’art. 25 Cost., poiché il vigente trattamento sanzionatorio sarebbe stato introdotto nell’ordinamento come conseguenza della sentenza n. 32 del 2014 di questa Corte, in violazione del principio della riserva di legge in materia penale, in base al quale gli interventi volti a inasprire le sanzioni appartengono al monopolio esclusivo del legislatore, senza che in tale ambito vi sia margine di azione per le sentenze manipolative di questa Corte.
In secondo luogo, l’ordinanza denuncia una violazione dell’art. 3 Cost. in quanto la disposizione censurata delineerebbe un trattamento sanzionatorio irragionevole tenuto conto che, nonostante la linea di demarcazione «naturalistica» fra la fattispecie «ordinaria», di cui alla disposizione denunciata, e quella di «lieve entità», di cui all’art. 73, comma 5, del medesimo d.P.R. n. 309 del 1990, non sia sempre netta, il «confine sanzionatorio» dell’una e dell’altra incriminazione è invece eccessivamente e, quindi, irragionevolmente, distante (intercorrendo ben quattro anni di pena detentiva fra il minimo dell’una e il massimo dell’altra).
Infine, il giudice a quo sostiene che la predicata irragionevolezza contrasterebbe con gli artt. 3 e 27 Cost., poiché la previsione di una pena ingiustificatamente aspra e sproporzionata rispetto alla gravità del fatto ne pregiudicherebbe la funzione rieducativa.
2.– La questione sollevata in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost. non è ammissibile.
L’ordinanza lamenta l’illegittimità dell’inasprimento della pena determinatosi in conseguenza della sentenza di questa Corte n. 32 del 2014, in riferimento alle fattispecie ordinarie (non lievi) di traffico di stupefacenti, disciplinate dall’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990. Secondo il giudice rimettente, questa Corte, intervenendo in materia penale in malam partem, avrebbe violato la riserva di legge stabilita all’art. 25 Cost.
La questione così prospettata si risolve in una censura degli effetti della sentenza di questa Corte n. 32 del 2014, di cui costituisce un improprio tentativo di impugnazione. In quanto tale, la questione è inammissibile dato che «[c]ontro le decisioni della Corte costituzionale non è ammessa alcuna impugnazione» (art. 137, terzo comma, Cost.; ex multis, sentenza n. 29 del 1998, ordinanze n. 184 del 2017, n. 261 del 2016, n. 108 del 2001, n. 461 del 1999, n. 220 del 1998, n. 7 del 1991, n. 203, n. 93 e n. 27 del 1990, n. 77 del 1981).
Per altro verso, occorre evidenziare che non trova riscontro nella giurisprudenza costituzionale l’assunto da cui muove il giudice rimettente per cui la riserva di legge di cui all’art. 25 Cost. precluderebbe in radice a questa Corte la possibilità di intervenire in materia penale con effetti meno favorevoli. Invero, la giurisprudenza di questa Corte, ribadita anche recentemente (sentenze n. 236 del 2018 e n. 143 del 2018), ammette in particolari situazioni interventi con possibili effetti in malam partem in materia penale (sentenze n. 32 e n. 5 del 2014, n. 28 del 2010, n. 394 del 2006), restando semmai da verificare l’ampiezza e i limiti dell’ammissibilità di tali interventi nei singoli casi. Certamente il principio della riserva di legge di cui all’art. 25 Cost. rimette al legislatore «la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni da applicare» (sentenza n. 5 del 2014), ma non esclude che questa Corte possa assumere decisioni il cui effetto in malam partem non discende dall’introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti, ma dalla semplice rimozione di disposizioni costituzionalmente illegittime. In tal caso, l’effetto in malam partem è ammissibile in quanto esso è una mera conseguenza indiretta della reductio ad legitimitatem di una norma costituzionalmente illegittima, la cui caducazione determina l’automatica riespansione di altra norma dettata dallo stesso legislatore (sentenza n. 236 del 2018).
Analogamente, questa Corte, con la sentenza n. 32 del 2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. n. 272 del 2005, come convertito, per vizi procedimentali relativi all’art. 77, secondo comma, Cost. In esito alla dichiarazione di illegittimità costituzionale del suddetto decreto-legge, ha ripreso applicazione l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, con effetti in parte più miti e in parte più severi. QQuesta Corte perciò si è limitata a rimuovere dall’ordinamento le disposizioni costituzionalmente illegittime sottoposte al suo esame, nello svolgimento del compito assegnatole dall’art. 134 Cost., mentre la conseguente configurazione del trattamento sanzionatorio dei reati in materia di stupefacenti è frutto di precedenti scelte del legislatore che sono tornate ad avere applicazione dopo la declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla sentenza n. 32 del 2014 e che sono poi state modificate con il decreto-legge 20 marzo 2014, n. 36 (Disposizioni urgenti in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, nonché di impiego dei medicinali), convertito, con modificazioni, nella legge 16 maggio 2014, n. 79, che ha ridotto il massimo edittale della pena prevista per i fatti lievi e ha apportato ulteriori molteplici adattamenti alla normativa, conseguenti alla citata sentenza n. 32 del 2014.
3.– Le ulteriori censure, concernenti l’irragionevolezza e la sproporzione del trattamento sanzionatorio, sollevate con riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., meritano un esame congiunto perché fra loro strettamente interconnesse.
4.– L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce l’inammissibilità di tali questioni, in considerazione del fatto che alla denunciata incongruenza normativa può porsi rimedio attraverso una pluralità di soluzioni tutte costituzionalmente legittime, sicché spetterebbe soltanto al legislatore, e non a questa Corte, emendare i vizi della disposizione censurata.
4.1. – Vero è che questa Corte finora si è sempre pronunciata nel senso della inammissibilità delle questioni che sono state ripetutamente sollevate in riferimento all’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990 (sentenze n. 179 del 2017, n. 148 e n. 23 del 2016; ordinanza n. 184 del 2017). Tuttavia le ragioni che hanno finora ostacolato l’esame nel merito non si ravvisano nel caso oggi in esame.
Nelle sentenze n. 148 e n. 23 del 2016 le questioni sono state dichiarate inammissibili per una pluralità di vizi delle ordinanze di rimessione, tra i quali l’indeterminatezza del petitum e la mancata individuazione di un trattamento sanzionatorio alternativo a quello in vigore, che consentisse a questa Corte di sanare i vizi di costituzionalità lamentati. Anche nell’ordinanza n. 184 del 2017 la Corte ha ravvisato negli atti introduttivi molteplici ragioni di inammissibilità connesse a vizi di rilevanza, a incompletezza della ricostruzione del quadro normativo, ad aspetti di contraddittorietà della motivazione, al tentativo di impugnare una pronuncia di questa Corte in violazione dell’art. 137, terzo comma, Cost. e alla conseguente pretesa di far rivivere la disciplina sanzionatoria contenuta in una disposizione dichiarata costituzionalmente illegittima, per vizi del procedimento legislativo ex art. 77 Cost.
Diverse e, per alcuni aspetti più affini a quelle eccepite dall’Avvocatura nel presente giudizio, le ragioni sottese all’inammissibilità pronunciata nella sentenza n. 179 del 2017. In tale decisione questa Corte ha ritenuto di non poter esaminare nel merito le questioni di legittimità costituzionale sottoposte al suo esame, perché i giudici rimettenti non avevano individuato “soluzioni costituzionalmente obbligate” idonee a rimediare al vulnus costituzionale denunciato. In quel caso, si chiedeva alla Corte costituzionale di colmare il divario sanzionatorio tra le due fattispecie di cui ai commi 1 e 5 dell’art. 73, parificando il minimo edittale previsto per il fatto non lieve al massimo edittale previsto per il fatto lieve. Questa Corte ha escluso che debba «ritenersi imposto, dal punto di vista costituzionale, che a continuità dell’offesa debba necessariamente corrispondere una continuità di risposta sanzionatoria» (sentenza n. 179 del 2017), ben potendo sussistere «spazi di discrezionalità discontinua» nel trattamento sanzionatorio. Sicché la richiesta di reductio ad legitimitatem del censurato comma 1 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 attraverso la parificazione del minimo edittale per il fatto non lieve da esso previsto al massimo edittale (quattro anni di reclusione ed euro 10329,00 di multa) comminato per il fatto lieve di cui al successivo comma 5, non poteva ritenersi costituzionalmente obbligata.
4.2.– Anche l’eccezione di inammissibilità sollevata in questo giudizio si basa su ragioni connesse all’assenza di soluzioni costituzionalmente obbligate, ma si rivela infondata alla luce degli approdi cui è giunta la più recente giurisprudenza costituzionale relativa all’ampiezza e ai limiti dell’intervento di questa Corte sulla misura delle sanzioni penali stabilite dal legislatore, sviluppatasi segnatamente a partire dalla sentenza n. 236 del 2016.
In particolare, con la recente sentenza n. 233 del 2018, questa Corte, dopo aver ribadito che le valutazioni discrezionali di dosimetria della pena spettano anzitutto al legislatore, ha precisato che non sussistono ostacoli al suo intervento quando le scelte sanzionatorie adottate dal legislatore si siano rivelate manifestamente arbitrarie o irragionevoli e il sistema legislativo consenta l’individuazione di soluzioni, anche alternative tra loro, che siano tali da «ricondurre a coerenza le scelte già delineate a tutela di un determinato bene giuridico, procedendo puntualmente, ove possibile, all’eliminazione di ingiustificabili incongruenze» (in tal senso richiamando la sentenza n. 236 del 2016).
Similmente, la sentenza n. 222 del 2018 di poco precedente aveva già ritenuto che al fine di consentire l’intervento correttivo di questa Corte non è necessario che esista, nel sistema, un’unica soluzione costituzionalmente vincolata in grado di sostituirsi a quella dichiarata illegittima, come quella prevista per una norma avente identica struttura e ratio, idonea a essere assunta come tertium comparationis, essendo sufficiente che il «sistema nel suo complesso offra alla Corte “precisi punti di riferimento” e soluzioni “già esistenti” (sentenza n. 236 del 2016)», ancorché non “costituzionalmente obbligate”, «che possano sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata illegittima».
In definitiva, fermo restando che non spetta alla Corte determinare autonomamente la misura della pena (sentenza n. 148 del 2016), l’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale che riguardano l’entità della punizione risulta condizionata non tanto dalla presenza di un’unica soluzione costituzionalmente obbligata, quanto dalla presenza nel sistema di previsioni sanzionatorie che, trasposte all’interno della norma censurata, garantiscano coerenza alla logica perseguita dal legislatore (sentenza n. 233 del 2018). Nel rispetto delle scelte di politica sanzionatoria delineate dal legislatore e ad esso riservate, occorre, infatti, evitare che l’ordinamento presenti zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale proprio in ambiti in cui è maggiormente impellente l’esigenza di assicurare una tutela effettiva dei diritti fondamentali, tra cui massimamente la libertà personale, incisi dalle scelte sanzionatorie del legislatore.
Alla luce di tali principi, le questioni prospettate dalla Corte d’appello di Trieste superano il vaglio di ammissibilità, avendo individuato nell’ordinamento quale soluzione costituzionalmente adeguata, benché non obbligata, l’abbassamento del minimo edittale per il fatto previsto dal comma 1 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 da otto a sei anni, misura a suo tempo prevista dall’art. 4-bis del d.l. n. 272 del 2005 e tuttora in vigore, come pena massima, ai sensi del comma 4 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 per la fattispecie ordinaria delle droghe “leggere” di cui alle tabelle II e IV previste dall’art. 14 del d.P.R. n. 309 del 1990, come sostituito dall’art. 1, comma 3, del citato d.l. n. 36 del 2014, come convertito.
4.3.– D’altra parte, l’intervento di questa Corte non è ulteriormente differibile, posto che è rimasto inascoltato il pressante invito rivolto al legislatore affinché procedesse «rapidamente a soddisfare il principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio, risanando la frattura che separa le pene previste per i fatti lievi e per i fatti non lievi dai commi 5 e 1 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990», anche in considerazione «dell’elevato numero dei giudizi, pendenti e definiti, aventi ad oggetto reati in materia di stupefacenti» (sentenza n. 179 del 2017).
Da ultimo, ma non per importanza, deve aggiungersi che la questione in esame attiene a diritti fondamentali, che non tollerano ulteriori compromissioni, ragion per cui reiterate sono state le richieste di intervento rivolte a questa Corte dai giudici di merito e di legittimità.
5.– Nel merito le questioni sono fondate.
Questa Corte ha già avuto modo di evidenziare che la divaricazione di ben quattro anni venutasi a creare tra il minimo edittale di pena previsto dal comma 1 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e il massimo edittale della pena comminata dal comma 5 dello stesso articolo «ha raggiunto un’ampiezza tale da determinare un’anomalia sanzionatoria» (sentenza n. 179 del 2017) all’esito di una articolata evoluzione legislativa e giurisprudenziale che occorre richiamare per sommi capi.
5.1.– L’originario art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 differenziava il trattamento sanzionatorio dei reati aventi ad oggetto le droghe “pesanti” (puniti al comma 1 con la reclusione da otto a venti anni e con la multa) rispetto a quello dei reati aventi ad oggetto le droghe “leggere” (puniti al comma 4 con la reclusione da due a sei anni e con la multa). La stessa distinzione tra droghe “pesanti” e “leggere” era riproposta anche per i fatti di lieve entità, in relazione ai quali il comma 5 del medesimo art. 73 stabiliva un’attenuante ad effetto speciale cosiddetta autonoma o indipendente, che puniva con la reclusione da uno a sei anni i fatti concernenti le droghe “pesanti” e da sei mesi a quattro anni quelli relativi alle droghe “leggere”, oltre alle rispettive sanzioni pecuniarie.
Il d.l. n. 272 del 2005, con l’art. 4-bis (poi dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza n. 32 del 2014), aveva soppresso la distinzione fondata sul tipo di sostanza stupefacente, comminando la pena della reclusione da sei a venti anni e la multa per i fatti non lievi, nonché la pena della reclusione da uno a sei anni e la multa per i casi in cui fosse applicabile l’attenuante del fatto di lieve entità.
Con l’art. 2, comma 1, lettera a), del successivo decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, nella legge 21 febbraio 2014, n. 10, è stato sostituito il comma 5 dell’art. 73, trasformando la circostanza attenuante del fatto di lieve entità in fattispecie autonoma di reato e riducendo il limite edittale massimo della pena detentiva da sei a cinque anni di reclusione. Tale modifica non è stata intaccata dalla sentenza n. 32 del 2014, a seguito della quale hanno ripreso vigore le disposizioni dell’art. 73 nella originaria formulazione.
Infine, il legislatore è tornato nuovamente sulla materia, con il d.l. n. 36 del 2014, convertito, con modificazioni, nella legge n. 79 del 2014, che tra l’altro, all’art. 1, comma 24-ter, lettera a), ha ulteriormente diminuito il massimo edittale della pena prevista per il fatto di lieve entità, fissandolo nella misura di anni quattro di reclusione oltre la multa.
È a seguito di questa stratificazione di interventi legislativi e giurisprudenziali che si è progressivamente scavata la lamentata profonda frattura che separa il trattamento sanzionatorio del fatto di non lieve entità da quello del fatto lieve, senza che il legislatore abbia provveduto a colmarla nonostante i gravi inconvenienti applicativi che essa può determinare, come questa Corte ha rilevato nelle sue precedenti pronunce in materia.
5.2.– Anche se il costante orientamento della Corte di cassazione è nel senso che la fattispecie di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, può essere riconosciuta solo nella ipotesi di minima offensività penale della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla disposizione (ex multis, da ultimo, Corte di cassazione, sezione settima penale, ordinanza 24 gennaio-12 febbraio 2019, n. 6621; Corte di cassazione, sezione settima penale, ordinanza 20 dicembre 2018-24 gennaio 2019, n. 3350; Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 13 dicembre 2018-18 gennaio 2019, n. 2312), indubitabilmente molti casi si collocano in una “zona grigia”, al confine fra le due fattispecie di reato, il che rende non giustificabile l’ulteriore permanenza di un così vasto iato sanzionatorio, evidentemente sproporzionato sol che si consideri che il minimo edittale del fatto di non lieve entità è pari al doppio del massimo edittale del fatto lieve. L’ampiezza del divario sanzionatorio condiziona inevitabilmente la valutazione complessiva che il giudice di merito deve compiere al fine di accertare la lieve entità del fatto (ritenuta doverosa da Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 27 settembre-9 novembre 2018, n. 51063), con il rischio di dar luogo a sperequazioni punitive, in eccesso o in difetto, oltre che a irragionevoli difformità applicative in un numero rilevante di condotte.
Ne deriva la violazione dei principi di eguaglianza, proporzionalità, ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., oltre che del principio di rieducazione della pena di cui all’art. 27 Cost.
Infatti, come questa Corte ha chiaramente affermato ancora di recente nella sentenza n. 222 del 2018, allorché le pene comminate appaiano manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità del fatto previsto quale reato, si profila un contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., giacché una pena non proporzionata alla gravità del fatto si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa (ex multis, sentenze n. 236 del 2016, n. 68 del 2012 e n. 341 del 1994). I principi di cui agli artt. 3 e 27 Cost. «esigono di contenere la privazione della libertà e la sofferenza inflitta alla persona umana nella misura minima necessaria e sempre allo scopo di favorirne il cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale» (sentenza n. 179 del 2017) in vista del «progressivo reinserimento armonico della persona nella società, che costituisce l’essenza della finalità rieducativa» della pena (da ultimo, sentenza n. 149 del 2018). Al raggiungimento di tale impegnativo obiettivo posto dai principi costituzionali è di ostacolo l’espiazione di una pena oggettivamente non proporzionata alla gravità del fatto, quindi, soggettivamente percepita come ingiusta e inutilmente vessatoria e, dunque, destinata a non realizzare lo scopo rieducativo verso cui obbligatoriamente deve tendere.
5.3.– Alla stregua delle considerazioni che precedono, non può essere ulteriormente differito l’intervento di questa Corte, chiamata a porre rimedio alla violazione dei principi costituzionali evocati, con conseguente accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990 nei termini in cui sono prospettate dal giudice rimettente, il quale chiede che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale di tale disposizione, nella parte in cui prevede un minimo edittale di otto anni, anziché di sei anni di reclusione.
La misura della pena individuata dal rimettente, benché non costituzionalmente obbligata, non è tuttavia arbitraria: essa si ricava da previsioni già rinvenibili nell’ordinamento, specificamente nel settore della disciplina sanzionatoria dei reati in materia di stupefacenti, e si colloca in tale ambito in modo coerente alla logica perseguita dal legislatore.
Il giudice rimettente, infatti, trae l’indicazione della misura della pena minima per i fatti non lievi anzitutto dalla previsione introdotta con l’art. 4-bis del d.l. n. 272 del 2005 per i medesimi fatti, che ancora conserva viva traccia applicativa nell’ordinamento in considerazione degli effetti non retroattivi della sentenza n. 32 del 2014. Inoltre, sei anni è altresì la pena massima – a cui pure fa riferimento l’ordinanza di rimessione – prevista dal vigente comma 4 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 per i fatti di non lieve entità aventi ad oggetto le sostanze di cui alle tabelle II e IV previste dal richiamato art. 14 del d.P.R. n. 309 del 1990. Sempre in sei anni il legislatore aveva altresì individuato la pena massima per i fatti di lieve entità concernenti le droghe “pesanti”, vigente il testo originario del d.P.R. n. 309 del 1990, misura mantenuta come limite massimo della pena per i fatti lievi anche dal successivo d.l. n. 272 del 2005 che pure ha eliminato dal comma 5 la distinzione tra droghe “pesanti” e droghe “leggere”.
In una parola, la pena di sei anni è stata ripetutamente indicata dal legislatore come misura adeguata ai fatti “di confine”, che nell’articolato e complesso sistema punitivo dei reati connessi al traffico di stupefacenti si pongono al margine inferiore delle categorie di reati più gravi o a quello superiore della categoria dei reati meno gravi. In tale contesto, è appropriata la richiesta di ridurre a sei anni di reclusione la pena minima per i fatti di non lieve entità di cui al comma 1 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990, al fine di porre rimedio ai vizi di illegittimità costituzionale denunciati. Il giudice rimettente ha infatti individuato – secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza costituzionale più recente – una previsione sanzionatoria già rinvenibile nell’ordinamento che, trasposta all’interno della norma censurata, si situa coerentemente lungo la dorsale sanzionatoria prevista dai vari commi dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e rispetta la logica della disciplina voluta dal legislatore (sentenza n. 233 del 2018).
È appena il caso di osservare che la misura sanzionatoria indicata, non costituendo una opzione costituzionalmente obbligata, resta soggetta a un diverso apprezzamento da parte del legislatore sempre nel rispetto del principio di proporzionalità (sentenza n. 222 del 2018).
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui in cui prevede la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni anziché di sei anni.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 gennaio 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Marta CARTABIA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria l’8 marzo 2019.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
– Gaetano SILVESTRI Presidente
– Luigi MAZZELLA Giudice
– Sabino CASSESE “
– Giuseppe TESAURO “
– Paolo Maria NAPOLITANO “
– Giuseppe FRIGO “
– Alessandro CRISCUOLO “
– Paolo GROSSI “
– Giorgio LATTANZI “
– Aldo CAROSI “
– Marta CARTABIA “
– Sergio MATTARELLA “
– Mario Rosario MORELLI “
– Giancarlo CORAGGIO “
– Giuliano AMATO “
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, commi 2, lettera a), e 3, lettera a), numero 6), del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2006, n. 49, promosso dalla Corte di cassazione, sezione terza penale, con ordinanza dell’11 giugno 2013, iscritta al n. 227 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno 2013.
Visti l’atto di costituzione di M.V., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica dell’11 febbraio 2014 il Giudice relatore Marta Cartabia;
uditi gli avvocati Michela Porcile e Giovanni Maria Flick per M.V. e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza depositata in data 11 giugno 2013 (r.o. n. 227 del 2013), la Corte di cassazione, terza sezione penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, commi 2, lettera a), e 3, lettera a), numero 6), del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2006, n. 49, in riferimento all’art. 77, secondo comma, della Costituzione.
Più precisamente, la rimettente ha dubitato della legittimità costituzionale del citato art. 4-bis «nella parte in cui ha modificato l’art. 73 del testo unico sulle sostanze stupefacenti di cui al d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, e segnatamente nella parte in cui, sostituendo i commi 1 e 4 dell’art. 73, parifica ai fini sanzionatori le sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alle tabelle II e IV previste dal previgente art. 14 a quelle di cui alle tabelle I e III, e conseguentemente eleva le sanzioni per le prime della pena della reclusione da due a sei anni e della multa da euro 5.164 ad euro 77.468 a quella della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 26.000 ad euro 260.000». Parimenti, la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-vicies ter, commi 2, lettera a), e 3, lettera a), numero 6) «nella parte in cui sostituisce gli artt. 13 e 14 del d.P.R. 309 del 1990, unificando le tabelle che identificano le sostanze stupefacenti, ed in particolare includendo la cannabis e i suoi prodotti nella prima di tali tabelle».
1.1.– La Corte di cassazione ha premesso di essere investita del ricorso proposto dall’imputato avverso la sentenza con la quale la Corte d’appello di Trento ha confermato la sentenza del Tribunale di Trento, che aveva dichiarato V.M. colpevole del reato di cui all’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), in relazione alla ricezione e al trasporto di kg 3,860 di sostanza stupefacente di tipo hashish, condannando l’imputato, previa concessione delle attenuanti generiche, alla pena di quattro anni di reclusione ed euro ventiseimila di multa. Ritenuti infondati i motivi di ricorso concernenti la prova della colpevolezza e la concessione dell’attenuante speciale del fatto di lieve entità di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, la Corte riteneva rilevante il dubbio di legittimità costituzionale sollevato dalla difesa in relazione ai citati artt. 4-bis e 4-vicies ter, avuto riguardo al motivo di ricorso con il quale è stata chiesta la riduzione della pena in modo da ottenere il beneficio della relativa sospensione condizionale. A tale proposito, il giudice di legittimità ha rimarcato che, dovendosi ritenere plausibile la fissazione della pena in misura prossima al minimo edittale, l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale avrebbe effettivamente consentito di ridurre la pena nei limiti previsti per la concessione dell’invocata sospensione condizionale. Infatti, secondo la rimettente, la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni che hanno sostituito, in tutto o in parte, e (a suo avviso) conseguentemente abrogato le corrispondenti disposizioni e norme del d.P.R. n. 309 del 1990, determinerebbe la reviviscenza del più favorevole trattamento sanzionatorio previgente, che stabiliva la pena edittale della reclusione da due a sei anni e della multa da euro 5.164 a euro 77.468 per i fatti di cui l’imputato è chiamato a rispondere, anziché quella attuale della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro ventiseimila a euro duecentosessantamila. In particolare, la Corte di cassazione si è richiamata alla giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 314 del 2009 e n. 108 del 1986), secondo cui l’accertamento della invalidità di una norma abrogatrice e la sua dichiarazione di illegittimità da parte della Corte costituzionale, specialmente se per vizi di forma o procedurali, comporta la caducazione dell’effetto abrogativo e il conseguente ripristino della norma abrogata.
Ha precisato, inoltre, il Collegio rimettente che il deteriore trattamento sanzionatorio quale stabilito dal citato art. 4-bis, sospettato di illegittimità costituzionale, trova il suo presupposto nell’unificazione delle tabelle che identificano le sostanze stupefacenti, con inclusione della cannabis nella prima di esse, insieme alle cosiddette “droghe pesanti”: ciò determinerebbe, pertanto, la rilevanza della questione di legittimità costituzionale anche dell’art. 4-vicies ter, commi 2, lettera a), e 3, lettera a), numero 6), del citato d.l. n. 272 del 2005, che tale unificazione ha operato sostituendo il previgente testo degli artt. 13 e 14 del d.P.R. n. 309 del 1990.
1.2.– La Corte di cassazione ha ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dei predetti artt. 4-bis e 4-vicies ter in relazione all’art. 77, secondo comma, Cost., in quanto mancherebbe il requisito della omogeneità tra le norme originarie del decreto-legge e quelle introdotte nella legge di conversione. In proposito, i rimettenti hanno rammentato la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 22 del 2012), secondo cui sussiste nel nostro ordinamento detto principio costituzionale di necessaria omogeneità, in quanto l’art. 77, secondo comma, Cost. istituisce un nesso di interrelazione funzionale tra decreto-legge, formato dal Governo, e legge di conversione, caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare rispetto a quello ordinario, anche sotto il profilo della particolare rapidità e accelerazione dei tempi. La sussistenza del predetto principio risulterebbe poi confermata dal regolamento del Senato della Repubblica e dai messaggi e dalle lettere del Presidente della Repubblica, da questi inviate alle Camere. Quando venga spezzato il legame essenziale tra decretazione d’urgenza e potere di conversione, non sussisterebbe una illegittimità delle disposizioni introdotte nella legge di conversione per mancanza dei presupposti di necessità e urgenza delle norme eterogenee, ma una illegittimità per l’uso improprio, da parte del Parlamento, di un potere che la Costituzione gli attribuisce, con speciali modalità di procedura, allo scopo tipico di convertire un decreto-legge (sentenza n. 355 del 2010). Sarebbe, quindi, preclusa la possibilità di inserire, nella legge di conversione, emendamenti del tutto estranei all’oggetto e alle finalità del testo originario, in quanto si tratta di una legge «funzionalizzata e specializzata» che non può aprirsi a qualsiasi contenuto ulteriore anche nel caso di provvedimenti governativi ab origine eterogenei: in tale ultimo caso il limite all’introduzione di ulteriori disposizioni in sede di conversione è rappresentato dal rispetto della ratio del decreto-legge (ordinanza n. 34 del 2013).
L’applicazione di tali principi al caso di specie deve, secondo i rimettenti, portare a ritenere insussistente il requisito dell’omogeneità dei censurati artt. 4-bis e 4-vicies ter rispetto alle norme originarie contenute nel decreto-legge. Le finalità di quest’ultimo, infatti, sarebbero state quelle di: rafforzare le forze di polizia e la funzionalità del Ministero dell’interno per prevenire e combattere la criminalità organizzata e il terrorismo nazionale e internazionale; garantire il finanziamento per le olimpiadi invernali; favorire il recupero dei tossicodipendenti detenuti; assicurare il diritto di voto degli italiani residenti all’estero. Pur nella pluralità degli scopi si sarebbe potuta ravvisare una sostanziale omogeneità finalistica del decreto-legge, ravvisabile nella comunanza di ratio delle disposizioni, quella di garantire l’effettivo e sicuro svolgimento delle olimpiadi invernali.
In ogni caso, le norme originarie riguardavano non la disciplina delle sostanze stupefacenti, ma lo specifico e circoscritto tema dell’esecuzione delle pene detentive nei confronti dei tossicodipendenti recidivi con un programma terapeutico in corso. Nei confronti di questi ultimi, infatti, l’allora recentissima legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), cosiddetta “legge ex Cirielli”, con il suo art. 8 aveva aggiunto l’art. 94-bis al d.P.R. n. 309 del 1990 – riducendo da quattro a tre anni la pena massima che, per i recidivi, consentiva l’affidamento in prova per l’attuazione di un programma terapeutico di recupero dalla tossicodipendenza – e con l’art. 9 aveva aggiunto la lettera c) al comma 9 dell’art. 656 del codice di procedura penale, escludendo la sospensione della esecuzione della pena per i recidivi, compresi i tossicodipendenti con in corso un programma terapeutico di recupero dalla tossicodipendenza o alcooldipendenza. Il Governo, ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di garantire l’efficacia dei citati programmi di recupero anche in caso di recidivi, con l’art. 4 del d.l. n. 272 del 2005 aveva perciò abrogato il predetto art. 94-bis e aveva modificato l’art. 656, comma 9, lettera c), cod. proc. pen., ripristinando la sospensione dell’esecuzione della pena nei confronti dei tossicodipendenti con un programma terapeutico in atto, anche se recidivi.
La rimettente ha quindi rimarcato la profonda distonia di contenuto, finalità e ratio del decreto-legge rispetto alle nuove norme introdotte in sede di conversione, ciò non solo in riferimento alla ratio complessiva dell’intervento governativo – che era quella di garantire sotto l’aspetto finanziario e di polizia l’effettivo e sicuro svolgimento delle olimpiadi invernali, ma anche rispetto alle specifiche previsioni normative contenute nell’art. 4 citato. Questa, infatti, è l’unica disposizione che presenta un labile riferimento al tema degli stupefacenti, ma riguarda esclusivamente l’esecuzione della pena dei recidivi già condannati, come può desumersi dal titolo della disposizione e dal preambolo del provvedimento d’urgenza, in cui si dichiara espressamente che la ratio e la finalità dell’intervento sono quelle di «garantire l’efficacia dei programmi terapeutici di recupero per le tossicodipendenze anche in caso di recidiva». Con la legge di conversione, invece, all’art. 4 sono stati fatti seguire ben ventitre articoli aggiuntivi, composti da numerosissimi commi con relativi allegati, che non hanno apportato modifiche funzionalmente interrelate con le previsioni originarie, ma hanno piuttosto completamente ridisegnato l’apparato repressivo in materia di stupefacenti, sostituendo l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e incidendo in modo pervasivo sul sistema classificatorio delle sostanze psicotrope, così da pervenire alla equiparazione tra cosiddette “droghe leggere” e “droghe pesanti”.
Secondo la Corte di cassazione non potrebbe, quindi, ravvisarsi alcuna omogeneità materiale o teleologica tra la disposizione abrogatrice di cui all’art. 4 del decreto d’urgenza e la riforma organica del testo unico sugli stupefacenti realizzata con la legge di conversione. Né, ad avviso del giudice di legittimità, la mera circostanza che l’art. 4, comma 1, del decreto d’urgenza richiami il d.P.R. n. 309 del 1990, per sopprimere la disposizione di cui all’art. 94-bis, potrebbe legittimare l’intera riscrittura del testo unico sugli stupefacenti, posto che, altrimenti, si sarebbe potuto riscrivere, con apposito “maxi-emendamento” d’aula, (saltando, quindi, l’esame in sede referente), tutta la disciplina dell’esecuzione penale, posto che veniva richiamato anche l’art. 656 cod. proc. pen. In tal modo, ad avviso dei rimettenti, si finirebbe per consentire ad ogni Governo, e alla sua maggioranza, di approfittare di qualsiasi effimera emergenza per riformare interi settori dell’ordinamento, strumentalizzando la speciale procedura privilegiata prevista per la legge di conversione, che costituisce, invece, una fonte funzionale e specializzata.
Ad avviso del Collegio rimettente, pertanto, il legislatore, con l’introduzione delle nuove norme e, in particolare, di quelle, poste dagli artt. 4-bis e 4-vicies ter, commi 2, lettera a), e 3, lettera a), numero 6), avrebbe travalicato i limiti della potestà emendativa del Parlamento, quali tracciati dalle citate sentenze della Corte costituzionale.
A riprova della disomogeneità delle norme impugnate, la Corte di cassazione ha citato il parere espresso dal Comitato per la legislazione della Camera nella seduta del 1° febbraio 2006, come pure le opinioni manifestate da diversi parlamentari della minoranza in sede di dibattito sulla legge di conversione, sia al Senato sia alla Camera. Del resto, hanno rimarcato i giudici rimettenti, la disomogeneità delle nuove norme deve ritenersi ammessa ed enunciata dalla stessa legge di conversione, che ha dovuto modificare il titolo del decreto-legge per rendere conto del nuovo contenuto ivi introdotto: sono state aggiunte, infatti, le parole «e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309».
La Corte rimettente ha poi evidenziato che, pur essendo prospettata una violazione procedurale ai sensi dell’art. 77, secondo comma, Cost., ciò nondimeno una eventuale pronuncia di accoglimento potrebbe incidere non sulle disposizioni, ma sulle singole norme introdotte dalla legge di conversione che, da un lato, sono totalmente estranee all’oggetto e alla ratio del decreto-legge e, dall’altro, assumono rilevanza nel giudizio a quo. Si tratterebbe, segnatamente, delle norme che – sostituendo i commi 1 e 4 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e unificando le tabelle che identificano le sostanze stupefacenti – parificano ai fini sanzionatori le sostanze di cui alle tabelle II e IV (tra le quali l’hashish), previste dal previgente art. 14 dello stesso d.P.R., a quelle di cui alle precedenti tabelle I e III e, conseguentemente, elevano le sanzioni per le prime.
1.3.– In via subordinata, la Corte di cassazione ha poi sollevato questione di legittimità costituzionale dei medesimi artt. 4-bis e 4-vicies ter negli stessi limiti di cui sopra, per difetto del requisito della necessità ed urgenza ai sensi dell’art. 77, secondo comma, Cost.
Secondo la rimettente, qualora la Corte costituzionale dovesse disattendere le conclusioni in punto di disomogeneità delle norme impugnate, rispetto al contenuto e alla ratio del decreto-legge, e si dovessero ritenere le medesime non del tutto eterogenee rispetto al decreto-legge, dovrebbe allora sindacarsi la sussistenza, per le nuove norme introdotte, dei citati requisiti di necessità ed urgenza, ritenuti in tal caso necessari dalla sentenza n. 355 del 2010 di questa Corte. Del resto, il Collegio rimettente evidenzia come altra giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 128 del 2008 e n. 171 del 2007) abbia osservato che la legge di conversione non sana i vizi del decreto d’urgenza, in sede di sua conversione, di tal che non possano introdursi disposizioni che non abbiano collegamento con le ragioni di necessità ed urgenza legittimanti l’intervento governativo.
1.4.– Il Collegio rimettente ha ritenuto, viceversa, assorbita la terza eccezione di legittimità costituzionale sollevata dalla difesa, per contrasto delle medesime norme di cui sopra con l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione alla decisione quadro n. 2004/757/GAI del Consiglio dell’Unione europea del 25 ottobre 2004 (Decisione quadro del Consiglio riguardante la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti) – che esigerebbe una disciplina differenziata in ragione della diversa pericolosità delle tipologie di sostanze stupefacenti e psicotrope – e con il principio di proporzionalità delle pene di cui all’art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
2.– Con atto depositato in data 19 novembre 2013, il Presidente del Consiglio dei ministri è intervenuto nel giudizio, chiedendo che le questioni vengano dichiarate inammissibili o infondate.
2.1.– In primo luogo, l’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, in quanto la rimettente avrebbe omesso di considerare la possibilità di adeguare il trattamento sanzionatorio alla fattispecie concreta mediante l’applicazione dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990.
2.2.– Nel merito la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri ha ritenuto palesemente infondate la questioni sollevate, in quanto l’originario decreto-legge avrebbe già contenuto disposizioni in materia di tossicodipendenza, di tal che le norme introdotte in sede di conversione si sarebbero dovute considerare in linea con la ratio e con la finalità dell’intervento governativo, rispondendo anche ad una esigenza di straordinaria urgenza e necessità nel disciplinare una materia di fondamentale importanza ai fini della tutela della salute individuale e collettiva, nonché ai fini della salvaguardia della sicurezza pubblica, attraverso il rigoroso e fermo contrasto al traffico e allo spaccio degli stupefacenti e del recupero dei tossicodipendenti, anche in caso di recidiva.
3.– Con memoria depositata in data 18 novembre 2013, V.M., imputato nel procedimento penale pendente in Cassazione, si è costituito in giudizio, insistendo perché vengano accolte le sollevate questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. n. 272 del 2005, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 49 del 2006, ulteriormente illustrando i motivi già esposti dalla Corte di cassazione, in relazione alla violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost., sia per difetto di omogeneità materiale e teleologica rispetto a contenuto, finalità e ratio dell’originario testo del decreto-legge, sia, in via subordinata, per difetto dei requisiti di necessità e urgenza. In ultimo, la parte ha rimarcato che l’impugnato art. 4-bis si pone inoltre in duplice contrasto con il diritto dell’Unione europea, in quanto violerebbe sia l’art. 4 della citata decisione quadro n. 2004/757/GAI sia l’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
4.– In data 10 febbraio 2014, la difesa dell’imputato ha depositato note di discussione, con le quali ha rimarcato che l’Avvocatura generale dello Stato, nel ritenere sussistente un nesso tra l’art. 4 originariamente contenuto nel decreto governativo e le disposizioni oggi impugnate, avrebbe confuso l’oggetto di diritto sostanziale (la disciplina che individua e punisce le violazioni alla disciplina sugli stupefacenti) con il soggetto (cioè il condannato tossicodipendente): l’art. 4, infatti, avrebbe riguardato quest’ultimo, vale a dire il soggetto, mentre le norme introdotte dalla legge di conversione avrebbero inciso sul primo, id est l’oggetto. Nel ribadire e richiamare le argomentazioni già esposte in punto di fondatezza della questione di legittimità costituzionale, la difesa ha altresì evidenziato che l’eccezione di inammissibilità per difetto di rilevanza, proposta dal Presidente del Consiglio dei ministri, si è basata sull’erroneo presupposto che la Corte di cassazione potesse applicare nella specie la disposizione di cui all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990: il giudice di legittimità, invece, ha espressamente ritenuto infondati i motivi di ricorso relativi al riconoscimento del fatto di lieve entità, contestualmente considerando congrua, specifica e adeguata la motivazione della sentenza impugnata che lo escludeva.
Considerato in diritto
1.– La Corte di cassazione, terza sezione penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli articoli 4-bis e 4-vicies ter, commi 2, lettera a), e 3, lettera a), numero 6), del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2006, n. 49, in riferimento all’art. 77, secondo comma, della Costituzione.
Ad avviso del Collegio rimettente, le disposizioni impugnate, introdotte dalla legge di conversione, mancherebbero del requisito di omogeneità con quelle originarie del decreto-legge. Detto requisito, infatti, è richiesto dall’art. 77, secondo comma, Cost. che, secondo la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 22 del 2012), istituisce un nesso di interrelazione funzionale tra decreto-legge, formato dal Governo, e legge di conversione, caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare e semplificato rispetto a quello ordinario. La legge di conversione, pertanto, rappresenta una legge «funzionalizzata e specializzata» che non può aprirsi a qualsiasi contenuto ulteriore, anche nel caso di provvedimenti governativi ab origine eterogenei (ordinanza n. 34 del 2013), ma ammette soltanto disposizioni che siano coerenti con quelle originarie o dal punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale e finalistico.
Nella specie, ha osservato il Collegio rimettente, le disposizioni originariamente contenute nel decreto-legge riguardavano la sicurezza e i finanziamenti per le Olimpiadi invernali (che di lì a poco si sarebbero svolte a Torino), la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno e il recupero di tossicodipendenti recidivi. Invece, le disposizioni impugnate, introdotte con la sola legge di conversione, non avrebbero nessuna correlazione con le prime, in quanto volte ad attuare una radicale e complessiva riforma del testo unico sugli stupefacenti e del trattamento sanzionatorio dei reati ivi contenuti.
In particolare, ha osservato la Corte di cassazione, il citato artt. 4-bis – modificando l’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) – ha previsto una medesima cornice edittale per le violazioni concernenti tutte le sostanze stupefacenti, unificando il trattamento sanzionatorio che, in precedenza, era differenziato a seconda che i reati avessero per oggetto le sostanze stupefacenti o psicotrope incluse nelle tabelle II e IV (cosiddette “droghe leggere”) ovvero quelle incluse nelle tabelle I e III (cosiddette “droghe pesanti”): la legge di conversione, infatti, con l’art. 4-vicies ter ha parallelamente modificato il precedente sistema tabellare stabilito dagli artt. 13 e 14 dello stesso d.P.R. n. 309 del 1990, includendo nella nuova tabella I gli stupefacenti che prima erano distinti in differenti gruppi.
Per effetto di tali modifiche le sanzioni per i reati concernenti le cosiddette “droghe leggere” e, in particolare, i derivati dalla cannabis, precedentemente stabilite nell’intervallo edittale della pena della reclusione da due a sei anni e della multa da euro 5.164 ad euro 77.468, sono state elevate, prevedendosi la pena della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 26.000 ad euro 260.000.
Considerata la profonda distonia di contenuto, finalità e ratio del decreto-legge rispetto alle citate nuove norme introdotte in sede di conversione, i rimettenti reputano che sia stato violato l’art. 77, secondo comma, Cost. sotto il profilo del difetto del requisito di omogeneità ovvero del nesso di interrelazione funzionale richiesto dalla citata disposizione costituzionale.
In via subordinata, tuttavia, la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dei medesimi artt. 4-bis e 4-vicies ter, per difetto del requisito della necessità ed urgenza, richiesto dal medesimo art. 77, secondo comma, Cost. Secondo i rimettenti, infatti, qualora la Corte costituzionale dovesse disattendere le conclusioni in punto di disomogeneità delle norme impugnate, rispetto al contenuto e alla ratio del decreto-legge, e dovesse ritenere le medesime non del tutto eterogenee rispetto a questo, allora, poiché la legge di conversione non sana i vizi del decreto (sentenze n. 128 del 2008 e n. 171 del 2007), non potrebbe considerarsi legittima l’introduzione, in sede di conversione, di disposizioni che non abbiano collegamento con le ragioni di necessità ed urgenza legittimanti l’intervento governativo, ragioni evidentemente insussistenti nella specie.
2.– In via preliminare, in ordine alle deduzioni della parte privata, deve osservarsi che – ferma l’ammissibilità del suo intervento, in quanto persona imputata nel procedimento a quo e, quindi, parte del giudizio (ex plurimis, sentenze n. 304 del 2011, n. 138 del 2010 e n. 263 del 2009) – esse introducono profili di illegittimità costituzionale non prospettati nell’ordinanza di rimessione, in vista di un ampliamento del thema decidendum. Nella memoria di costituzione, infatti, viene dedotta anche una duplice violazione della normativa dell’Unione europea, in relazione sia alla decisione quadro n. 2004/757/GAI del Consiglio dell’Unione europea del 25 ottobre 2004 (Decisione quadro del Consiglio riguardante la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti), sia all’art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Va rilevato, invero, che si tratta di un percorso argomentativo e di una eccezione difensiva già ritenuti manifestamente infondati dalla Corte di cassazione e che la disamina di tale profilo non può ritenersi ammissibile nel presente giudizio incidentale, in quanto la parte privata costituita non può estendere i limiti della questione, quali precisati nell’ordinanza di rimessione dal giudice a quo (ex plurimis, sentenze n. 56 del 2009, n. 86 del 2008, n. 174 del 2003). Ciò a prescindere dalla carente indicazione delle disposizioni costituzionali rispetto alle quali la normativa dell’Unione europea assumerebbe rilevanza nel presente giudizio.
3.– In punto di ammissibilità delle questioni sollevate dalla Corte di cassazione, deve osservarsi che l’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito il difetto di rilevanza delle medesime, in quanto il giudice a quo avrebbe omesso di sperimentare la possibilità di adeguare il trattamento sanzionatorio alle differenti tipologie di stupefacenti, attraverso l’applicazione dell’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, che prevede pene più miti per i fatti di lieve entità.
L’eccezione non è fondata, in quanto la Corte di cassazione ha espressamente precisato, nel corpo stesso della sua ordinanza, che la Corte d’appello di Trento ha fornito congrua, specifica e adeguata motivazione delle ragioni per le quali non è riconoscibile nella specie il fatto di lieve entità, ai sensi del citato art. 73, comma 5.
È appena il caso di aggiungere che, alla luce delle considerazioni sopra svolte, risulta evidente che nessuna incidenza sulle questioni sollevate possono esplicare le modifiche apportate all’art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 dall’art. 2 del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2014, n.10. Trattandosi di ius superveniens che riguarda disposizioni non applicabili nel giudizio a quo, non si ravvisa la necessità di una restituzione degli atti al giudice rimettente, dal momento che le modifiche, intervenute medio tempore, concernono una disposizione di cui è già stata esclusa l’applicazione nella specie, e sono tali da non influire sullo specifico vizio procedurale lamentato dal giudice rimettente in ordine alla formazione della legge di conversione n. 49 del 2006, con riguardo a disposizioni differenti. Inoltre, gli effetti del presente giudizio di legittimità costituzionale non riguardano in alcun modo la modifica disposta con il decreto-legge n. 146 del 2013, sopra citato, in quanto stabilita con disposizione successiva a quella qui censurata e indipendente da quest’ultima.
4.– Nel merito, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. n. 272 del 2005, come convertito dall’art. 1, comma 1, della legge n. 49 del 2006, è fondata in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost. per difetto di omogeneità, e quindi di nesso funzionale, tra le disposizioni del decreto-legge e quelle impugnate, introdotte nella legge di conversione.
4.1.– In proposito va richiamata la giurisprudenza di questa Corte, con particolare riguardo alla sentenza n. 22 del 2012 e alla successiva ordinanza n. 34 del 2013, nella quale si è chiarito che la legge di conversione deve avere un contenuto omogeneo a quello del decreto-legge. Ciò in ossequio, prima ancora che a regole di buona tecnica normativa, allo stesso art. 77, secondo comma, Cost., il quale presuppone «un nesso di interrelazione funzionale tra decreto-legge, formato dal Governo ed emanato dal Presidente della Repubblica, e legge di conversione, caratterizzata da un procedimento di approvazione peculiare rispetto a quello ordinario» (sentenza n. 22 del 2012).
La legge di conversione – per l’approvazione della quale le Camere, anche se sciolte, si riuniscono entro cinque giorni dalla presentazione del relativo disegno di legge (art. 77, secondo comma, Cost.) – segue un iter parlamentare semplificato e caratterizzato dal rispetto di tempi particolarmente rapidi, che si giustificano alla luce della sua natura di legge funzionalizzata alla stabilizzazione di un provvedimento avente forza di legge, emanato provvisoriamente dal Governo e valido per un lasso temporale breve e circoscritto.
Dalla sua connotazione di legge a competenza tipica derivano i limiti alla emendabilità del decreto-legge. La legge di conversione non può, quindi, aprirsi a qualsiasi contenuto ulteriore, come del resto prescrivono anche i regolamenti parlamentari (art. 96-bis del Regolamento della Camera dei Deputati e art. 97 del Regolamento del Senato della Repubblica, come interpretato dalla Giunta per il regolamento con il parere dell’8 novembre 1984). Diversamente, l’iter semplificato potrebbe essere sfruttato per scopi estranei a quelli che giustificano l’atto con forza di legge, a detrimento delle ordinarie dinamiche di confronto parlamentare. Pertanto, l’inclusione di emendamenti e articoli aggiuntivi che non siano attinenti alla materia oggetto del decreto-legge, o alle finalità di quest’ultimo, determina un vizio della legge di conversione in parte qua.
È bene sottolineare che la richiesta coerenza tra il decreto-legge e la legge di conversione non esclude, in linea generale, che le Camere possano apportare emendamenti al testo del decreto-legge, per modificare la normativa in esso contenuta, in base alle valutazioni emerse nel dibattito parlamentare; essa vale soltanto a scongiurare l’uso improprio di tale potere, che si verifica ogniqualvolta sotto la veste formale di un emendamento si introduca un disegno di legge che tenda a immettere nell’ordinamento una disciplina estranea, interrompendo il legame essenziale tra decreto-legge e legge di conversione, presupposto dalla sequenza delineata dall’art. 77, secondo comma, Cost.
Ciò vale anche nel caso di provvedimenti governativi ab origine a contenuto plurimo, come quello di specie. In relazione a questa tipologia di atti – che di per sé non sono esenti da problemi rispetto al requisito dell’omogeneità (sentenza n. 22 del 2012) – ogni ulteriore disposizione introdotta in sede di conversione deve essere strettamente collegata ad uno dei contenuti già disciplinati dal decreto-legge ovvero alla ratio dominante del provvedimento originario considerato nel suo complesso.
Nell’ipotesi in cui la legge di conversione spezzi la suddetta connessione, si determina un vizio di procedura, mentre resta ovviamente salva la possibilità che la materia regolata dagli emendamenti estranei al decreto-legge formi oggetto di un separato disegno di legge, da discutersi secondo le ordinarie modalità previste dall’art. 72 Cost.
L’eterogeneità delle disposizioni aggiunte in sede di conversione determina, dunque, un vizio procedurale delle stesse, che come ogni altro vizio della legge spetta solo a questa Corte accertare. Si tratta di un vizio procedurale peculiare, che per sua stessa natura può essere evidenziato solamente attraverso un esame del contenuto sostanziale delle singole disposizioni aggiunte in sede parlamentare, posto a raffronto con l’originario decreto-legge. All’esito di tale esame, le eventuali disposizioni intruse risulteranno affette da vizio di formazione, per violazione dell’art. 77 Cost., mentre saranno fatte salve tutte le componenti dell’atto che si pongano in linea di continuità sostanziale, per materia o per finalità, con l’originario decreto-legge.
4.2.– Nel caso di specie, dunque, la Corte è chiamata a verificare se il contenuto delle disposizioni impugnate, introdotte in fase di conversione, sia funzionalmente correlato al decreto-legge n. 272 del 2005, al fine di giudicare il corretto uso del potere di conversione ex art. 77, secondo comma, Cost. da parte delle Camere.
A tal fine va osservato che le norme originarie contenute nel decreto-legge riguardano l’assunzione di personale della Polizia di Stato (art. 1), misure per assicurare la funzionalità all’Amministrazione civile dell’interno (art. 2), finanziamenti per le olimpiadi invernali (art. 3), il recupero dei tossicodipendenti detenuti (art. 4) e il diritto di voto degli italiani residenti all’estero (art. 5).
Come può facilmente rilevarsi, e come del resto ha osservato l’Avvocatura dello Stato, l’unica previsione alla quale, in ipotesi, potrebbero riferirsi le disposizioni impugnate introdotte dalla legge di conversione, è l’art. 4, la cui connotazione finalistica era ed è quella di impedire l’interruzione del programma di recupero di determinate categorie di tossicodipendenti recidivi.
Nei confronti di questi ultimi era, infatti, intervenuta l’allora recentissima legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), cosiddetta “legge ex Cirielli”, che con il suo art. 8 aveva aggiunto l’art. 94-bis al d.P.R. n. 309 del 1990, riducendo così da quattro a tre anni la pena massima che, per i recidivi, consentiva l’affidamento in prova per l’attuazione di un programma terapeutico di recupero dalla tossicodipendenza; inoltre, l’art. 9 della medesima legge aveva aggiunto la lettera c) al comma 9 dell’art. 656 del codice di procedura penale, escludendo la sospensione della esecuzione della pena per i recidivi, anche se tossicodipendenti inseriti in un programma terapeutico di recupero.
Il Governo, ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di garantire l’efficacia dei citati programmi di recupero anche in caso di recidivi, con l’art. 4 del d.l. n. 272 del 2005 aveva perciò abrogato il predetto art. 94-bis e aveva modificato l’art. 656, comma 9, lettera c), cod. proc. pen., ripristinando la sospensione dell’esecuzione della pena nei confronti dei tossicodipendenti con un programma terapeutico in atto alle condizioni precedentemente previste.
L’art. 4 contiene, pertanto, norme di natura processuale, attinenti alle modalità di esecuzione della pena, il cui fine è quello di impedire l’interruzione dei programmi di recupero dalla tossicodipendenza. Esse riguardano, cioè, la persona del tossicodipendente e perseguono una finalità specifica e ben determinata: il suo recupero dall’uso di droghe, qualunque reato egli abbia commesso, sia esso in materia di stupefacenti o non.
Non così le impugnate disposizioni di cui agli artt. 4-bis e 4-vicies ter, introdotte dalla legge di conversione, le quali invece riguardano gli stupefacenti e non la persona del tossicodipendente. Inoltre, esse sono norme a connotazione sostanziale, e non processuale, perché dettano la disciplina dei reati in materia di stupefacenti.
Si tratta, dunque, di fattispecie diverse per materia e per finalità, che denotano la evidente estraneità delle disposizioni censurate, aggiunte in sede di conversione, rispetto ai contenuti e alle finalità del decreto-legge in cui sono state inserite.
4.3.– Tra gli elementi sintomatici che confermano tale conclusione, si può richiamare la circostanza che lo stesso Parlamento ha dovuto modificare, in sede di conversione, il titolo originario del decreto-legge, ampliandolo con l’aggiunta delle parole «e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309», per includervi la materia disciplinata dalle disposizioni introdotte solo con la legge di conversione. Ciò è indice del fatto che lo stesso legislatore ha ritenuto che le innovazioni introdotte con la legge di conversione non potevano essere ricomprese nelle materie già disciplinate dal decreto-legge medesimo e risultanti dal titolo originario di quest’ultimo.
D’altra parte, non meno significativo è il parere espresso dal Comitato per la legislazione della Camera dei deputati (nella seduta del 1° febbraio 2006) sul disegno di legge C. 6297 di conversione in legge del decreto-legge n. 272 del 2005. In tale parere si rileva che il disegno di legge «reca un contenuto i cui elementi di eterogeneità – peraltro già originariamente presenti nella originaria formulazione di 5 articoli […] – sono stati notevolmente accentuati a seguito dell’inserimento, durante il procedimento di conversione presso il Senato, di una vasta mole di ulteriori disposizioni (recate in 25 nuovi articoli) riguardanti principalmente, ma non esclusivamente, misure di contrasto alla diffusione degli stupefacenti, mutuate da un disegno di legge da tempo all’esame del Senato (S. 2953)».
4.4.– Del resto, la disomogeneità delle disposizioni impugnate rispetto al decreto-legge da convertire assume caratteri di assoluta evidenza, anche alla luce della portata della riforma recata dagli impugnati artt. 4-bis e 4-vicies ter e della delicatezza e complessità della materia incisa dagli stessi.
Infatti, benché contenute in due soli articoli, le modifiche introdotte nell’ordinamento apportano una innovazione sistematica alla disciplina dei reati in materia di stupefacenti, sia sotto il profilo delle incriminazioni sia sotto quello sanzionatorio, il fulcro della quale è costituito dalla parificazione dei delitti riguardanti le droghe cosiddette “pesanti” e di quelli aventi ad oggetto le droghe cosiddette “leggere”, fattispecie differenziate invece dalla precedente disciplina.
Una tale penetrante e incisiva riforma, coinvolgente delicate scelte di natura politica, giuridica e scientifica, avrebbe richiesto un adeguato dibattito parlamentare, possibile ove si fossero seguite le ordinarie procedure di formazione della legge, ex art. 72 Cost.
Si aggiunga che un intervento normativo di simile rilievo – che, non a caso, faceva parte di un autonomo disegno di legge S. 2953 giacente da tre anni in Senato in attesa dell’approvazione – ha finito, invece, per essere frettolosamente inserito in un “maxi-emendamento” del Governo, interamente sostitutivo del testo del disegno di legge di conversione, presentato direttamente nell’Assemblea del Senato e su cui il Governo medesimo ha posto la questione di fiducia (nella seduta del 25 gennaio 2006), così precludendo una discussione specifica e una congrua deliberazione sui singoli aspetti della disciplina in tal modo introdotta.
Inoltre, per effetto del “voto bloccato” che la questione di fiducia determina ai sensi delle vigenti procedure parlamentari, è stato anche impedito ogni possibile intervento sul testo presentato dal Governo, dal momento che all’oggetto della questione di fiducia, non possono essere riferiti emendamenti, sub-emendamenti o articoli aggiuntivi e che su tale oggetto è altresì vietata la votazione per parti separate.
Né la seconda e definitiva lettura presso l’altro ramo del Parlamento ha consentito successivamente di rimediare a questa mancanza, visto che anche in quel caso il Governo ha posto, nella seduta del 6 febbraio 2006, la questione di fiducia sul testo approvato dal Senato, obbligando così l’Assemblea della Camera a votarlo “in blocco”.
Va inoltre osservato che la presentazione in aula da parte del Governo di un maxi-emendamento al disegno di legge di conversione non ha consentito alle Commissioni di svolgere in Senato l’esame referente richiesto dal primo comma dell’art. 72 Cost.
Per di più, l’imminente fine della legislatura (intervenuta con il d.P.R. 11 febbraio 2006, n. 32, recante «Scioglimento del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati») e l’assoluta urgenza di convertire alcune delle disposizioni contenute nel decreto-legge originario, tra cui quelle riguardanti la sicurezza e il finanziamento delle Olimpiadi invernali di Torino 2006, impedivano di fatto allo stesso Presidente della Repubblica di fare uso della facoltà di rinvio delle leggi ex art. 74 Cost., non disponendo, tra l’altro, di un potere di rinvio parziale.
In questo senso sono, infatti, i rilievi contenuti nei ripetuti interventi da parte del Presidente della Repubblica – lettera inviata il 27 dicembre 2013 ai Presidenti del Senato e della Camera, sulle modalità di svolgimento dell’iter parlamentare di conversione in legge del decreto-legge c.d. “salva Roma” (decreto-legge 31 ottobre 2013, n. 126); lettera inviata il 23 febbraio 2012 ai Presidenti del Senato e della Camera; lettera inviata il 22 febbraio 2011 ai Presidenti del Senato e della Camera; messaggio inviato alle Camere il 29 marzo 2002) – e, recentemente, anche da parte del Presidente del Senato (comunicato del Presidente del Senato inviato il 28 dicembre 2013), interventi tutti volti a segnalare l’abuso dell’istituto del decreto-legge e, in particolare, l’uso improprio dello strumento della legge di conversione, in violazione dell’art. 77, secondo comma, Cost.
Ben si comprende, pertanto, proprio alla luce di quanto accaduto nel caso di specie, come il rispetto del requisito dell’omogeneità e della interrelazione funzionale tra disposizioni del decreto-legge e quelle della legge di conversione ex art. 77, secondo comma, Cost. sia di fondamentale importanza per mantenere entro la cornice costituzionale i rapporti istituzionali tra Governo, Parlamento e Presidente della Repubblica nello svolgimento della funzione legislativa.
4.5.– Conclusivamente sul punto, deve osservarsi che, nel caso sottoposto all’esame della Corte, risultano contestualmente presenti plurimi indici che rendono manifesta l’assenza di ogni nesso di interrelazione funzionale tra le disposizioni impugnate e le originarie disposizioni del decreto-legge.
In difetto del necessario legame logico-giuridico, richiesto dall’art. 77, secondo comma, Cost., i censurati artt. 4-bis e 4-vicies ter devono ritenersi adottati in carenza dei presupposti per il legittimo esercizio del potere legislativo di conversione e perciò costituzionalmente illegittimi.
Trattandosi di un vizio di natura procedurale, che peraltro – come si è detto – si evidenzia solo ad un’analisi dei contenuti normativi aggiunti in sede di conversione, la declaratoria di illegittimità costituzionale colpisce per intero le due disposizioni impugnate e soltanto esse, restando impregiudicata la valutazione di questa Corte in relazione ad eventuali ulteriori impugnative aventi ad oggetto altre disposizioni della medesima legge.
5.– In considerazione del particolare vizio procedurale accertato in questa sede, per carenza dei presupposti ex art. 77, secondo comma, Cost., deve ritenersi che, a seguito della caducazione delle disposizioni impugnate, tornino a ricevere applicazione l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 e le relative tabelle, in quanto mai validamente abrogati, nella formulazione precedente le modifiche apportate con le disposizioni impugnate.
Il potere di conversione non può, infatti, considerarsi una mera manifestazione dell’ordinaria potestà legislativa delle Camere, in quanto la legge di conversione ha natura «funzionalizzata e specializzata» (sentenza n. 22 del 2012 e ordinanza n. 34 del 2013). Essa presuppone un decreto da convertire, al cui contenuto precettivo deve attenersi, e per questo non è votata articolo per articolo, ma in genere è composta da un articolo unico, sul quale ha luogo la votazione – salva la eventuale proposizione di emendamenti, nei limiti sopra ricordati – nell’ambito di un procedimento ad hoc (art. 96-bis del Regolamento della Camera; art. 78 del Regolamento del Senato), che deve necessariamente concludersi entro sessanta giorni, pena la decadenza ex tunc del provvedimento governativo. Nella misura in cui le Camere non rispettano la funzione tipica della legge di conversione, facendo uso della speciale procedura per essa prevista al fine di perseguire scopi ulteriori rispetto alla conversione del provvedimento del Governo, esse agiscono in una situazione di carenza di potere.
In tali casi, in base alla giurisprudenza di questa Corte, l’atto affetto da vizio radicale nella sua formazione è inidoneo ad innovare l’ordinamento e, quindi, anche ad abrogare la precedente normativa (sentenze n. 123 del 2011 e n. 361 del 2010). Sotto questo profilo, la situazione risulta assimilabile a quella della caducazione di norme legislative emanate in difetto di delega, per le quali questa Corte ha già riconosciuto, come conseguenza della declaratoria di illegittimità costituzionale, l’applicazione della normativa precedente (sentenze n. 5 del 2014 e n. 162 del 2012), in conseguenza dell’inidoneità dell’atto, per il radicale vizio procedurale che lo inficia, a produrre effetti abrogativi anche per modifica o sostituzione.
Deve, dunque, ritenersi che la disciplina dei reati sugli stupefacenti contenuta nel d.P.R. n. 309 del 1990, nella versione precedente alla novella del 2006, torni ad applicarsi, non essendosi validamente verificato l’effetto abrogativo.
È appena il caso di aggiungere che la materia del traffico illecito degli stupefacenti è oggetto di obblighi di penalizzazione, in virtù di normative dell’Unione europea. Più precisamente la decisione quadro n. 2004/757/GAI del 2004 fissa norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti, richiedendo che in tutti gli Stati membri siano punite alcune condotte intenzionali, allorché non autorizzate, fatto salvo il consumo personale, quale definito dalle rispettive legislazioni nazionali. Pertanto, se non si determinasse la ripresa dell’applicazione delle norme sanzionatorie contenute nel d.P.R. n. 309 del 1990, resterebbero non punite alcune tipologie di condotte per le quali sussiste un obbligo sovranazionale di penalizzazione. Il che determinerebbe una violazione del diritto dell’Unione europea, che l’Italia è tenuta a rispettare in virtù degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.
6.– Stabilito, quindi, che una volta dichiarata l’illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate riprende applicazione l’art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 nel testo anteriore alle modifiche con queste apportate, resta da osservare che, mentre esso prevede un trattamento sanzionatorio più mite, rispetto a quello caducato, per gli illeciti concernenti le cosiddette “droghe leggere” (puniti con la pena della reclusione da due a sei anni e della multa, anziché con la pena della reclusione da sei a venti anni e della multa), viceversa stabilisce sanzioni più severe per i reati concernenti le cosiddette “droghe pesanti” (puniti con la pena della reclusione da otto a venti anni, anziché con quella da sei a venti anni).
È bene ribadire che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, sin dalla sentenza n. 148 del 1983, si è ritenuto che gli eventuali effetti in malam partem di una decisione della Corte non precludono l’esame nel merito della normativa impugnata, fermo restando il divieto per la Corte (in virtù della riserva di legge vigente in materia penale, di cui all’art. 25 Cost.) di «configurare nuove norme penali» (sentenza n. 394 del 2006), siano esse incriminatrici o sanzionatorie, eventualità questa che non rileva nel presente giudizio, dal momento che la decisione della Corte non fa altro che rimuovere gli ostacoli all’applicazione di una disciplina stabilita dal legislatore.
Quanto agli effetti sui singoli imputati, è compito del giudice comune, quale interprete delle leggi, impedire che la dichiarazione di illegittimità costituzionale vada a detrimento della loro posizione giuridica, tenendo conto dei principi in materia di successione di leggi penali nel tempo ex art. 2 cod. pen., che implica l’applicazione della norma penale più favorevole al reo.
Analogamente, rientra nei compiti del giudice comune individuare quali norme, successive a quelle impugnate, non siano più applicabili perché divenute prive del loro oggetto (in quanto rinviano a disposizioni caducate) e quali, invece, devono continuare ad avere applicazione in quanto non presuppongono la vigenza degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, oggetto della presente decisione.
7.– La decisione di cui sopra assorbe l’ulteriore questione sollevata in via subordinata dalla Corte di cassazione.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 4-bis e 4-vicies ter, del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 272 (Misure urgenti per garantire la sicurezza ed i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi e modifiche al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2006, n. 49.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 febbraio 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Marta CARTABIA, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere

Originally posted 2020-01-23 16:41:59.