Reati edilizi FALSITA’ IN ATTI › Falsità ideologica: Il certificato di collaudo finale non è il provvedimento conclusivo del procedimento

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Agli imputati si contesta di avere, in qualità di direttori dei lavori realizzati in (Omissis) sull’edificio denominato (Omissis), falsamente attestato nella certificazione di collaudo finale presentata in data 2 agosto 2012 ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 23 che le opere realizzate erano conformi ai tipi progettuali presentati con la dichiarazione di inizio attività del 22 ottobre 2009.

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Il certificato di collaudo finale non è il provvedimento conclusivo del procedimento iniziato con la segnalazione certificata di inizio attività, che si conclude con il rilascio del titolo edilizio, la cui sussistenza, secondo quanto previsto dal citato art. 23, comma 5, è provata con la copia della segnalazione certificata di inizio attività da cui risulti la data di ricevimento della segnalazione, l’elenco di quanto presentato a corredo del progetto, l’attestazione del professionista abilitato, nonchè gli atti di assenso eventualmente necessari

Cass. pen., Sez. V, Sent., (data ud. 15/09/2023) 25/10/2023, n. 43299 EDILIZIA E URBANISTICA › Reati edilizi FALSITA’ IN ATTI › Falsità ideologica Intestazione REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. PEZZULLO Rosa – Presidente – Dott. Scarl INI Enrico V. S. – Consigliere – Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere – Dott. ROMANO Michele – rel. Consigliere – Dott. CIRILLO Pierangelo – Consigliere – ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: 1. A.A., nata a (Omissis); 2. B.B., nato a (Omissis); avverso la sentenza del 21/10/2022 della Corte di appello di Salerno; visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. ROMANO Michele; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GAETA Pietro, che ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi; udito il difensore delle parti civili C.C., D.D. e E.E., avv. DELLA MONICA Giuseppe, che ha concluso associandosi alle conclusioni del Procuratore generale e ha depositato conclusioni scritte e nota spese; udito il difensore dei ricorrenti, avv. DE CARO Agostino, anche in sostituzione dell’avv. MONTI Francesco, che ha chiesto l’accoglimento dei ricorsi. Svolgimento del processo 1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Salerno ha parzialmente riformato la sentenza del Tribunale di Salerno del 18 dicembre 2019 che aveva affermato la penale responsabilità di A.A. e B.B. per il reato di cui all’art. 481 c.p. e li aveva condannati alla pena ritenuta di giustizia e al risarcimento, da liquidarsi separatamente, in favore delle parti civili C.C., D.D. e E.E.. In particolare, la Corte di appello ha dichiarato non doversi procedere nei confronti degli imputati per il reato loro ascritto perchè estinto per prescrizione e ha confermato le statuizioni civili. Agli imputati si contesta di avere, in qualità di direttori dei lavori realizzati in (Omissis) sull’edificio denominato (Omissis), falsamente attestato nella certificazione di collaudo finale presentata in data 2 agosto 2012 ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 23 che le opere realizzate erano conformi ai tipi progettuali presentati con la dichiarazione di inizio attività del 22 ottobre 2009. 2. Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso A.A. e B.B., a mezzo dei loro difensori, chiedendone l’annullamento ed articolando cinque motivi. 2.1. Con il primo, il secondo ed il terzo motivo, che vengono argomentati cumulativamente nell’atto introduttivo, i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), la violazione dell’art. 481 c.p. e dell’art. 23, comma 7, e 9-bis, comma 1-bis), nella parte in cui la sentenza impugnata afferma la sussistenza di un falso implicito, nonchè la violazione dell’art. 129 c.p.p., comma 2, e la mancanza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione. La Corte territoriale, segnalano i ricorrenti, ha ritenuto sussistente la falsità implicita del certificato di collaudo, affermando che il presupposto del corretto “positivo” collaudo è l’intera procedura, quanto meno nei suoi segmenti essenziali, mentre nel caso di specie il progetto dava atto di uno stato di fatto ante operam diverso da quello reale falsamente attestato. Sostengono, allora, i ricorrenti, che la funzione del certificato di collaudo non è quella di attestare la regolarità del procedimento che ha condotto al rilascio della D.I.A., ma solo quella, appunto, di attestare la conformità delle opere eseguite a quelle assentite. Il precedente di legittimità richiamato dalla Corte di appello (Sez. 5, n. 28594 del 28/03/2018, Buonocunto, Rv. 273638, secondo il quale l’accertamento circa la falsità del contenuto della attestazione non riguarda solo la formulazione espressa, ma anche i suoi presupposti necessari, e cioè le c.d. attestazioni implicite, quando una determinata attività, non menzionata nell’atto, costituisce indefettibile presupposto di l’atto o condizione normativa dell’attestazione stessa) riguarda un’ipotesi in cui sussiste una inscindibile correlazione tra quanto formalmente affermato e quanto ne costituisce un presupposto indispensabile. Nel caso di specie, sostengono i ricorrenti, tale inscindibile correlazione non sussiste e la verità del certificato di collaudo non è condizionata dalla verità dalla rappresentazione dello stato di fatto dell’edificio ante operam fornita alla pubblica amministrazione ai fini del rilascio del provvedimento autorizzativo. Il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 23, comma 7, prevede che, ultimato l’intervento, il progettista o un tecnico abilitato rilascia un certificato di collaudo finale, che va presentato allo sportello unico, con il quale si attesta la conformità dell’opera al progetto presentato con la segnalazione certificata di inizio di attività e tale disposizione andrebbe letta tenendo presente che l’art. 9-bis, comma 1-bis, dello stesso D.P.R. stabilisce che lo stato legittimo dell’immobile o dell’unità immobiliare è quello stabilito dal titolo abilitativo che ne ha previsto la costruzione o che ne ha legittimato la stessa e da quello che ha disciplinato l’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’intero immobile o unitàimmobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi che hanno abilitato interventi parziali. Da tali disposizioni emerge che il collaudo finale deve solo attestare la conformità delle opere realizzate al progetto allegato alla D.I.A. e non la regolarità del procedimento amministrativo che ha condotto al rilascio del titolo abilitativo e quindi nemmeno la falsità di talune tavole progettuali volte a descrivere lo stato di fatto ante operam. E’ pacifico, sostengono i ricorrenti, che il certificato di collaudo ha attestato il vero quanto alla conformità delle opere realizzate a quelle progettate ed assentite; le opere eseguite sono parte di quelle autorizzate con la D.I.A. del 2009, in quanto sono sopravvenuti problemi di carattere strutturale. E’ ben vero che nel caso di specie coloro che hanno redatto il certificato di collaudo finale sono anche coloro che hanno redatto i progetti allegati alla D.I.A. ai fini del rilascio del provvedimento autorizzativo e, quindi, sapevano della falsità delle tavole progettuali relative allo stato di fatto ante operam, ma non bisogna confondere il profilo del dolo con il contenuto del certificato di collaudo finale e la sua funzione che resta solo quella di attestare la conformità di quanto realizzato a quanto progettato e non la legittimità del provvedimento amministrativo che ha autorizzato l’opera; semmai lo scopo del collaudo finale è quello di verificare la regolarità di quanto realizzato dopo il rilascio del titolo che consente l’esecuzione delle opere. Spesso il collaudatore è soggetto diverso dal progettista e non si può pretendere dallo stesso di attestare, con il certificato di collaudo finale, la legittimità del provvedimento amministrativo che consente l’esecuzione dei lavori. Peraltro, sostengono i ricorrenti, nel caso di specie i lavori sono stati eseguiti sulla base di una DIA la cui legittimità non è mai stata verificata e che deve presumersi legittima; difatti la sentenza della Corte di appello di Salerno del 30 ottobre 2020, ormai passata in giudicato, aveva ad oggetto proprio la falsità che aveva condotto all’emissione del provvedimento che aveva autorizzato le opere e il processo si era concluso con l’assoluzione dell’imputato e la conferma della validità della D.I.A.. Aveva errato la Corte di appello nell’affermare che la rappresentazione grafica dello stato di fatto ante operam allegata alla D.I.A. era falsa, poichè siffatta affermazione, peraltro apodittica, era smentita dal materiale istruttorio ed in particolare dalla relazione del consulente tecnico del Pubblico ministero, della quale i ricorrenti riportano ampi stralci nel loro atto introduttivo. Aggiungono i ricorrenti che i lavori effettivamente eseguiti, oltre ad essere solo una parte di quelli assentiti, non hanno avuto ad oggetto le parti del fabbricato che sarebbero state falsamente rappresentate nello stato di fatto ante operam allegato alla D.I.A. In ogni caso, la DIA è da ritenersi legittima e comunque il certificato finale di collaudo ha la funzione di attestare esclusivamente la conformità delle opere eseguite al progetto allegato alla D.I.A. ed il reato deve, quindi, ritenersi insussistente e la sentenza impugnata, anche laddove dichiara il reato estinto per prescrizione, deve essere annullata senza rinvio, in applicazione dell’art. 129 c.p.p., comma 2. Nè risulta provata la responsabilità civile dei ricorrenti. 2.2. Con il quarto ed il quinto motivo, anch’essi sviluppati unitariamente nell’atto introduttivo, i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) e c), la violazione della legge penale e processuale penale, laddove la Corte di appello ha ritenuto sussistente la loro responsabilità civile, l’esistenza di un danno risarcibile ed un nesso causale tra la loro condotta ed il danno lamentato dalle parti civili, nonchè, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), la mancanza di motivazione sugli stessi punti. Segnalano i ricorrenti che essi avevano chiesto di riformare la sentenza di primo grado anche in relazione alle statuizioni civili e a tal fine avevano prodotto una sentenza della medesima Corte di appello, ormai passata in giudicato, con la quale sono state rigettate le domande di risarcimento danni avanzate dalle parti civili, le stesse costituitesi nel presente processo, per l’esecuzione dei lavori autorizzati con la DIA del 2009; in proposito, con quella sentenza, la Corte di appello ha affermato che non sono derivati danni dalla esecuzione dei lavori e che eventuali danni erano imputabili ai pregressi interventi attuati sull’immobile. La Corte di appello, con la sentenza qui impugnata, ha invece accolto la domanda delle parti civili sulla base di argomenti non condivisibili, come la diversità della qualità degli imputati nei due processi o il diverso andamento processuale, che non potevano incidere sulla sussistenza del diritto al risarcimento del danno. In ogni caso la Corte di appello ha motivato la condanna al risarcimento sulla base della mera eventualità che le parti civili abbiano subito un danno e non sulla base della sua concreta sussistenza e sulla sua riconducibilità alla condotta degli imputati. Nè le ragioni della condanna al risarcimento possono ricavarsi dalla sentenza di primo grado, che sul punto non motiva affatto. WOLTERS KLUWER ONE LEGALE © Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l. 31 Ottobre 2023 pag. 3 Peraltro, le porzioni immobiliari di proprietà delle parti civili si trovano in una parte del (Omissis) non interessata dagli interventi edilizi assentiti con la DIA del 2009. Motivi della decisione 1. I primi tre motivi di ricorso sono complessivamente infondati. L’art. 481 c.p. punisce chi, nello svolgimento di un servizio di pubblica necessità, “attesta falsamente, in un certificato, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”. Occorre, quindi, per la sussistenza del reato, che esista una norma che attribuisca all’agente il potere di attestare determinati fatti in un atto, il certificato, al quale l’ordinamento assegna la funzione di provare i fatti stessi. Tale norma, nel caso di specie, è individuabile nel D.P.R. n. 380 del 2001, art. 23. Tale disposizione prevede, in realtà, due distinte certificazioni. Il D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 23, comma 1, come sostituito dal D.Lgs. 27 dicembre 2002, n. 83, art. 1, comma 1, lett. f), prevede che “Il proprietario dell’immobile o chi abbia titolo per presentare la denuncia di inizio attività, almeno trenta giorni prima dell’effettivo inizio dei lavori, presenta allo sportello unico la denuncia, accompagnata da una dettagliata relazione a firma di un progettista abilitato e dagli opportuni elaborati progettuali, che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati e non in contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti, nonchè il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico sanitarie”. Dalla lettura coordinata e sistematica della normativa di riferimento (D.P.R. n. 380 del 2001, art. 23, commi 1 e 6, e art. 29, comma 3), emerge un “sostanziale affidamento” riposto dall’ordinamento sulla relazione tecnica che accompagna il progetto e sulla sua veridicità, atteso che la relazione si sostituisce, in via ordinaria, ai controlli dell’ente territoriale ed offre le garanzie di legalità e correttezza dell’intervento. La relazione del tecnico abilitato costituisce un atto non solo idoneo ad integrare la dichiarazione di inizio dell’attività, ma anche dotato di piena autonomia e di valore pubblicistico, assumendo valore sostitutivo del titolo edilizio abilitante e quindi certificativo. Sulla base di tali considerazioni questa Corte di cassazione già in passato ha affermato che “… le false attestazioni contenute nella relazione di accompagnamento alla dichiarazione di inizio di attività edilizia (DIA) integrano il reato di falsità ideologica ex art. 481 c.p., in quanto detta relazione ha natura di certificato in ordine alla descrizione dello stato dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull’area o sull’immobile interessati dall’intervento, alla rappresentazione delle opere chesi intende realizzare e all’attestazione della loro conformità agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio” (Sez. 5, n. 21159 del 30/11/2016, dep. 2017, Gandini, Rv. 269924; Sez. 3, n. 50621 del 18/06/2014, Cazzato, Rv. 261513; Sez. 3, n. 35795 del 17/04/2012, Palotta, Rv. 253666; Sez. 3, n. 1818 del 21/10/2008, Baldessari, Rv. 242478; Sez. 5, n. 15860 del 21/03/2006, Stivalini, Rv. 234601). Il citato art. 23, comma 7 prevede, invece, che “Ultimato l’intervento, il progettista o un tecnico abilitato rilascia un certificato di collaudo finale, che va presentato allo sportello unico, con il quale si attesta la conformità dell’opera al progetto presentato con la segnalazione certificata di inizio attività. Contestualmente presenta ricevuta dell’avvenuta presentazione della variazione catastale conseguente alle opere realizzate ovvero dichiarazione che le stesse non hanno comportato modificazioni del classamento. In assenza di tale documentazione si applica la sanzione di cui all’art. 37, comma 5.” L’art. 23, comma 7 attribuisce al certificato di collaudo finale solo la funzione di attestare la conformità delle opere realizzate al progetto presentato unitamente alla denuncia di inizio attività e non la legittimità del titolo abilitativo o la sussistenza dei requisiti cui è subordinato il rilascio del titolo che autorizza l’esecuzione dell’intervento edilizio. Il certificato di collaudo finale non è il provvedimento conclusivo del procedimento iniziato con la segnalazione certificata di inizio attività, che si conclude con il rilascio del titolo edilizio, la cui sussistenza, secondo quanto previsto dal citato art. 23, comma 5, è provata con la copia della segnalazione certificata di inizio attività da cui risulti la data di ricevimento della segnalazione, l’elenco di quanto presentato a corredo del progetto, l’attestazione del professionista abilitato, nonchè gli atti di assenso eventualmente necessari. Ne consegue, sulla base del tenore del citato art. 23, comma 7, che il progettista o il tecnico abilitato, nel redigere il certificato finale di collaudo, devono solo attestare che le opere realizzate sono conformi al progetto allegato alla segnalazione di inizio di attività, senza verificare se il titolo abilitativo rilasciato sia o meno legittimo. Colui che redige il certificato finale di collaudo, che può essere anche un soggetto diverso dal progettista, non deve spingersi a verificare la regolarità del procedimento amministrativo conclusosi con il titolo edilizio. In relazione a quest’ultimo è il progettista che ha sottoscritto il progetto allegato alla segnalazione di inizio di attività che sarà responsabile penalmente ai sensi dell’art. 581 c.p. in caso di false attestazioni contenute negli elaborati da lui redatti e presentati ai fini del rilascio del titolo edilizio. Non può quindi trovare applicazione nel caso di specie il principio richiamato dalla Corte territoriale secondo il quale l’accertamento circa la falsità del contenuto della attestazione non riguarda solo la formulazione espressa, ma anche i suoi presupposti necessari, e cioè le c.d. attestazioni implicite, quando una determinata attività, non menzionata nell’atto, costituisce indefettibile presupposto di fatto o condizione normativa dell’attestazione stessa (Sez. 5, n. 28594 del 28/03/2018, Buonacunto, Rv. 273638), poichè la regolarità del procedimento amministrativo che ha condotto al rilascio del titolo edilizio non costituisce indefettibile presupposto di fatto o condizione normativa del certificato finale di collaudo. Deve, a tale proposito, osservarsi che il Consiglio di Stato (Sentenza Consiglio di Stato 14 marzo 2023, n. 2661) ha affermato che il silenzio assenso può formarsi anche su domande non conformi alle previsioni urbanistiche, in quanto ammettere la possibilità di un provvedimento di diniego tardivo contrasterebbe con il principio di collaborazione e buona fede e, quindi, di tutela del legittimo affidamento cui sono informate le relazioni tra i cittadini e l’Amministrazione. Ove si sia formato il silenzio assenso, l’amministrazione non può formulare un provvedimento di diniego, ma deve procedere con un annullamento in autotutela, ai sensi della L. n. 241 del 1990, art. 21-nonies, possibile solo se sussista un interesse pubblico concreto ed attuale alla rimozione dell’atto illegittimo diverso dal mero ripristino della legalità. L’esclusione che il tecnico abilitato possa rilasciare il certificato di collaudo finale, attestando la conformità delle opere eseguite al progetto allegato alla DIA in presenza di un titolo edilizio che autorizza l’esecuzione di opere non conformi alle prescrizioni urbanistiche si pone in contrasto con i principi affermati dal giudice amministrativo e, nell’ipotesi suddetta” esporrebbe comunque il cittadino alla sanzione di cui all’art. 37, comma 5, anche laddove si sia formato il silenzio-assenso e non vi sia un interesse pubblico alla rimozione del provvedimento illegittimo. Tuttavia, sulla base della ricostruzione fattuale operata dai giudici del merito, le opere realizzate risultano diverse da quelle assentite sulla base della DIA rilasciata. Difatti, secondo quanto affermato nelle due sentenze di merito, talune delle opere realizzate risultavano già realizzate sia nella rappresentazione dello stato di fatto ante operam allegata alla DIA, sia nella rappresentazione dello stato di fatto post operam. In sostanza, secondo il titolo abilitativo, talune opere erano già state eseguite prima dell’intervento edilizio oggetto del provvedimento abilitativo, con la conseguenza che questo non offre copertura giuridica a tutte le opere che, successivamente al rilascio del titolo abilitativo, sono state realizzate sull’immobile. In sostanza, pur dovendosi riconoscere che la funzione del certificato di collaudo non è quella di attestare la regolarità del procedimento che ha condotto al rilascio del titolo abilitativo, ma solo la corrispondenza delle opere eseguite al titolo stesso, nel caso di specie il falso ideologico sussiste, poichè le opere eseguite non sono state solo quelle assentite, essendo stati realizzati, successivamente al rilascio del titolo edilizio, anche interventi ulteriori che sono stati fatti apparire come già esistenti al momento della presentazione della DIA. Ne consegue che è irrilevante la legittimità o meno della DIA in relazione alle opere assentite, atteso che oggetto della falsità non sono le opere da questa autorizzate, ma quelle eseguite in eccesso rispetto a queste. Laddove, invece, i ricorrenti sostengono che le opere eseguite sono solo parte di quelle autorizzate, che la falsità della rappresentazione grafica dello stato di fatto ante operam allegata alla D.I.A. non sarebbe dimostrata e sarebbe finanche smentita dal materiale istruttorio o che i lavori effettivamente eseguiti non hanno avuto ad oggetto le parti del fabbricato che sarebbero state falsamente rappresentate nello stato di fatto ante operam allegato alla D.I.A., essi sollevano censure di merito invocando una rivalutazione del materiale istruttorio non consentita in questa sede di legittimità. 2. Il quarto ed il quinto motivo di ricorso sono anch’essi infondati. Ai fini della condanna generica al risarcimento dei danni, non è sufficiente la sussistenza di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose, occorrendo la prova, sia pure con modalità sommaria, dell’an debeatur, atteso che è rinviata al separato giudizio civile la sola determinazione quantitativa del danno (Sez. 2, n. 31574 del 09/05/2023, Abatiello, Rv. 284954). Tuttavia, nel caso di specie, secondo la ricostruzione fattuale operata dai giudici del merito, è stata fornita la prova, sia pure sommarie, dell’esistenza di un danno risarcibile, in quanto i ricorrenti hanno attestato la conformità al titolo edilizio di interventi in realtà non assentiti ed eseguiti su un bene soggetto a vincolo ai sensi del D.Lgs. n. 42 del 2004 e che, in quanto tali, possono determinare la necessità di interventi di ripristino allo stato preesistente per effetto di provvedimenti repressivi, con conseguente dispendio di denaro del condominio di cui le parti civili fanno parte e riduzione del valore dell’immobile. Nè può rilevare che gli appartamenti delle parti civili si trovino in una sezione del palazzo condominiale non interessata dalle opere, poichè comunque i lavori, avendo interessato quanto meno una facciata, concernono le parti di proprietà comune di tutti i condomini e quindi anche delle parti civili costituite. 3. Al rigetto dei ricorsi consegue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Inoltre, ai sensi dell’art. 541 c.p.p., i ricorrenti, rimasti soccombenti, devono essere condannati in solido alla rifusione, in favore delle parti civili, delle spese da queste sostenute, che si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, i ricorrenti alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili difese dall’avv. Della Monica Giuseppe che liquida in complessivi Euro 3.500 oltre accessori di legge. Conclusione Così deciso in Roma, il 15 settembre 2023.